lunedì 30 settembre 2013

Bella Billie




e cerca cerca cerca tra 20mila dischi uno, uno del sollievo e ti ritrovo regina. che era di luglio quando te ne andasti. referto medico: overdose. overdose di che, lady? d'amaro, d'amore negato, di more, di musica, di troppa musica meravigliosa, cantata con voce sbilenchissima e di velluto, mia perfetta imperatrice negata. donna, nera, tossica e mignotta, ed esagerata, affamata di carezze, con quelle labbra rosso sangue e una gardenia tra i capelli neri. bella billie. siediti qui, accanto, serviamoci una vodka mentre il cielo si fa arancio.
guarda lady day, guarda come roma trascolora e sembra una città come tutte le altre in questo tramonto, un tramonto di lontananze e distacchi, di vapori, di calori che salgono, e questo caldo, caldo assoluto. senti mia preferita, senti il retrogusto di gelo. lo so che lo sai, tanto che non posso ascoltare che te, e la sinfonia scura del duca ellington. non posso che ascoltarti, strange fruit, superba e disperata. e sola. e mai un bacio sulla guancia, una mano che stringe un'altra mano, neppure quando il mondo, il tuo piccolo mondo va a rotoli.
così ti vedo camminare billie, lungo la stradina che porta al parco in questo cielo arancio che si allarga come un ceffone, una macchia d'olio, una perfidia priva d'ironia a cerchi concentrici. eccoti. con l'abito buono, segno dell'ariete, orgogliosa e arrogante a catalogare (file under: sticazzi) tutti i silenzi dell'estate, e quelli della primavera, e i rifiuti, e le mani di troppo, e le assenze d'amore.
mia meravigliosa signora dell'inferno in terra e del paradiso dello spartito, trattata come l'ultima, tu la prima. comprata per un piatto di pollo e patatine, comprata per una bustina, comprabustinaperfavore, compracalma, comprasilenzio, compraassenza, comprachenonvogliosaperecomemichiamo, compraedimenticami, e anche se non compri, man,  fai finta di regalarmi un batticuore, una speranza, un sogno di risate e pelle, di cortesie e fusa, di cose favorite e di cose eterne, di cose solo per me, che non prevedono altro, altre..
e invece nulla, vero billie l'immensa? e ci giochiamo a palletta con il nulla, e il vuoto pneumatico, e le dimenticanze. ti servo un'altra vodkina calda, da classe proletaria?  tu oscilli, ancheggi, t'aggrappi a una colonna di cielo, sfoderi un sorriso maldestro e canti. e gesù canti, e mi s'apre il costato a metà. tutto il miele del mondo, tutto il dolore del monde, a un passo, tuttotutto che gira su un piatto, si riposiziona la puntina e tu riparti, mia bambina divina. e mi perdo. non ti perdo. no, non ti perdo. tu sei parte di me, signora.

a love supreme.
daniela amenta
(2003)

