giovedì 28 novembre 2013

Into your arms, oh Nick


E' lui l'ossimoro. Tutto e il suo contario, soprattutto il bene e il male, soprattutto la redenzione e la perdizione, l'angelo e il demonio in una sola anima palpitante, guerriera, nero catrame. Qualche patto infernale Nick Cave, da Warracknabeal, deve averlo controfirmato cou una piuma di pavone intinta nel sangue. Ha 56 anni e sembra più giovane di quando ne aveva 26 nonostante i draghi, le droghe, la vita misera sull'orlo dei precipizi, le botte date e ricevute. Sembra un uomo pacificato, Nick. Un uomo che si concede, si dà, dà “il proprio cuore in pasto al pubblico” come avrebbe detto Oscar Wilde sfogliando un garofano verde. Lo si capisce subito. Entra in grande stile con una band sinceramente mediocre, figuranti stonati rispetto ai veri Bad Seeds, entra nella sala buona dell'Auditorium di Roma sculettando. Attraversa il palco con falcate da ballerino, da star. Più alto e più magro di vent'anni fa, sempre Roma ma al Tenda a Strisce, dove tenne uno show timido, nervoso, irrisolto.
Oggi no. Oggi è in forma. Vuole amare, farsi amare. Accetta il primo mazzolin di fiori dalla fan in giuggiole, ne bacia un'altra. Palco buio, luci bianche incandescenti. Parte We No Who Ur.

Sembra un concerto, all'inizio. Poi alla seconda strofa di Jubilee Street, Nick Cave alza il tiro. Il suono è saturato al limite dell'umana sopportazione, ma così serve. E' suono al calor bianco, è rumorismo crudele, è il punk che infuria smidollato ed elementare, è il rock piegato come un Cristo in croce. Un muro di note e tutta la meravigliosa, coatta, abusata retorica dei quattro quarti trasformati in marcia funebre e opera erotica. Gli adepti del culto, i missionari del King Ink, schizzano dalle poltroncine in velluto rosso, dritti verso il palco. Si alzano centinaia di mani. Il re si fa toccare, sporge il bacino pelvico, il petto. Ecco, prego, prendetemi. Sono carezze, baci, urla: una piccola orgia collettiva. Il re si sostiene con quelle mani. Si tuffa tra quelle mani. Le mani lo sostengono come un ponte. Sono le mani di Henry Lee, delle donne avute, di quelle sognate, quelle ammazzate da Barbablu: Deanna, Alice, Sugar sugar sugar, Lucy, Christina, la moglie di John Finn, Cassiel, Betty Coltraine. Into my arms, oh Lord.

Ci sono giorni di inchiostro. E quando arrivano questi giorni, con mantelli scuri e refoli di vento gelido e brividi, bisogna avere il coraggio di guardarli in faccia. Avere il coraggio di aprire la porta, di far accomodare ricordi e manie, e di riascoltarsi un pezzo, un bel pezzo di vita. La propria. La nostra. La tua. Quando arrivano i giorni di inchiostro, la musica è del King Ink. re della
nostra miserevole e fiammeggiante antologia di Spoon River, re e predicatore, il reverendo Cave armato di doppietta, il satanasso Nick con camicia nera sul palco che bacia tutti e da tutti si fa baciare: ragazzine, donne fatte, pischelli in estasi. Love Letter.

L'estasi arriva con Higgs Boson Blues ed è un pezzo imperativo. La sintesi del delirio e della rinascita. Cave benedice, maledice. Il trono della misericordia attende.

E in un certo senso spero
di farla finita con questo esame della verità
Occhio per occhio
Dente per dente
E non ho più niente da perdere
E non ho più paura di morire”.

The Mercy Seat arriva inarrivabile. Quanto Deanna.
Lui è venuto, lui se n'è andato. Non voleva il nostro amore, non voleva i nostri soldi. Voleva la nostra anima. Se l'è presa. 

