sabato 23 luglio 2016

Na specie di Gig Robo'

Ad alcuni fortunati  la rivista 8 1/2  dell'istituto Luce/Cinecittà chiede di riscrivere  un film in chiave romanzata.
Questo è il mio. 







Ceccotti Enzo salì sul Colosseo. Dall'alto controllò ancora una volta la città. Nonostante l'aria

gassosa, torbida, carica di polveri sottili e smog, riconobbe ogni cupola, i profili dei monumenti. Il

nitore incandescente, volgare, dell'Altare della Patria, i bagliori verdi del Pantheon, il cerchio dello

stadio Olimpico, perfino la Madonnina d'oro di Montemario vide, e la salutò con rispetto,

facendosi il segno della croce. “Ave o Maria”, mormorò in un imprevisto fremito mistico che quasi

lo commosse. Contò i gabbiani, ma quanti so' pensò Ceccotti Enzo. “Troppi, dovrebbero sta al

mare e invece pure loro hanno invaso 'sta città. Siamo circondati da civiltà nemiche. Qui chi arriva

s'accomoda e a noi de Roma ce tocca de sta' al palo”. Uno degli uccelli, grosso e muscoloso, con il

becco giallo e gli occhi spiritati, iniziò a volteggiargli attorno. Ceccotti Enzò allungò il dito, pensò

che l'avrebbe potuto fulminare con una semplice scarica elettrica, uno dei super poteri che la sorte

gli aveva consegnato dopo un tuffo nel Tevere. E mentre rifletteva se fosse il caso di allontanarlo o

di finirlo, il gabbiano si alzò in volo, prese la mira e gli lasciò un “ricordino” sulla spalla. Poi

scappò via, sghignazzando come un criminale. “Mortacci tua, se te ripresenti te faccio arrosto con

il laser perforante”, urlò Ceccotti, tornato in sé dopo la momentanea parentesi mariana,

L'alba era diventata giorno, intanto. E la luce si era impadronita della città. Il riverbero che saliva

dall'asfalto di via dei Fori Imperiali era così luccicante, e denso, che Enzo si infilò un paio di

occhiali scuri, simil Ray­Ban. Erano, nella realtà, un nuovo prototipo di maschera che potenziava i

raggi gamma e moltiplicava la vista, come se avesse due telescopi al posto delle lenti. Provò a

cercare nello skyline le torri di casa sua, le “towers” di Tor Bella Monaca. Ma nonostante gli sforzi

non le trovò. “Pure la tecnologia alla fine ce molla, non è più quella de un tempo” ragionò con una

punta di amarezza Ceccotti Enzo, detto Jeeg. Si concentrò allora su San Pietro, a un passo

quell'anello tondo, tozzo, con le fondamenta piantate nel fiume: Castel Sant'Angelo. Tentò di

scartabellare tra i files della memoria, ai tempi della scuola media in via dell'Archeologia quando

l'insegnante, la professoressa Bellini Maria, spiegava alla classe la storia di Roma e Roma

sembrava lontanissima, un'altra città, mille chilometri distante da quell'aula scrostata, dai banchi

vecchi, ricoperti di scritte incise coi coltellini. Castel Sant'Angelo era forse stata una prigione?

C'era un fosso con i coccodrilli? I detenuti morivano di fame in segrete buie e terribili circondati da

topi e pipistrelli? E quelli che sopravvivevano agli stenti finivano sotto la scure di Mastro Titta

mentre il pubblico applaudiva? “Me sa de sì” sussurrò Jeeg Ceccotti. E penso anche che la città

che si allargava come un tumore maligno sotto le sue scarpe di camoscio era sempre stata feroce.

Cattiva e dura. E implacabile con i deboli, con chi come lui avrebbe voluto studiare, che a scuola

andava pure bene, ma non c'erano soldi a casa, non c'erano sogni. E suo padre era stato chiaro:

“Trovate un lavoro, che qui semo in sette. E io non ce la faccio a sfama' tutti”. E a 15 anni aveva

iniziato a lavare tazzine al bar, poi allo sportello della Sala Corse, poi ragazzo di fatica allo

smorzo, poi pure qualche scippo col motorino truccato, tanto per arrotondare. E i guai con le

guardie, i tre gradini di Regina Coeli percorsi avanti e indietro più volte.

Socchiuse gli occhi a fessura e inquadrò il carcere sul Lungotevere. Chissà se là dentro c'erano

ancora gli amici della banda del Raccordo, quelli delle corse illegali a 200 all'ora puntando sul

primo che si schiantava... “D'altra parte – si disse – sto proprio sul Colosseo, chissà quanto sangue

hanno visto 'ste pietre, quanti lamenti, quanta morte”. Provò uno struggimento grande Ceccotti

Enzo, una sensazione di vuoto allo stomaco che pensò fosse fame e che invece era pietà. Pietas,

anzi.