venerdì 27 settembre 2013

Te saluto Zanardi

Caro Paz, che anno era quando te ne sei andato? Il '98, l'88, il '78? Boh, buio profondo o desiderio di buio, che poi è lo stesso. Il giorno però me lo ricordo. Un giorno di giugno. "Noto fumettista stroncato da collasso". Tre righe lette su un quotidiano mentre un treno in corsa fischiava verso il mare. E d'improvviso il viaggio trascolarava. Senso di nausea. Paura. Vuoto. Ti ho pianto come un fratello. Il fratello fantastico e maledetto che noi, le donnine sopravvissute alla non-rivoluzione del post femminismo, post punk, post comunismo e post macedonia mista, sognavamo a fianco. Fratello eh, mica amante.
Troppo fico il Paz, troppo bello per sposarsi ai nostri giubbotti alla Fonzie, troppo geniale il Paz per camminare in sincrono coi nostri zoccoli e le gonne a fiori. Troppo audace da sostenere. Te ne sei andato come una canzone degli Who, immortale oramai. Te ne sei andato tra gli accordi di Strummer Joe e lì esisti, resisti. Come quel pezzo di Fossati che amavi: "Per niente facili, uomini sempre poco allineati". Solo che più ti cerco, meno ti trovo. E adesso, in questo millennio, mi sfuggono i tuoi Natta, i tuoi Pertini, i tuoi Craxi. Non ti capirebbero oggi Andrenza. Abbisognano di altro, io stessa abbisogno di nuovi tratti, altre passioni. Ora gli eroi hanno profili tecnologici, volti cellulari, arti digitali, visi tirati dalle frequentazioni in rete. Che ne sai Spaz? Che vuoi saperne: il Papa seppellirà Zanardi e tutti i cattivi del globo in una maestosa cerimonia, il Pci non esiste più e vien da pensare che non sia mai esistito se non come allucinazione collettiva e perfino la Lazio ha vinto uno scudetto. Qui gira tutto in fretta.
Anche la roba ha nomi di cocktail. Solo il prezzo resta invariato. Così come il costo del dolore. Ma non ti capirebbero Paz. Non capirebbero Pluto, le "vighnette", il "prima pagare poi disegno", quell'ansia di massacrarci e poi far pace con noi stessi. Gioventù bruciacchiata che "aveva 20 anni nel '77 e ora ne ha 18" e non cresce, non dimentica, conta i lutti e ti racconta come un nonno. Ma io più ti cerco e meno ti trovo in quest'epoca di Aids e giubilei, di Sms e cronaca mondana. Mi sfuggi super Apaz che ci facevi morir dal ridere con la Prolisseide ("ovvero tutte le persone famose che ho conosciuto") e piangere di sconforto con Pompeo. Nel frattempo ho conosciuto tua moglie, Marina. Bella come te, un po' meno sfolgorante. C'è l'idea di una Fondazione Pazienza. Storia nobile, vagamente tristanzuola. Chi ne usufruirebbe?
Già mi vedo, li vedo. La fila di reduci a pagare il biglietto in quel di Montalcino pur di sentirsi "forever young", a fare a gara a chi ricorda di più le battute, le matite, le citazioni. Caro Paz, ora appartieni a tutti, anche a coloro che non c'erano. Fa male. Fanno male le ristampe inutili, certe pubblicazioni all'odor di squalo, la suddivisione in parti eque del caro estinto. Fa male sentirsi tesserati di un movimento che non esiste più, analizzati come bestiole da stabulario, giudicati solo per la sequela di cazzate che abbiamo inanellato. Quelli di oggi, gagliardi e palestrati, non ti capirebbero. Non ci capiscono. Al fornaio mi danno del lei e mi chiedono se il tatuaggio sul braccio è opera dell'estetista. Cose d'Apaz, Andrea. Qui gira tutto in fretta. Non ti trovo ma mi manchi. Mi mancano le "sturiellet", i bestioni da cavalcare, le strisce acide in acido, le tristezze velenose, le fini irreversibili, irreversibili, irreversibili… Mi manchi, mi manco. Forse era amore




(Daniela Amenta, Ultrazine 2001)

sabato 21 settembre 2013

Amy Winehouse e un blues da piangere


Deve essere stato facile chiuderla nella sacca rossa, l'ultima concessione glam. Un metro e 59 centimetri per 45 chilogrammi appena. Facile tirarla su, portarla via, sotto il cielo color latte di Londra. Quarantacinque chilogrammi appena sconquassati da droghe, draghi e tatuaggi da pirata. Amy Winehouse esce di scena dal palchetto privato, numero 30 di Camden, e suo malgrado entra nella storia. Lei che proprio non aveva voglia di finire nell'almanacco del rock'n'roll, immortalata nel memorabilia dei fan affranti, dei vedovi e delle vedove con gli occhi bistrati e i capelli cotonati. Domani sarà il tempo dei cloni. Oggi non ci resta che quest'ultima immagine, la più vivida. Un sacco della polizia mortuaria. E due dischi.

Che Amy sarebbe morta giovane lo sapevano tutti. Tutti quelli che l'avevano ascoltata con un po' di cuore, oltre le orecchie. Il testamento era lì, a portata di mano, nota dopo nota. Diciamo che l'ennesimo big one, nel tumultuoso pomeriggio di un sabato britannico, è la cosa più scontata che abbia fatto negli ultimi anni. Ma a ognuno i suoi demoni, il proprio destino. Lei li aveva incisi tra l'eye liner e le corde vocali. Una voce magniloquente nonostante lo sterno minuscolo. Fragile come una meringa. Eppure quando cantava, la signoria Winehouse pareva una potente, solidissima ragazza nera. Una reginetta del soul, del rhythm 'n' blues. La madamina sboccata che intonava melodie antiche, complesse. La piccola ragazza con il seno da pin-up che usciva in vestaglia a buttare l'immondizia, rilasciava interviste al citofono, s'invaghiva di brutti ceffi. Perennemente in bilico tra scarpe troppo alte e roba troppo forte. Per questo, per questo suo ondeggiare infinito tra il culto e la mestizia dell'esistere, tra lo sguaiato e la nobiltà di uno sguardo disperato, per questo, per tutte le note stonate che non avrebbe dovuto prendere, l'amavamo. Noi amavamo la ragazza che si sentiva la meno amata.