Daniela Amenta
28 novembre 2013

venerdì 22 novembre 2013

Oh violino tzigano



romeo ha 11 anni: a volte ne dimostra 6, a volte 60. e suona la fisarmonica, proprio come in una tristissima canzone di gianni morandi. solo che lui, romeo, le mani ce le ha piccole, da bambino. mani grassottelle coi buchini tra le falangi. e con queste manine suona, gonfia il mantice, attraversa i tasti. "suona suona per me o violino tzigano", e gira tra i tavoli dei bar in centro con la fisarmonica rattoppata, tenuta assieme dal nastro adesivo e un bicchieretto di cartone sopra. chi vuole gli lascia un soldo dentro. ha classe, anche nel chiedere, viene dalla romania, da un paese molto vicino a bucarest.

mi ha spiegato. anzi, mi ha disegnato la carta geografica sul tavolino del ristorante e mi ha indicato il suo paese. "io sono questo", ha detto, sottolineando un punto indistinto tra la forchetta e il bicchiere. mi ha raccontato che una fisarmonica per grandi costa poco (50 Euro) ma una per bambini può arrivare anche a 200. 

ha una faccia tonda, i capelli come manolito, sempre in ordine: i pantaloni azzurri, una vecchia maglietta che gli sta grande, sembra un vestitino, blu e rossa, le scarpe da ginnastica che forse un tempo devon esser state bianche. occhi bellissimi, di brace.
è in italia da 11 mesi, ma parla molto bene. quando mi vede mi sorride tutto di traverso, un sorriso appena accennato, poi mi raggiunge e la fisarmonica si gonfia e si restringe a furia di macinare canzonette. gli ho giurato che gli insegnerò libertango di piazzolla. la canterò tra i tavolini dei bar del pantheon e lui mi verrà dietro a suonarla. 

questa cosa, questa che ci siamo promessi, è un patto vero. ci siamo stretti la mano io e romeo.

Daniela Amenta


giovedì 21 novembre 2013

Obitorio


per esteso, l'insegna dice: "pizzeria dei marmi". ma non c'è uno in questo budello di caput mundi che l'abbia mai chiamata così. qui è detta, ovvero unanimente riconosciuta, come "pizzeria l'obitorio". o per la precisione "obitorio" che i passati proprietari, famiglie moroni e casini, s'encazzavano pure un bel po', toccandosi le parti basse senza manco fingere improvvisi danni prostatici.
sta qua da sempre, l'obitorio, viale trastevere, circa 2mila tavoli in marmo bianco da anatomopatologo e una corte di infermieri-camerieri che va e viene a duemila mentre la caposala, biondissima occhialuta e procace, chiama a voce alta 22 margherite, 15 capricciose, 18 napoli, 6 ortolane (una senza alici). bisturi, plis.
è una fabbrica, è il ministero della pizza romanesca, sottile, ostia croccante, niente de che, ma il rito è rito, e l'obitorio ne fa parte perché è qui, e qui resta. a dispetto del tempo, e sempiterno, con le pale dei ventilatori che gracchiano e graffiano il soffitto, il bancone di marmo, l'alzatina degli alcolici compresa una boccia di liquore strega, ormai più verdognola che gialla. uguale, uguale, anche a ripescare i ricordi più lontani, con la scritta al neon: supplì al telefono, filetti caldi di baccalà, fagioli al fiasco, con le cotiche, con l'osso di prosciutto, e la magnifica insalata capricciosa, mai mangiata, ultimo e inespresso desiderio da rimandare per quando sarà tardi per davvero.
ma all'obitorio non è tardi neanche alle 2 del mattino. che gli infermieri-camerieri spingono de brutto, col nome sulle camiciole bianche, ma basta che li chiami "capo" e arrivano, cioè accorrono al capezzale, strusciando piedi, piedi che percorrono chilometri, chilometri d'asfalto e carciofini, un miliardo di uova sode, tremila tonnellate de pommodoro e mozzarella.
li chiami capo, tutti, tranne lui, valerio, spiccicato a bernard blier, l'immenso spaccapalle della commedia francese, e poche ciance. che qui la pizza s'accompagna a gazzosa Neri e 'na fojetta, quarto di vino castellano bianchissimo e rughetta "nun ce sta", al massimo cicoria ripassata, e l'anguria calda arriva mescolata ai cubetti di ghiaccio. e roma pare roma.
con gli avventori, fuori in fila che te controllano il tempo che ce metti, orologio al polso, il tempo che scivola grandioso tra un'oliva ascolana e un fiore di zucca, un tavolo di marmo che si libera e una rosa - comprarosaeddai - che appassisce prima che valerio porti il conto.
heroes. just for one day.
Daniela Amenta


