martedì 3 settembre 2013

Putiferio Miles Davis


Me lo ricordo bene Miles Davis in quella sala scarlatta di un hotel esclusivo, a Roma. Quella conferenza per pochi intimi - cinque giornalisti in totale - e tempo a sufficienza per farsi raccontare almeno un aneddoto inedito dal Dark Magus. Era il 5 aprile del 1989. Davis tornava nella Capitale per un concerto di lusso alla Geotenda dell’Eur, una struttura futuribile durata meno del viaggio di un neutrino. Show e cena a 250mila lire, una cifra che aveva scatenato polemiche e annunci «di guerra» degli autoriduttori. Tanto che poi lo spettacolo era saltato e gli organizzatori del tour avevano optato per uno show-case per gli addetti ai lavori ma allargato al pubblico. Mezz’ora in totale. A 80mila lire. E invece, nella sala scarlatta, il gloriosus Miles arrivò senza denaro in cambio, e forse anche per questo più ombroso del solito. 

Era un uomo minuto Miles Davis, elegantissimo, con una maglia di Missoni e degli stivaletti in pitone, grandi occhiali scuri e mani lunge, curate, bellissime. Era un uomo che aveva un’aura elettrica attorno Miles, che si portava a spasso la consapevolezza di aver spostato il baricentro della musica. Arrogante, geniale. Disse due parole sul suo nuovo album. «Si intitolerà Amandla, che in sudafricano vuol dire “libertà”. È il mio appoggio alla causa antirazzista». 

NON È PERTINENTE... Era lì a un passo Miles Davis, con quella sua anima tumultuosa e blu su uno sfondo scarlatto. «Domande? Avete domande da farmi?». Uno dei giornalisti in sala alzò la mano. Era emozionato come tutti noi. Inciampò un po’ con l’inglese, chiese: «Può dirci qualcosa di questo suo nuovo lavoro? Delle sonorità....». Non lo fece neanche finire. Si infuriò. «Non è una domanda pertinente. Il mio suono sono io. Che suono dovrebbe avere un disco di Miles Davis?». Aveva una voce roca ma leggermente stridula, qualche tono sopra il pentagramma. Poi iniziò ad agitare le mani, quelle mani bellissime che disegnavano cerchi nell’aria come a circoscrivere un pensiero, un assolo. Le mani che stringevano la tromba più incandescente del jazz, l’unica che continua ad avere una voce più che un timbro. 

Passarono due interminiabili minuti di silenzio imbarazzato. Miles si alzò. «Non credo ci sia altro da dirci. Penso, invece, sarebbe più utile che voi incontraste i miei musicisti. È gente interessante...».. Se ne andò in un lampo il più fantastico e insopportabile principe d'ebano dell'universo. Girò i tacchi pitonati e ci lasciò attoniti nella «red room». Era black satin, proprio come la sua musica. Musica di scosse e lampi nel cervello. Musica che mette addosso un terrore reverenziale tanto è tanta, tanto è oltre. Gelido Miles. Un iceberg col cuore a corrente alternata. Cuore di fuoco e terremoto. Putiferio Davis. Altero e perfettamente a modo. Il suo. 

A Roma il Magus ritornò due anni dopo, il 23 luglio del 1991, allo stadio Olimpico. C’era una folla imponente, da grandi occasioni, stipata tra gli spalti. Prima di lui suonò Pat Metheny. La gente si spellò le mani. Quando Metheny finì la gig metà del pubblico andò via con il chitarrista. Rimanemmo in pochi. Davis era un puntino sul palco, imbracciò la tromba con parsimonia, ma guidò la band come un direttore d’orchestra consumato, sventagliando note dal retrogusto di un temporale. Fu uno dei suoi ultimi concerti.

Daniela Amenta
(L'Unità 28 settembre 2011)

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