Lo scarto tra l'aspetto e la voce l'aveva resa star, dilatandone la solitudine, la fatica di stare al mondo. Talento ne aveva. Tanto quanto ne buttava via. Lo sapevamo noi, lo sapeva benissimo lei, che gli dava il valore di un dono temporale, fugace. “Ho fatto un disco, ma in fondo è solo un disco”. “Canto, certo canto. Ma potrei fare anche la brava moglie”. Una cattiva ragazza che diceva parolacce, si faceva, collezionava storie sbagliate. E ora, a proposito di errori, il gioco dei rimandi e delle citazioni pare fuori luogo. Come un sacco mortuario rosso. Rosso come uno smalto sfacciato, un rossetto vistoso. L'ultimo paradosso.

Inutile paragonarla a Janis Joplin che sapeva stare dritta sul palco, anche dopo una pera, e aveva voce di catrame fuso. Billie Holiday, invece, le avrebbe regalato una gardenia bianca e magari avrebbero fatto a botte. La parabola di Amy nasce e finisce con lei, nell'arco di 27 fottuti anni. Lei, unica diva improbabile. Unica. Dunque questa storia si conclude con una sacca rossa, con la faccia triste di Reg Traviss tra i fiori di girasole, tra le banalità di mamma, papà e circo barnum discografico, resi celebri da una signorina bellissima e spigolosa.

Non ne nasceranno altre come lei. Per questo ci mancherà.
Ognuno ha un blues da piangere. Talvolta è alcolico, sbilenco e pazzo. Talvolta il blues è una donna. Con gli occhi tristi. Di foglia.  

Daniela Amenta
(luglio 2011)

Il respiro nero di Roma



Ci vorrebbe l’ispettore Ingravallo, quello del “Pasticciaccio brutto de via Merulana”, a decifrare segni, angoli, a riportare tutta la faccenda nel grammelot delle guardie dei romanzi, a codificare, semplificare questi giri concentrici di strade. Le strade della morte, dicono. Che è pure un bel paradosso in questa città solare, d’inverno e d’estate, chioccia e sontuosa, ma de core, eppoi luminosa, fin troppo, quasi abbagliante. E insomma don Ciccio Ingravallo, di Gadda, respirerebbe ogni particolare dello scenario. E tirerebbe su col naso pure quest’odore che aleggia ancora: sangue, sigilli col nastro adesivo, formalina, borotalco di guanti, sgommate di Volanti. Le case dei delitti di Roma, un triangolo sbilenco dalla periferia della Magliana a costeggiare Prati, fino alla suburra nobile dell’Olgiata. Le case dei delitti dimenticati, anche da chi ora ci abita. Come se bastasse rinfrescare le pareti, lavare i pavimenti con la candeggina, attaccare un bel quadro, proprio qui, guardi, su questa parete, che mi dà luce a tutta la stanza. 

La stanza è in via Poma. Via Poma 2, terzo piano dell’edifico 1B. E l’8 agosto 1990 anche nel quartiere Prati, lineare e squadrato, passato col righello. Quartiere di uffici e avvocati, la Procura a un passo, la Rai e San Pietro, e di fianco il Tevere. 



Via Poma 2 non è un palazzo, ma un condominio color biscotto. Più entrate, più uscite, l’ascensore con le grate, il giardinetto attorno, curato. E’ come allora viapomadue, tutto d’un fiato, che d’improvviso c’è il rischio che il fiato manchi, muoia in gola. Ventinove coltellate. L’ispettore Ingravallo l’avrebbe trovata così Simonetta Cesaroni, seminuda, le scarpe da ginnastica fuori la porta, 21 anni, e nel portafogli quella sua foto poi sbattuta sui giornali, proprio quella, col costume bianco, memoria dell’ultima, bella estate. Icona di un omicidio mai svelato. 
E’ rimasto tutto qui anche se il notaio Fabrizio Guerritore va di fretta. Questo è il suo studio, ora. L’annuncio “vendesi appartamento” rimase attaccato alla guardiola di Pierino Vanacore per mesi. “Prezzo abbordabile, un buon affare, considerata la zona centrale”, spiega. “Paura? E perché? Comunque la camera dove avvenne il delitto è la mia, le segretarie hanno preferito uno spazio più prossimo all’ingresso. I clienti? Quanto è accaduto non lo ricordano più, mi creda”. 