sabato 16 novembre 2013

My favourite things



questa storia che il jazz è un graffio nell'anima, la capisci dopo, molto dopo. all'inizio hai bisogno solo di adrenalina e rullate e marshall e tutto il vivido e fosforescente casino del rocknroll. poi di colpo è come se si aprisse una porta, anzi un cancello ma grosso. e impari che si può ballare, cantare, sognare jazz, e che è la stessa adrenalina, ma più di testa, meno condivisibile con gli altri. party privato tra te e te. e che gran scatti, slanci, sovrapposizioni, implosioni, fuochi d'artificio tra le orecchie e i lobi frontali cerebrali.
tutta questa musica meravigliosa.

my favourite things, dal vivo a stoccoma.  novembre del 1961. coltrane, eric dolphy, mccoy tyner, elvin jones, reggie workman, che madonna di quintetto. con il flauto magicissimo di dolphy, tanto che poi quel matto di mingus, quello peggio di un bastardo chiamò il figlio ericdolphy, tutto attaccato, a dimostrargli che lo aveva riconosciuto prima degli altri.
e pazienza eric il flautista e clarinettista, l'uomo che aveva respiro di un vulcano nei polmoni. e pazienza, dear, se sei morto giovane. ti conserviamo tra questa cascata di note.

di tutta questa musica meravigliosa che conosco poco, amo l'essenza a spirale. il tema che torna dopo 20 minuti di saltabecchi, passeggiatine al lato estremo dello spartito, viaggi altrove dei musicisti. che sembra nessuno vada dalla stessa parte, dici "ma che si sono dimenticati che stavano suonando?". e invece rieccoli, riecco la melodia infinita e suprema.

questo pezzo, my favourite things, in questa versione. da coltranology volume 1, con il vinile rigato. ecco, potrei rimettere l'attacco una miliardata di volte, a loop. con il timpano incollato sulla cassa, perché coltrane - si sente - si sente che prende fiato, prende fiato e attacca.
la più bella festa di paese mai celebrata a stoccolma. come un trane in corsa.

Daniela Amenta




venerdì 8 novembre 2013

Jello Biafra in viaggio di nozze a Roma




jello biafra (vero nome non pervenuto) nasce dalle sue parti. e cresce perfido e rasposo come carta vetrata. l'amerika non gliel'ha mai perdonato, mai, di aver formato un gruppo che si chiamava dead kennedys. che lì, tra stelle e strisce, si può scherzare con tutto ma lascia stare i santi e la cara famiglia estinta. quindi censure su censure, nessuna casa discografica a voler produrre un disco a 'sti mascalzoni. jello allora fonda l'alternative tentacles, indie davvero tentacolare e primo esempio di distribuzione fuori dai circuiti convenzionali. una delle sue cose migliori, insieme al concerto che i kennedys morti tennero a roma.

biafra era magro e perverso, quando suonò al much more. indossava stivaletti borchiati. volavano sputi dappertutto e pogo tosto e ginocchiate fin sulle costole. mani punk tentavano di arrampicarsi verso il palco per sfiorarlo o placcarlo. I pochi che ci riuscirono ancora se lo ricordano. jello indomito prendeva la mira e con il tacco rozzo e squadrato dello stivaletto pestava le dita dei fans, manco fossero cicche. "siete punx? e allora soffrite". il tour italiano fu anche l'occasione del suo viaggio di nozze. ora, jellobi era un mostro di cattiveria on stage. ma sotto, sotto aveva un cuore rocknroll quindi anche tenerone.

