martedì 27 settembre 2016

Nick Cave dentro la stanza del figlio


Bisognerebbe provare a trattare Skeleton Tree, sedicesimo album in studio di Nick Cave, allontanando l'ombra di Banco shakespeariana che aleggia torva e inquietante. Raccontarlo come fosse un disco qualsiasi nella storia di questo artista furibondo e maledetto, nato in Australia 59 anni fa. Ma Skeleton Tree non è un disco qualsiasi, purtroppo.
Bisognerebbe provare a narrare l'epopea di Nick – dagli esordi esasperati tra punk e rumorismo al calor bianco fino alle riletture bibliche, passando per le poesie, gli inni iconoclasti, il carisma “nero”, le droghe e i draghi – saltando la cronaca. Ma la cronaca si ferma al 14 luglio del 2015, il giorno della morte drammatica di Arthur, figlio adolescente di Cave e della modella-stilista Susie Bick, volato dalla scogliera di Brighton forse sotto effetto di un acido.

Skeleton Tree non è un disco sul dolore. E' semplicemente un'opera pervasa dal dolore. Cave aveva iniziato a scrivere i pezzi prima della tragedia, ma come si intuisce dal documentario One More Time With Feeling (nelle sale italiane solo per due giorni, oggi e domani) quanto è accaduto ha cambiato la direzione della musica, dei testi, dell'intera atmosfera.
Nick Cave, dunque. Oltre trent'anni di suoni nel segno dell'Apocalisse e degli eccessi, deragliamenti sentimentali e sonori. Una scrittura febbrile e torbida tesa verso la perenne ricerca del divino nelle miserie terrene o di un Cristo trascendente a dargli pace, a frenare le frane, attutire il tonfo disperatamente umano di Nick, The King Ink che osò sfidare il cielo.

Nessuno dei 15 dischi che precede Skeleton Tree è facile, confortante. In tutti, con diversi gradi, è presente il concetto di morte, sofferenza, finitezza. Ma se nel passato Cave utilizzava anche i miti letterari per comporre i suoi affreschi tragici – da
Huckleberry Finn di Twain alle epiche Murder Ballads, da Spoon River fino a William Blake e alle pagine più crude e cruente della Bibbia – questa volta non esiste mediazione, escamotage culturale. Il re è nudo, e piange. Piange il figliol prodigo, The Good Son, probabilmente l'erede prediletto (Cave, per la cronaca, ha altri tre figli, tra cui Earl, il gemello di Arthur).

Quaranta minuti di musica che iniziano con l'invettiva di Jesus Alone, dai timbri Morrisoniani, la lunga, faticosa di The End del Terzo Millennio, e si chiudono con l'orazione funebre contenuta nella title-track, Skeleton Tree, ovvero l'albero scheletrico. Nella Cabala ebraica l'esistenza tutta è sintetizzata proprio in un arbusto, che ha radici affondate in terra e rami protesi verso il cielo. Una metafora alchemica che Cave spoglia. Via le foglie, via la linfa. Rimangono un padre e una madre a fare i conti con il dolore peggiore: essere sopravvissuti al proprio figlio, e quindi al significato stesso di futuro. I suoni sono anche essi ridotti all'osso, minimali, spettrali, con archi e sintetizzatori orchestrati da Warren Ellis, infernale genio sonico dei Bad Seeds, la band di Cave.

Un disco ostico eppure fascinoso, magnetico, non il migliore nella discografia complessa di Cave, ma cruciale. Uno snodo. Dove Nick canta: “Sei caduto dal cielo, precipitato su un campo vicino al fiume Adur. (…) Con la mia voce ti sto chiamando”. Dove le parole “amore” e “bisogno” sono ripetute all'infinito e la tregua è segnata da Distant Sky, con la celestiale voce del soprano danese Else Torpe e Girl in Amber, forse entrambe dedicate alla moglie Susie.

Quello che è sottinteso in Skeleton Tree diventa manifesto in One More Time With Feeling, il documentario firmato da Andrew Domink, il regista neozelandese amico di vecchia data. Tra i due perfino una fidanzata in comune, Deanna, celebrata da Nick con un pezzo fiammeggiante su Tender Prey (1988). Nulla è concesso a Cave in questo manifesto terribile, tridimensionale, in bianco e nero, girato tra lo studio dove è stato registrato il disco e la casa di famiglia dell'artista

Brighton, sud della Gran Bretagna, luogo di ferie e tomba della Redenzione. Se il disco suggerisce, nel film il lutto esplode attraverso le parole spezzate, l'imbarazzo, la fragilità di una rockstar che si guarda allo specchio e dice: “Quando mi sono venute queste occhiaie? Quando sono invecchiato così tanto? Sono diventato oggetto di pietà, la gente mi ferma per esprimermi solidarietà. E io non so se piangere, abbracciare, essere maleducato. Non so come sintetizzare quello che ci è accaduto oltre una perfetta banalità. Non so come comportarmi e questo non è da me. Non so raccontare, mi sembra di non essere rispettoso con Arthur. Potrei portare il mio punto di vista, quello di mia moglie, ma non il suo. Capite?”.

Così la stanza del figlio si intravede appena in One More Time With Feeling: un cuscino con il nome del ragazzo scomparso, due skateboard, scarpe da ginnastica. Susie mostra un quadretto disegnato da Arthur quando aveva 5 anni: è la scogliera dove ha trovato la morte. Sussurra a Nick mentre la cinepresa filma impietosa: “Mi sta venendo da piangere”. Lui le tiene la mano, sotto il tavolo. Sembrano due naufraghi, due vite spezzate che cercano di salvare un grande amore, una bella, invidiata, famosa famiglia.

E dunque One More Time With Feeling narra il deragliamento che lascia il vuoto, quella sindrome da superstiti che colpisce chiunque si trovi ad affrontare la catastrofe. Non esistono parabole, non ci sono né Abramo, né Isacco. Nulla brilla. C'è solo la luce agghiacciante di una “stella nera”, per citare Bowie. E fa riflettere che due delle opere rock più attese dell'anno abbiano in comune la desolazione della fine.

Del performer aggressivo, sfacciato è rimasto ben poco. Nick è infastidito dalle domande del regista, incalzanti, ma non sa difendersi. E' spaventato, quasi non trova le parole. E viene da chiedersi perché abbia accettato di dare la propria anima derelitta in pasto al pubblico. Quale catarsi possa provocare una pellicola che sguazza nella sofferenza, si sofferma sugli sguardi devastati dei protagonisti, sulla musica che non consola. Nessuna terapia. Semmai One More Time With Feeling sembra la via tortuosa di un'espiazione rispetto a un divorante senso di colpa “Quando ci siamo distratti? Come è potuto accadere?”, si chiede ad un certo punto Nick Cave. E soprattutto ammette: “Un grande trauma non aiuta il processo creativo, anzi lo affossa, toglie energie, diventa una specie di recinto dentro la testa. Ci ritorni di continuo. La vita non è una storia”

E in questo ha ragione. La vita spesso non è una storia. O almeno non quella che abbiamo sperato di poter raccontare. 

Daniela Amenta
27 settembre 2016, da l'Unità