Come nessuno ricorda una vecchia toilette per cani. Via della Magliana 253/L. Qui gli edifici si stringono, chiudono il cielo. Palazzoni, traffico, Roma in lontananza. E proprio qui Pietro De Negri consumò la sua personale vendetta, o almeno così ha sempre sostenuto. Sul tavolo del “Canaro”, in una gabbia, c’era Giancarlo Ricci. Quando fu trovato, il 18 febbraio del 1988, era una sorta di troncone fumigante. Niente d’umano che perfino Ingravallo avrebbe strizzato gli occhi e infilato il naso nel bavero della giacca. Ha invece uno sguardo lieve la signora Anna, proprietaria della boutique che ha preso il posto del negozio per animali. Pareti rosa, specchi, piante, lingerie nero pece. Non manca nulla, con fantasie di ogni tipo comprese nel prezzo. “Ci siamo trasferite dopo un anno dal fatto, io e mia figlia. Prima era stato affittato a un falegname, poi a un macellaio. Poi, eccoci…” Eccoci, dunque. E che gran sorrisi, e che belle sottovesti, nella città che rimuove.

L’Olgiata, il formicaio di lusso, dista dalla Magliana quanto la luna. Erbetta all’inglese, cancelli, guardiani. Roma nord, verdissima e ombrosa. La villa di Alberica Filo Della Torre neppure si scorge dalla stradina interna. Sfolgorio di piante, tende, gazebo. 10 luglio del 1991, un altro giallo rimasto tale, con la contessa piegata su se stessa, a terra, e l’acqua della piscina lievemente increspata dal ponentino. Tutti colpevoli, tutti innocenti, un’unica vittima e sul citofono una targhetta bianca. E’ lo show room Trussardi. “Ma lo usano poco, non si vede mai nessuno”, dice a bassa voce una donna.Un party ogni tanto mentre crescono le siepi di bosso, mentre pare di intravedere Ingravallo, quasi di corsa, verso via Merulana. Lì nei pasticciacci brutti che odorano d’umanità, quella vera. Quella che neppure il tempo riesce a smarrire.

Daniela Amenta
(Urban, 2003)

venerdì 20 settembre 2013

Orietta Berti è pazza - Le scritte sui muri di Roma



Ci sono città che si intuiscono, nella loro interezza, dai cimiteri. Una visita al camposanto e si mostrano di colpo. Di colpo le vedi e le capisci. Le senti, le comprendi. E ci sono posti che iniziano e finiscono in una piazza, tra i bastioni del centro o lungo il bancone di un bar. Roma no. Roma è sfuggente. E’ troppa. Sempre a gambe aperte, denudata, ripresa, fotografata. Che credi di conoscerla e invece t’ha regalato solo un pezzettino di sé. Magari il più inutile. Bisogna camminarci. Attraversarla. Leggerla. Perché Roma è una scritta. Un’enorme scritta. Una “Pasquinata” permanente. Il sor Pasquino lasciava sui muri versi e svolazzi d’acida poesia alla faccia dei potenti. I romani fanno altrettanto. S’armano di vernici, di spray e schizzano case, monumenti, tangenziali e gallerie della metropolitana, peggio dei gatti in calore. Roma si svela così, si racconta così. Slogan dopo slogan, segno dopo segno. Come se le scritte murali fossero rughe e cicatrici di una faccia vera, i particolari determinanti di un immenso volto umano. Chi era Angela, ad esempio? Ce lo siamo chiesti in milioni, passando su Ponte Garibaldi. Era una dichiarazione a lettere cubitali, una delle prime, di cuore e di lotta: Angela ti amo. Con la A cerchiata dell’anarchia. Una scritta rossa, gigantesca, incisa sul travertino bianco dell’Isola Tiberina. La vedevi dall’autobus. Definita e definitiva, quasi fosforescente, chiarissima anche di notte. E ci immaginavamo sia lei, che lui, l’amante anonimo. Pareva di vederli, belli e rivoluzionari, a scambiarsi baci e testi di Bakunin dalle parti del fiume. Che non è biondo, nocciola semmai, ma ha argini perfetti, candidi come fogli Fabriano extralarge. Apparve proprio qui, lungo il Tevere e a pochi metri da Castel Sant’Angelo, l’epica scritta-murales. Finì sui giornali, immortalata dai turisti, altro che “Cuppolone”. Era il disegno di un polso alto almeno un metro e mezzo e con un orologio fermo sulle 11.30: “E’ ora che v’aripijate”. Così, senza altro aggiungere, senza un destinatario preciso. Messaggio tipicamente capitolino. Non tanto per il “v’aripijate” ma per il cinico disincanto. Per questa capacità dell’Urbe e dei suoi figli di trattare di calcio, politica e sentimenti con lo stesso tono sornione e malandrino. Dove altro, se non in via del Tritone, poteva trovare spazio l’estrema sintesi tra tutti gli Andreotti possibili? “Giulio fatte de gladio”. Amen.