la sua signora, uscita direttamente dai camerini di nashville, vestiva un abito di veli bianco, con bei ricamini e grandi svolazzi. la grassottella signora biafra. i due piccioncini costrinsero i fans con le mani fasciate a inseguirli sotto il colonnato di san pietro dove presero moltissime foto e altrettanto se ne fecero scattare, lanciando fiori, riso e confetti. come una vera coppia.

biafra si candidò poi alle elezioni come sindaco di san francisco e riuscì ad arrivare in pole position con un programma che prevedeva vigili urbani e poliziotti vestiti da clown (massì, ma che palle le divise. via col naso rosso di mastro ciliegia e la parrucca di riccioli di paglia). e in questo l'amerika è strana forte, perché non lo ha mai perdonato, ma un altro po' lo fa accomodare su una poltrona vera, da primo cittadino.
qualora l'insediamento fosse avvenuto, jello biafra avrebbe salutato frisco cantando: "love me love me love me, I'm a liberal". ora si limita a eseguirla con mojo nixon. che non è un parente.

Daniela Amenta

domenica 3 novembre 2013

Frank Black, The Cult Of Ray




Se il compito dell'arte - come diceva Adorno - è di introdurre caos nell'ordine, Charles Michael Kitridge Thompson IV detto Frank Black, è nello specifico un vero equilibrista. Dall'87, erano i tempi di Come On Pilgrim, la sua 'missione' è quella di inserire elementi inconsueti nell'oramai prevedibilissimo universo dei quattro quarti. I suoi dischi da solo, questo è il terzo, sono in effetti un campionario di riff, svisate, déjà-vu ritmici, echi e riferimenti mescolati in una tessitura surreale assolutamente sorprendente. Un puzzle armonico che si definisce nota dopo nota, che cambia andamento di continuo. Si interrompe, riprende, modifica rotta e obiettivi. Poi riparte. Destinazione sempre sconosciuta.

Frank Black è un genio. Non solo perché è uno dei pochi che nel bazaar modaiolo della musica introduce quei 'famosi' elementi di caos. Non solo perché cita un miliardo di cose e non somiglia mai a nessuno.

Frank Black è un genio perché si porta il rock a spasso come fosse un cagnolino. Ne sposta il baricentro. Lo tratta con un'ironia sottile, se lo coccola tra le corde della chitarra, lo sbaciucchia e gli fa il verso. Lo prende in giro e gli celebra monumenti dadaisti. Un destrutturatore nato. Uno che - immagino - con i cubetti della Lego invece di costruire casette e automobiline tirava fuori giraffe con teste di elicotteri e piedi palmati. Meno fluviale del magnifico Teenager Of The Year, più omogeneo del primo, omonimo Frank Black, The Cult Of Ray è un album incandescente, pirotecnico. Un'altra piccola pietra miliare nell'imponderabile cammino del ciccione più simpatico d'America. Perché se è vero che ogni canzone di Black è un microcosmo a sé stante, è altresì necessario aggiungere che esiste un fil-rouge che unisce The Cult Of Ray ai lavori precedenti. E naturalmente alle memorabili produzioni targate Pixies. 
Un filo che Frank tira, taglia, riavvolge. "Io suono per gente che sa comprendere il rock'n'roll", ha detto. Giusto. E allora orecchie all'erta perché questo è un omaggio all'intelligenza del rock'n'roll, alla sua svampita energia, al suo potenziale rivoluzionario, ai suoi eccessi e a tutta la sua stravagante paccottiglia di miti, eroi, santi, martiri, cliché, luoghi comuni. Tutto assieme, niente escluso. Così The Cult Of Ray celebra, innanzitutto, il punk rock e si ciba di Stooges, Doors, Stranglers, Dead Kennedys, Devo, Cramps, Utopia, Velvet, Talking Heads. Come se Black avesse metà della testa occupata da un campionatore capace di memorizzare e riprodurre i frammenti sonori più disparati della storia del rock. E nell'altra metà un frullatore che mischia e tritura.

