martedì 12 giugno 2018

La Resistenza raccontata al mio fruttarolo Bangla

Ho scritto questo racconto per la festa dei Liberi Nantes, la squadra dei rifugiati che gioca a calcio nel campo 25 aprile di Pietralata e che ha compiuto 10 anni. Ho scritto questi pensieri perché la Resistenza come una scossa, come un'idea,come un impegno che parte sempre dal basso attraversa ancora Roma, che è la mia città. La attraversa quasi fosse una zattera. Eppure esiste, con la sua bandiera, il nostro fiato a fare vento. 
E i frutti sono ciliege sulle orecchie delle ragazze.
In questo racconto dedicato da Montagnola a  Pietralata mi ha accompagnato il sassofono struggente di Nicola Alesini, la sua grazia, il suo graffio. 
Ho scritto questo racconto riascoltando un disco di Claudio Lolli, un vecchio e meraviglioso disco. Si intitola: Ho visto anche degli zingari felici.
Le citazioni in corsivo arrivano da lì.
Daniela Amenta, maggio 2018


Quanto è lontano il distretto di Rangpur da qui, qui Montagnola, Rome, Italy? Ajar fa un gesto grandissimo con le mani, un gesto che va dalle carote alle fragole, come un arco quel gesto. Come una freccia di un arco lanciata in cielo. Ajar è il mio amico Bangla, il mio  fruttarolo. C'è il mare, la montagna a casa tua lì nel centro dell'arco?? Che c'è a Rangpur, terra di Bangla? Risponde lui, mi dice: io sono nato a nord. Che infatti ad Ajar le onde piacciono poco, ha visto Ostia una volta, domenica pomeriggio che era inverno, dice, dice lui che preferisce camminare in verticale, verso le cime, che lì è fresco e l'aria entra nei polmoni come una pompa a compressione. Dice che Ostia non è bellissima.
Per primo  a Roma è arrivato Ajar, poi piano piano gli altri, i cugini, tutti cugini i Bangla. Nel mio quartiere a 8 km dal Colosseo che sembrano ottomila i Bangla hanno un negozio di frutta, tre market piccoli ma dove nel surgelatore vendono cernie grosse 100 kili, cernie o balene atlantiche non sapremo mai. Poi sono lavavetri sulla Colombo, mettono assieme i ramini per tornare un giorno a Rangpur. Rangpur  è distante 800 miliardi di km dalla piazza dove abitiamo 800 miliardi e ottomila km dal Colosseo.
Ti prende la nostalgia Ajar? Come dite nostalgia? Capisci che intendo?  E' un senso, un movimento, d'anima, un singhiozzo, è una fitta, una fitta piccola di coltello.
Ajar prende il coltello,  taglia una mela. Me ne offre uno spicchio. "Golden", dice.
Ajar è l'unico dei Bangla del quartiere mio che di notte non gioca a pallone. Perché si sveglia alle 3 per andare al mercato, tiene aperto il negozietto 14 ore di fila, e poi crolla come un sacco di patate su un sacco di patate. Ajar quando non è stanco mi racconta che a Rangpur mandano a raccolto cotone, riso e grano.

E siamo noi a far ricca la terra
 noi che sopportiamo
 la malattia del sonno e la malaria 
noi mandiamo al raccolto cotone, riso e grano,
noi piantiamo il mais
s u tutto l'altopiano.
Noi penetriamo foreste, coltiviamo savane,
le nostre braccia arrivano
 ogni giorno più lontane.
Da noi vengono i tesori alla terra carpiti,
con che poi tutti gli altri
 restano favoriti.