Scritte immortali, alcune. Mai cancellate. Che resistono al tempo e al traffico della Prenestina. Qui, la consolare, da quindici anni ospita quello sberleffo più degno di un elzeviro: “Co sto caldo ce voleva un bel governo ombra”. E poi scritte multiple, con  aggiunte, richiami. In via Morgagni, dove “Lotta Continua” si è trasformata in “CarLotta Continua a fare la mignotta” in barba al politicamente corretto. O sulla Roma-L’Aquila, già in odor di autostrada. Su di un pilastro prende forma perfino il dogma religioso: “Dio c’è”. Che però si riduce in barzelletta grazie al commento di uno spray apocrifo: “o ce fa?”. Multipla anche la celebre “La Roma è Magica”, riveduta e corretta dai laziali in “Se la Roma è Magica, Cicciolina è vergine”. E via così, tra sfottò e illuminazioni ruggenti. La storia raccontata sui muri. Quella globale, di tutti. Quella privata. “Silvia sei bella come il tramonto”. E un mese dopo via Silvia, con una linea decisa di vernice. “Laura sei bella come il tramonto”. Si attendono altri nomi sulla Tangenziale Est, nuove passioni. Rimane invece unica, come Angela, la rima baciata e dolorosa sulla volta più alta ed esterna del ponte Flaminio, direzione Corso Francia: “Costanza ti amo senza speranza”, opera di un acrobata o, in alternativa, di un ragno.


Roma è così. Come questi graffi che mescolano sogni, sintomi, peripezie e visioni. Leggere Garbatella, ad esempio, è un esercizio di stile continuo. “La malavita invomita, ricca e prepotente”, recita un nauseato muretto. Poco oltre gli risponde un portoncino guardingo “A Ste, guardete tu’ sorella”. Ed ecco che quasi appare questa sorella di Stefano, fanatica e maliziosa, che l’intero quartiere controlla, spia, segue, tra ansimi e sospiri. E’ proprio in periferia che i poeti de ‘noantri si scatenano. E si scatena una romanitas surreale. Centocelle in versione Artaud si condensa nel miglior verso mai prodotto nel circondario: “Orietta Berti è pazza”. Chapeau. Che aggiungere? E’ una stilettata geniale, un colpo raffinato e a sorpresa. Che né gli Skiantos, né Elio e le Storie Tese sarebbero riusciti a fare di meglio. Oppure quell’altra. Imprevedibile, che lascia di stucco: “Non esiste rivoluzione con la motorizzazione”. E tra via dei Mirti e un reticolo di strade che hanno nomi di fiori e frutta, ancora la fantasia al potere: “Onanismo militante”.


 Benvenuti, allora. Benvenuti a Roma, dove si scrive coi pennelli indelebili. Dove ognuno ha da dire la sua. Dove si tatuano sulle pietre e sugli intonaci frasi, pensieri, romanzi di una riga. “Addio splendida e spensierata adolescenza”, commenta un Peter Pan costretto a invecchiare all’Acqua Acetosa. Replicano in via Baccelli, sul marciapiede battuto dai trans: “I signori della lussuria sono disoccupati”. E non finisce mai. Perché la “Caput” è un giornale, un libro da sfogliare che si rinnova notte dopo notte, quando l’urgenza di dire, di comunicare arma anime pazze e sconosciute. Cosicché può accadere di tutto, pagina dopo pagina, mattone dopo mattone. Vedi il caso della Montagnola che si gemella con Coney Island. Proprio così. La prima scritta apparve nel quartiere, area sud. “Roma like New York. Montagnola like Coney Island”. Da oltreoceano, la risposta chiara e forte (documentata con alcune foto che fecero il giro degli increduli residenti). “Coney Island like Montagnola”. Il che vuol dire che anche questo pezzetto anonimo di città potrebbe avere il suo Lou Reed. 