 Risultato: un disco adrenalinico, godibilissimo, veloce. Le prime cinque tracce schizzano via a duemila. Lui offre chicche chitarristiche a piene mani, forse anche per celare la clamorosa assenza di Joey Santiago, spande pennellate di virtuosismo strumentale con gioiosa nonchalance. Arriva I Don't Wanna To Hurt You, ballatona elettrica in stile Graham Parker ispirato. Ecco lo strumentale anfetaminico Mosh, Don't Pass The Guy. Ecco il desert rock rovente di Kicked In The Taco. Ecco la lunare, aritmica, sensuale e byrniana The Creature Crayling. Un altro strumentale, The Adventure And The Resolution, superbo stacco marziano che introduce Dancewar, ruvida perlina al fulmicotone. La title-track è un fuoco d'artificio dislessico tra improvvisi ralenti e furibondi schizzi melodici. Il tutto si chiude con la languida The Last Stand Of Shazeb Andleeb, deliziosa cantilena dagli accenti morbosi. 
Ottima lezione d'arte questo nuovo capitolo del Franco Nero bostoniano. Che tra battute al cianuro e insondabili coretti risponde con la sua classe formidabile ai vari neo-punkers e saluta irridente - bye bye - le proprie infinite radici, ricandidandosi come adolescente dell'anno.

Perché il rock, si sa, mantiene giovani forever and ever. Soprattutto se, più che uno stile, è un modo irrequieto, perspicace e pungente di guardare fuori e dentro di sé.

Daniela Amenta
Mucchio Selvaggio
1996

Dead Can Dance: Anastasis

Come le facciate delle cattedrali gotiche, anche le copertine dei Dead Can Dance sono una delle chiavi di lettura per addentrarsi nell'universo di Lisa Gerrard e Brendan Perry. In questo caso c'è un campo di girasoli bruciati dal sole, segno che il viaggio più oscuro è terminato e che ci troviamo davanti ad un'opera terrigna ma in grado di guardare in alto. D'altraparte lo stesso titolo del disco, Anastasis, («Resurrezione» in greco) indica una svolta verso una direzione precisa. Dopo sedici anni dall'ufficiale scioglimento e da Spiritchaser, i due si ritrovano. 

Una storia complessa, e con ricaschi anche sentimentali, quella tra la contralto australiana e il polistrumentista britannico. Una storia cadenzata da opere che vanno ben oltre la semplice fruizione musicale e sono parte di un viaggio intimo e profondo. Un viaggio alchemico tra inconscio e ultraterreno, esoterismo e magia. Un viaggio tra popoli e continenti, radici e lingue antichissime, cancellate, tra suoni potenti, viscerali e rimandi ancestrali. Ecco, la resurrezione dei Dead Can Dance questa volta si fa concreta. Per la prima volta nella storia della band nata nel 1981, siamo alle prese con un disco vero e proprio e non con una struttura simbolica, non con un contenitore metafisico. Canzoni-canzoni, testi-testi. Significante e significato che coincidono. 