Gli altri Bangla giocano a pallone di notte, giocano scalzi nella piazza dove abito, che fu la prima della Resistenza. Piazzale Caduti della Montagnola. C'è il monumento. Ci sono i nomi. 53 in tutto.
Ti devo raccontare una storia Ajar, è una storia triste e memorabile. E' la storia del mio Paese.
Ajar è curioso, ascolta, mi dice siediti qui che capo i fagiolini. Dice capo, come si dice a Roma. Mi fa spazio su una cassetta. Dice: racconta.
Ti racconto.  Alle ore 6.00 del 10 settembre 1943 un fuoco di fucileria proveniente dall'attuale palazzo della Civiltà Italiana all'Eur annunciò ai circa ottocento granatieri di Sardegna asserragliati nel forte Ostiense che i tedeschi avevano travolto le difese allestite al ponte della Magliana. Erano entrati.  Erano a Roma, 800 miliardi di km lontani da casa tua, sotto casa mia. Aggregato al forte c'era  l'Istituto religioso Gaetano Giardino, che ospitava circa quattrocento bambini orfani di guerra e minorati psichici, sotto l'assistenza di Don Pietro Occelli e di trentacinque suore francescane. I granatieri avevano solo 91 fucili, risposero al fuoco come potevano ma i nazisti erano forti, erano tanti, ed erano armati.
Alle ore 7.00 da uno spiazzo del Palazzo della Civiltà Italiana, un mortaio dei paracadutisti tedeschi cominciò a bersagliare il bastione del forte, dove era stata predisposta la difesa principale dei granatieri. Alcuni paracadutisti tedeschi superarono la Cristoforo Colombo e via Ostiense. Avevano i lanciafiamme, accesero roghi, bruciarono.
Ajar smette di capare i fagiolini. Vede d'improvviso: la Colombo dove i bangla lavano i vetri delle macchine, l'Ostiense dove i cugini dei cugini Bangla aprono i negozietti di frutta e verdura.
“Ho capito – dice – Erano qui, erano arrivati, erano a un passo”
Sì, erano arrivati.

Ascolta Ajar.
Don Pietro Occelli, direttore dell'istituto degli orfani, alzò un lenzuolo bianco sopra una pertica per dire  ai tedeschi che era la resa, basta, fine, ci arrendiamo, ci arrendiamo qui ci sono bambini, per favore non sparate.  Suor Teresina di Sant'Anna, nata ad Amatrice, stava componendo il cadavere d'un granatiere nella cappella del forte Ostiense, quando un soldato tedesco che passava lì accanto  si accorse che il morto aveva una catenina d'oro al collo, la catenina con il crocifisso. Cercò di strappargliela, la suora si oppose, lo prese a schiaffi. E lui la colpì tante e tante volte da farla cadere. Da ucciderla. Ma qui Ajar non era così come ora. La gente usciva dalle case. La gente si ribellava. La gente si ribellò.

È vero che non ci capiamo
che non parliamo mai
in due la stessa lingua,
e abbiamo paura del buio e anche della luce, è vero
che abbiamo tanto da fare
e che non facciamo mai niente.
È vero che spesso la strada ci sembra un inferno
o una voce in cui non riusciamo a stare insieme,
dove non riconosciamo mai i nostri fratelli.
È vero che beviamo il sangue dei nostri padri,
che odiamo tutte le nostre donne
e tutti i nostri amici.


Ajar del Bangladesh non capisce tutte le parole che dico. Ma è attento e sgomento. Qui Roma, Italia, ora è casa sua. Qui ci sono le donne bangla elegantissime con i bambini, ogni pomeriggio in piazza, a giocare, sorridere, qui portano piccoli pezzi di frutta scelti da Ajar – i migliori – ai piccoli Bangla, figli dei cugini, dei fratelli, di una comunità che è comunità e quindi casa.  E in questa casa dalle pareti di vetro c'era un'altra storia.  La nostra che ora si mescola con la loro.
Ascolta Ajar.  C'era un fornaio. Si chiamava Quirino Roscioni. Mise a disposizione dei ribelli contro i nazisti la casa e il forno. Fece il pane, diede vestiti borghesi ai soldati italiani. Provò. Ma i nazisti avevano le mitragliatrici. Era il 10 settembre del 1943, è un tempo distante come un elastico, grande come un arco dalla patate  alle fragole, amico mio.   Lo uccisero.  In questa piazza  dove abitiamo ci sono stati 53 caduti,  fu il primo grande argine all'avanzata dei nazisti dentro Roma, dentro l'Italia. E' una piazza di eroi. E di martiri, Ajar.

Ajar mi guarda, mi allunga una mano, me la stringe. “E' schifo che i cugini giocano a pallone la notte in questo monumento? E' vergogna, è insulto?”.
No Ajar, è una festa. Siamo liberi ora. E la libertà si festeggia. Ogni giorno, ogni ora, ogni minuto. A Rangpur, in un campo a Pietralata, alla Montagnola.
La libertà è una festa che fa gol.
La nostra festa.