E non c’è writer che tenga. Perché nel caso delle scritte non valgono le hall of fame, i tags o i caps. Il tratto o il colore. Vale l’immaginazione, valgono l’acume matto e la voglia di spernacchiare l’insopportabile mondo del buon senso, vale il gusto di sovvertire le regole e di prendersi la parola, senza chiedere il permesso. Il manifesto d’intenti dell’intero movimento degli scrittori murali potrebbe essere in Trastevere. Via San Francesco a Ripa. “Roma città sempre vicina a tutti. Viva gli autisti degli autobus”. La città commenta, dibatte, riflette così. Si riflette su marmi e pietra povera. Si difende. “Più samba meno caramba”, “Più bonghi meno binghi”, “Baccaja reddito”. Si riprende la voce, la lingua. Si racconta, declama. Quattro milioni e mezzo di potenziali Pasquini. Il più gigantesco esercito mai schierato dalla letteratura dei poveri. “Perché come te nessuna mai”, scrivono Giacomo e Corrado sulla Nettunense. Angela, Costanza, Coney Island e Orietta Berti lo sanno bene. Come te, Roma, nessuna mai. Firmato: “Muccino pippa”.

Daniela Amenta
(Urban 2004)

giovedì 19 settembre 2013

A cento all'ora con The Who



Parigi, 4 luglio 2013


Only love 
Can make it rain 
The way the beach 
Is kissed by the sea 
Only love 
Can make it rain 
Like the sweat of lovers 
Layin' in the fields 




C'è il mare, naturalmente. Il mare grigio, gelido della Manica. Il mare che copre, risucchia e riporta a galla la storia. La storia che si ripete quarant'anni dopo, celebrata dal Quadrophenia Tour and More. Una lunghissima maratona di concerti in America iniziata nel novembre del 2011, chiusa dagli Who con una dozzina di date in Europa, un pugno di concerti tra Irlanda, Gran Bretagna, Francia e Olanda andati esauriti in pochi giorni. L'8 di luglio gran finale a Wembley, a casa loro insomma. Chissà se li rivedremo, chissà quando. Pete Townshend ha 68 anni, Roger Daltrey uno in più. Hanno attraversato il rock in lungo e in largo, l'hanno filtrato e metabolizzato, spaccato in due come una Fender su un muro di amplificatori. Hanno collezionato eccessi, gloria totale, passioni, dolori, accuse infamanti, processi, lutti. Oggi sono perfettamente «puliti» e vecchi al punto giusto per riportare in scena Quadrophenia, doppio disco massiccio del '73, l'opera rock che fotografa senza fronzoli la generazione degli anni Cinquanta, quella che - affamata e sorpresa - scopriva la vita e si lasciava alle spalle la guerra, le macerie.

 Quadrophenia è «l'ultimo grande album degli Who» ha detto più volte Townshend. Carne e sangue e sogni. Album difficile con i leitmotiv che si rincorrono, partiture orchestrali che salgono e scendono. Un disco diventato poi film che racconta la battaglia di Brighton del 1965 tra i Mod e i Rockers, la storia di Jimmy, il ragazzo a bordo di una Lambretta super accessoriata a caccia della felicità. Jimmy il fattorino incompreso dalla famiglia, abbandonato dagli amici e dall'amata fidanzatina, Jimmy fatto di droghe, Jimmy che guarda l'orizzonte latteo e lancia il suo «bolide», la sua identità ovvero, tra le onde scure della Manica. 