Una resurrezione costruita su tappeti armonici, voci belle, melodie ricchissime e naturalmente molto raffinate, autocitazioni ed eleganti rimandi. Lisa Gerrard resta più trasversale che nel passato, Perry dirige le danze a cominciare da Children of the sun, singolo orchestrale che vorrebbe riecheggiare le grandi aperture di An American Dream. E quindi scorrono Opium, Agape, Amnesia, Kiko, titoli suggestivi, echi orientali e celtici mescolati con gusto sinfonico. A tratti la liturgia risulta artefatta (come in Return of the She-King), a tratti annoia per la reiterazione fin troppo dilatata e monocorde e senza finale a sorpresa (ed è il caso della conclusiva All in good time). Sia chiaro: Anastasis è un lavoro di qualità ma che non travolge, non intimorisce come è sempre accaduto con i Dead Can Dance. Spariti, addolciti, rarefatti i timbri di un'esperienza sonica importante e sofferta: il pathos ancestrale di Spleen and Ideal, il transglobalismo extratemporale di The Serpent's Egg, il misticismo mantrico di Within The Realm Of A Dying Sun. Dischi che facevano tremare le vene dei polsi, spostavano l'ascoltatore in altre dimensioni e in altre epoche. 


Così Anastasis sembra più il frutto di un ripensamento dopo una lunga separazione. Due vite parallele (sia Brendan che Lisa hanno folgoranti e fruttuose attività da solisti) che si ritrovano e hanno voglia di rispolverare il vecchio baule delle meraviglie ma senza aprirlo. Forse dopo un percorso così complesso, sfaccettato, difficile, dopo aver ridato voce e fatto danzare i morti, Gerrard e Perry hanno scelto una via più lieve. La via dei girasoli. La via della terra arsa e dei raggi di un sole nero. La via della vita. In fondo.

Daniela Amenta
Unità
Settembre 2012

Negazione o l'hardcore spiegato a un bambino


Era musica velocissima, potente. Musica come un calcio nello stomaco, come il vuoto nel diaframma nell'attimo in cui si vola da un palco. Era un urlo in faccia al futuro. Mordere la vita e masticarla in fretta. Era militanza, uno stato dell'anima, passione, rabbia. Erano i Negazione, da Torino, quelli dell'hardcore punk che cantavano poesie sbilenche, andavano andavano, a bordo di un furgone scassato andavano in giro a suonare. E non bastava mai. Un'esperienza umana e professionale durata fin troppo per quei tempi, quasi nove anni e mezzo, 1983-1992. Poi fine. Addio, ciao per sempre. 

E ora, vent'anni dopo arriva Il giorno del sole, dal titolo di una delle canzoni più belle, laceranti. Manifesto d'intenti. Un cofanetto edito dalla Shake che contiene i due dischi più importanti nella storia della band: Condannati a morte nel vostro quieto vivere e Lo spirito continua. Ma a dare un senso compiuto a questa storia, oltre i suoni, ci sono le parole. Un testo di 63 pagine scritto dai protagonisti: Guido Zazzo Sassola alla voce, Roberto Tax Farano alla chitarra, Marco Mathieu al basso. È il racconto dei giorni furibondi di uno dei pochi gruppi italiani ad avere credito e seguito anche all'estero, è una lettera, soprattutto, dedicata ad Elia, il figlio del batterista Fabrizio Fiegl, scomparso l'anno scorso a soli 46 anni. Ebbene, l'hardcore spiegato a un bambino ha lo stesso impatto che quella musica estrema aveva per chi la ascoltava nei «giorni del sole». Un fiume di energia, una valvola di libertà, l'impegno messo a servizio di un collettivo improbabile che viveva negli squat, nei centri sociali. Il web non c'era, si faceva rete in altro modo: fanzine fotocopiata, cassette da duplicare e far girare, lettere col francobollo spedite da ogni angolo del pianeta. E poi, a un certo punto, c'erano i concerti per incontrarsi, ritrovarsi

. Scrive Mathieu, che oggi fa lo scrittore e il giornalista: «C'erano altre creature nel mondo simili a te con cui condividere rabbia e divertimento... Rivoluzione minimale». Elia in questo disco troverà suo padre che picchiava duro e i suoi amici, fratelli gemelli, soci e sodali in un periodo irripetibile. «Incazzati che ridevano molto». A noi restano le tracce di una band che ci ha messo il cuore e ce l'ha fatto battere forte. Lo spirito continua.

Daniela Amenta
Luglio 2012
L'Unità