I rumori della città, ora, erano diventati assordanti anche da lassù. “Stò 'n missione, 'a bbelli, ve

devo da sarvà”, urlò a un gruppo di disperati in attesa di un autobus da almeno mezzora davanti

alla fermata della metro B. Quelli non lo sentirono, ma lui provò una vaga soddisfazione ad

ufficializzare il compito che il destino gli aveva affidato. Srotolò uno striscione, urlò ancora. Urlò

forte: “Ve sarverò”, ma nulla. Nessuno alzava la testa verso il cielo. Lui, detto Jeeg, invece

c'aveva dimestichezza con le altezze, col firmamento. Avrebbe voluto fare l'astronauta, ma quando

era diventato gruista gli era sembrato un mestiere quasi simile, fichissimo. Dall'alto pensava

meglio. Pensava bene, cose belle pensava. Aveva pensato che basta coi furtarelli, testa a posto e

pedalare. Salire, salire, farcela. Sposarsi con Alessia, comprarle un abito da nozze azzurro, da

principessa, portarla in luna di miele a Disneyland, Parigi, a vedere da vicino il padiglione Manga,

quello con i Jeeg Robot veri, d'acciaio splendente, toccare le armature di Mechadon 1 e 2, salire

sulla navicella Big Shooter. Pensava a quanto si sarebbero divertiti, quanti baci, quanta allegria. E

invece, mannaggia alla miseria, l'avevano licenziato perché s'erano scoperte gravi irregolarità nel

cantiere. E tutto aveva iniziato a girare storto. Tutto. E non valeva la pena neppure sgolarsi,

strillare, chiedere perché. Nessuno lo ascoltava, nessuno sentiva, proprio come quegli stronzi alla

fermata.

Si sdraiò triste. Allungò la schiena sulle pietre del Colosseo, gambe penzoloni. S'appisolò, forse.

Lo svegliò il suono di una sirena, un suono fastidioso e vicinissimo. Mise a fuoco la situazione con

i suoi occhi a raggi gamma. Sotto di lui ora c'erano almeno tre Volanti, un'ambulanza e un camion

dei pompieri che stava issando una scala lunga, infinita. C'era un uomo con un megafono, anche.

“Ceccotti Enzo, non fare cazzate, scendi”, disse l'uomo.

Jeeg non si mosse. Impietrito. “Ma che ho fatto ora? Ma che sono venuti ad arrestarmi st'infami?

Sono forse i maledetti soldati dell'imperatore?”, pensò col cuore che andava a tremila nel petto.

“Ceccotti Enzo – ripetè l'uomo che ora stava iniziando a salire sulla scala – scendi, ti prego. Qui ci

sono i tuoi amici, la tua famiglia. Siamo tutti in pena per te”.

Provò a parlare, Jeeg. Aveva la bocca asciutta e i pensieri gli rimanevo in testa. Avrebbe voluto

dire: “Io sto in pena per voi, devo salvarvi, sto in missione. Non vi rendete conto che il mondo sta

andando a rotoli, che le civiltà nemiche sono a un passo?”.

L'uomo passò il megafono a un'altra persona, un puntino sotto il Colosseo. Il puntino urlò: “Io solo

una cosa voglio sape' , ma come cazzo sei arrivato là sopra? “. Riconobbe la voce del suo amico

Zingaro. Sorrise Jeeg. Altro passaggio di megafono. “Amore mio, nun è il giorno de' e' tenebre,

nun fa macelli, daje, vieni giù”. Era Alessia, adesso. Ceccotti Enzo s'intenerì, le mandò un bacio

con la punta delle dita.

L'uomo intanto era salito sulla scala dei pompieri. Gradino dopo gradino. Era quasi a un metro da

lui. Ormai.

“Enzo, sono l'ispettore Marinetti – disse scandendo bene le parole – Ora tu scendi con me, è

chiaro. Basta fa er matto, chiaro?”

Jeeg rimase in silenzio. Avrebbe voluto spiegargli che voleva tornare sulla gru, sentire il vento in

faccia, provare la vertigine di un lavoro vero, uno stipendio vero. La vertigine del futuro con

Alessia e pure con lo Zingaro testimone di nozze. Pranzo al Frustone, lungo l'Aniene, e i confetti, e

le bomboniere, e una festa perfetta, e tutto bello e preciso come in un film di quelli che non fanno

piangere.

“Me lo trovate un altro lavoro, ispetto'? Me date la parola d'onore che me trovate un altro lavoro?

Non bastano manco i super poteri per averne uno. Ma le pare giusto? Le pare una cosa normale?

Io vi consegno pure i guanti in maglio e doppio maglio. Però voglio la parola d'onore. Sennò

m'alzo in volo e arrivederci Roma”, disse tutto d'un fiato Ceccotti detto Jeeg.

Sotto al Colosseo si era formato un capannello di gente. I pompieri avevano allargato un telo

immenso. D'incanto si era fermato il traffico. Ferme le macchine, gli autobus, ferma la città. L'aria

si era fermata.

Quando Enzo Ceccotti posò il piede sull'asfalto ruvido si alzò un applauso commosso. Alessia gli

corse tra le braccia, ridendo e piangendo. Lo Zingaro gli rifilò una pacca sulla spalla commentando

a suo modo: “Io solo una cosa voglio sape', ma come cazzo fai a esse tanto scemo?”. C'era anche

una troupe televisiva, la giornalista gli infilò un microfono sotto il naso. “Signor Ceccotti, ma in

che senso voleva salvare la città? Di che missione parlava?”.

E fu a quel punto che Enzo detto Jeeg srotolò lo striscione che aveva staccato dal Colosseo e

adesso teneva sotto il braccio. Lo srotolò sorridendo.

C'era scritto: “La vita è un'emozione da poco”.

© Daniela Amenta, estate 2016


(potete prendere ma solo per intero, citando autore e fonte)