C'è il mare anche a Bercy, fiammeggiante Palasport parigino, il mare livido proiettato su uno schermo gigante suddiviso in tre specchi tondi come oblò, come ruote di una Lambretta. Qui, mentre Daltrey apre le danze con I' am the sea, scorre l'album di famiglia degli Who e un pezzo importante della storia del Novecento. C'è l'Inghilterra bombardata, quella che si prepara ad andare in guerra. C'è la morte di re Giorgio VI e una giovanissima Elisabetta, ci sono il cibo razionato e la Union Jack che sventola con orgoglio, c'è la ripresa, ci sono le dance hall e i ragazzi con il parka, c'è Presley e c'è anche Marilyn, c'è il boom e il punk, perfino Joe Strummer si intravede. Ma soprattutto ci sono gli Who tutti interi, tutti e quattro con la suite di Quadrophenia che detta i tempi e li dilata. C'è Keith Moon, il batterista stellare, il guitto pazzo che faceva camminare piatti e tamburi per quanto picchiava, il colosso del drumming moderno, il mai sostituito per davvero, morto a 32 anni nel 1978 per overdose di clometiazolo, il farmaco che doveva servirgli per uscire dalla tossicodipendenza. E c'è John Entwistle, il bassista di ghiaccio, il metronomo impassibile, l'uomo che aveva il ritmo nella dita stroncato da un infarto nel 2002 a Las Vegas dopo una notte di sesso e chissà cos'altro. 

Keith e John: le loro immagini si ripetono all'infinito al centro dei monitor-oblò. Sorridono, fanno le boccacce, suonano per davvero dall'alto di quegli schermi grandissimi. Una magia tecnica: video di ieri sincronizzati con lo show di oggi. Così Keith canta Bell Boy mentre John si lancia nell'assolo di 5.15. E la gente - i padri con i figli, le ex ragazze, gli adolescenti del Terzo Millennio, questa appassionata fauna di sempiterni fan che copre quattro o cinque generazioni - applaude forte ma soprattutto si commuove. Ecco, non proprio un concerto, non solo almeno. 

Uno struggente omaggio al passato, agli Who, a noi che eravamo giovani e scalciavamo ascoltandoli, al mondo com'era, con il suo mare, la sua risacca. Sul palco sono in dieci tra gli altri Pino Palladino al basso, Simon Townshend (il fratello di Pete) alla voce e alle chitarre, Zack Starkey (il figlio di Ringo Starr) alla batteria. Roger, dopo un avvio in sordina, scalda la voce e riesce a cantare per intero i 17 pezzi di Quadrophenia, emozionandoci con gli acuti impossibili di Love Reign O'er Me, Pete con una maglia da marinaretto, fa roteare la chitarra come ai vecchi tempi, e salta anche, e intona Cut My Hair, e cambia chitarre. Scorrono le immagini, scorrono le canzoni, una dietro l'altra come nel disco: The Punk And The Godfather, I'm The One, The Dirty Jobs, Helpless Dancer, Is It In My Head?, I've Had Enough... 

Sono note e luci che sembra uno spettacolo pirotecnico e Lambrette che vanno a cento all'ora e un sacco di emozioni, di ricordi. Fare pace con il passato e servircelo per quello che è. Perché Pete e Roger tengono la scena, sono in forma, invecchiati per bene, nessuna parodia delle rockstar di ieri. Il pubblico strilla «Who Who Who». Chi sei, chi siamo, chi è il prossimo? Who Are You? arriva come una fiammata tra testa e cuore. E poi You Better You Bet, Pinball Wizard. È un coro immenso ora. Tutti in piedi. Tutti a ballare. Tutti per Baba O' Riley, tutti con le mani in alto a scandire anche gli accordi di Wont' Get Fooled Again. Due ore di grande, grandissima musica che si chiudono con Tea & Theatre da Endless Wire, l'ultimo album degli Who del 2006. È quanto. Roger e Pete si abbracciano come quando erano ragazzi, come quando quest'avventura cominciò tra rabbia e poesia. The kids are always alright. Si inchinano compiti. «Siate felici, siate in salute, siate fortunati». Salutano così. Fuori c'è Parigi. Lucente e immensa.

Daniela Amenta
(l'Unità 6 luglio 2013)
Little Tony, ciuffi e spade




"Notte di colpo la notte il cuore che batte è fermo oramai"

Dalle parti di Via Ostiense, Roma, proprio sotto l'Unità gira un signore vestito più o meno come Presley. Giubbottino di pelle, gran ciuffo di un nero corvino, stivali con tacco importante. Un altro che imita Elvis? Pare di no, pare che il tipo faccia riferimento a Little Tony e che oggi niente birretta al bar. Oggi ha una spada nel cuore.

