Bisognerebbe
provare a trattare Skeleton Tree, sedicesimo album in studio di Nick
Cave, allontanando l'ombra di Banco shakespeariana che aleggia torva
e inquietante. Raccontarlo come fosse un disco qualsiasi nella
storia di questo artista furibondo e maledetto, nato in Australia 59
anni fa. Ma Skeleton Tree non è un disco qualsiasi, purtroppo.
Bisognerebbe
provare a narrare l'epopea di Nick – dagli esordi esasperati tra
punk e rumorismo al calor bianco fino alle riletture bibliche,
passando per le poesie, gli inni iconoclasti, il carisma “nero”,
le droghe e i draghi – saltando la cronaca. Ma la cronaca si ferma
al 14 luglio del 2015, il giorno della morte drammatica di Arthur,
figlio adolescente di Cave e della modella-stilista Susie Bick,
volato dalla scogliera di Brighton forse sotto effetto di un acido.
Skeleton
Tree non è un disco sul dolore. E' semplicemente un'opera pervasa
dal dolore. Cave aveva iniziato a scrivere i pezzi prima della
tragedia, ma come si intuisce dal documentario One More Time With
Feeling (nelle sale italiane solo per due giorni, oggi e domani)
quanto è accaduto ha cambiato la direzione della musica, dei testi,
dell'intera atmosfera.
Nick
Cave, dunque. Oltre trent'anni di suoni nel segno dell'Apocalisse e
degli eccessi, deragliamenti sentimentali e sonori. Una scrittura
febbrile e torbida tesa verso la perenne ricerca del divino nelle
miserie terrene o di un Cristo trascendente a dargli pace, a frenare
le frane, attutire il tonfo disperatamente umano di Nick, The King
Ink che osò sfidare il cielo.
Nessuno dei 15 dischi che precede Skeleton Tree è facile, confortante. In tutti, con diversi gradi, è presente il concetto di morte, sofferenza, finitezza. Ma se nel passato Cave utilizzava anche i miti letterari per comporre i suoi affreschi tragici – da Huckleberry Finn di Twain alle epiche Murder Ballads, da Spoon River fino a William Blake e alle pagine più crude e cruente della Bibbia – questa volta non esiste mediazione, escamotage culturale. Il re è nudo, e piange. Piange il figliol prodigo, The Good Son, probabilmente l'erede prediletto (Cave, per la cronaca, ha altri tre figli, tra cui Earl, il gemello di Arthur).
Quaranta
minuti di musica che iniziano con l'invettiva di Jesus Alone, dai
timbri Morrisoniani, la lunga, faticosa di The End del Terzo
Millennio, e si chiudono con l'orazione funebre contenuta nella
title-track, Skeleton Tree, ovvero l'albero scheletrico. Nella Cabala
ebraica l'esistenza tutta è sintetizzata proprio in un arbusto, che
ha radici affondate in terra e rami protesi verso il cielo. Una
metafora alchemica che Cave spoglia. Via le foglie, via la linfa.
Rimangono un padre e una madre a fare i conti con il dolore peggiore:
essere sopravvissuti al proprio figlio, e quindi al significato
stesso di futuro. I suoni sono anche essi ridotti all'osso,
minimali, spettrali, con archi e sintetizzatori orchestrati da Warren
Ellis, infernale genio sonico dei Bad Seeds, la band di Cave.
Un
disco ostico eppure fascinoso, magnetico, non il migliore nella
discografia complessa di Cave, ma cruciale. Uno snodo. Dove Nick
canta: “Sei caduto dal cielo, precipitato su un campo vicino al
fiume Adur. (…) Con la mia voce ti sto chiamando”. Dove le parole
“amore” e “bisogno” sono ripetute all'infinito e la tregua è
segnata da Distant Sky, con la celestiale voce del soprano danese
Else Torpe e Girl in Amber, forse entrambe dedicate alla moglie
Susie.
Quello
che è sottinteso in Skeleton Tree diventa manifesto in One More Time
With Feeling, il documentario firmato da Andrew Domink, il regista
neozelandese amico di vecchia data. Tra i due perfino una fidanzata
in comune, Deanna, celebrata da Nick con un pezzo fiammeggiante su
Tender Prey (1988). Nulla è concesso a Cave in questo manifesto
terribile, tridimensionale, in bianco e nero, girato tra lo studio
dove è stato registrato il disco e la casa di famiglia dell'artista
Brighton,
sud della Gran Bretagna, luogo di ferie e tomba della Redenzione. Se
il disco suggerisce, nel film il lutto esplode attraverso le parole
spezzate, l'imbarazzo, la fragilità di una rockstar che si guarda
allo specchio e dice: “Quando mi sono venute queste occhiaie?
Quando sono invecchiato così tanto? Sono diventato oggetto di pietà,
la gente mi ferma per esprimermi solidarietà. E io non so se
piangere, abbracciare, essere maleducato. Non so come sintetizzare
quello che ci è accaduto oltre una perfetta banalità. Non so come
comportarmi e questo non è da me. Non so raccontare, mi sembra di
non essere rispettoso con Arthur. Potrei portare il mio punto di
vista, quello di mia moglie, ma non il suo. Capite?”.
Così
la stanza del figlio si intravede appena in One More Time With
Feeling: un cuscino con il nome del ragazzo scomparso, due
skateboard, scarpe da ginnastica. Susie mostra un quadretto disegnato
da Arthur quando aveva 5 anni: è la scogliera dove ha trovato la
morte. Sussurra a Nick mentre la cinepresa filma impietosa: “Mi sta
venendo da piangere”. Lui le tiene la mano, sotto il tavolo.
Sembrano due naufraghi, due vite spezzate che cercano di salvare un
grande amore, una bella, invidiata, famosa famiglia.
E
dunque One More Time With Feeling narra il deragliamento che lascia
il vuoto, quella sindrome da superstiti che colpisce chiunque si
trovi ad affrontare la catastrofe. Non esistono parabole, non ci sono
né Abramo, né Isacco. Nulla brilla. C'è solo la luce agghiacciante
di una “stella nera”, per citare Bowie. E fa riflettere che due
delle opere rock più attese dell'anno abbiano in comune la
desolazione della fine.
Del
performer aggressivo, sfacciato è rimasto ben poco. Nick è
infastidito dalle domande del regista, incalzanti, ma non sa
difendersi. E' spaventato, quasi non trova le parole. E viene da
chiedersi perché abbia accettato di dare la propria anima derelitta
in pasto al pubblico. Quale catarsi possa provocare una pellicola che
sguazza nella sofferenza, si sofferma sugli sguardi devastati dei
protagonisti, sulla musica che non consola. Nessuna terapia. Semmai
One More Time With Feeling sembra la via tortuosa di un'espiazione
rispetto a un divorante senso di colpa “Quando ci siamo distratti?
Come è potuto accadere?”, si chiede ad un certo punto Nick Cave.
E soprattutto ammette: “Un grande trauma non aiuta il processo
creativo, anzi lo affossa, toglie energie, diventa una specie di
recinto dentro la testa. Ci ritorni di continuo. La vita non è una
storia”
E
in questo ha ragione. La vita spesso non è una storia. O almeno non
quella che abbiamo sperato di poter raccontare.
Daniela Amenta
27 settembre 2016, da l'Unità
27 settembre 2016, da l'Unità