E non è il solo. Ognuno ha il suo personale ricordo di Antonio Ciacci da Tivoli, il rocker de noantri di origini sanmarinesi, morto lunedì a 72 anni in una clinica romana, consumato da un mieloma. C'è chi portava la sua foto dal barbiere pretendendo lo stesso taglio, chi aveva la cugina pazza d'amore che passava ore e ore in via Gregorio VII dove Little abitava, chi conserva i 45 giri sotto vetro e chi si asciuga una furtiva lacrima. Fatevi un giro sui social network. Neanche per Ray Manzerek dei Doors tanto spiegamento di omaggi (essì che la Rete è insuperabile a celebrare il lutto collettivo, ci sguazza come una prefica).

Su Facebook risuona compulsivamente Cuore matto, su Twitter #LittleTony è l'hashtag più rilanciato. Lo piangono i colleghi - da Emma a Giuliano dei Negramaro, da Finardi all’amico del cuore Bobby Solo - e soprattutto lo piange la gente comune con cui aveva stabilito un rapporto empatico, solido. Gente invecchiata con lui in allegria canticchiando «Dimmi la veritààààààààààà». Gente a cui regalò la colonna sonora degli Anni Sessanta, così spensierata, lieve, semplice. Uguale a un’Italia che non esiste più.

Faceva simpatia quell'ex ragazzo matto per Little Richard e Presley che intonava Tuttifrutti con la calata romanesca e che ha attraversato per mezzo secolo la canzone leggera con i pantaloni a zampa d'elefante e i cinturoni dorati. Numeri da record, i suoi: cinquemila concerti tenuti (dai ristoranti dei Castelli ai grandi teatri in America), 22 film interpretati, oltre 20 milioni di copie vendute, grande successo anche nell'Inghilterra degli anni Sessanta quando con il suo gruppo, i «Brothers», si trasferisce a Londra e sfonda nella Top 20 con Too Good , pezzo scritto da uno degli autori di Elvis. All’Ansa aveva raccontato: «Tornai in Italia senza una lira, con i jeans, il giubbotto di pelle da Teddy Boys alla Marlon Brando, gli occhiali da sole e volevo solo cantare in inglese. A Milano avevamo firmato un contratto con la Durium: avevamo fame, dormivamo in una pensione da 300 lire a notte e mangiavamo in un'osteria a 150 lire. Mi dissero che se volevo cantare in inglese avrebbero stracciato il contratto. Non avevo scelta».

Quella di aver scalato la classifica inglese era una delle medaglie che si appuntava con più soddisfazione sul bavero. «Altro che Vasco», diceva Tony l’orgoglioso. Poi c'era, c’è, tutto il resto, ovvio. La villa tipo Graceland sull'Appia con statua del Little alta quattro metri, una collezione di abiti da scena da far impallidire Moira Orfei, le parti interpretate col sorriso sfrontato nei musicarelli, la sequenza ininterrotta di Festival di Sanremo e Cantagiro, il connubio con Bobby Solo e un certo antagonismo con il Molleggiato. Nella melodia italiana Little (neppure i parenti più stretti pare lo chiamassero Antonio) inserì i battiti veloci del rock'n'roll che tanto amava, uniti a una pulsione erotica mai sfacciata, più giocata sull'occhieggiare che sul roteare del pelvico bacino.

Sex symbol casereccio insomma, ma così allegro e gioviale da risultare irresistibile per un paio di generazioni di signorine regolarmente omaggiate in Bada bambina, Riderà, Ventiquattromila baci . Nonostante lo stuolo di fan ebbe «solo» due mogli: il primo matrimonio durato vent’anni con Giuliana Brugnoli, ex hostess, morta nel 1993 per un tumore e madre di Cristiana. La seconda, Luciana Manfra, sposata nel 1999, sua corista, 25 anni meno del nostro, coetanea della figlia. La parola più ricorrente, nella lunga carriera del «piccolo Tony» è stata cuore: La spada nel cuore, Cuore Matto, Cuore ballerino, Col cuore in gola . E nel 2006 fu proprio il cuore a giocargli un brutto scherzo a Ottawa, durante uno show. Se la cavò per un soffio.

Quando si rimise in piedi decise di diventare testimonial di un prodotto anticolesterolo. Sembra che dopo quell'incidente fosse diventato ipocondriaco, più attento alla salute. Purtroppo non è servito a nulla. Così suona amaro il titolo del suo ultimo disco, del 2008, Non finisce qui . E invece la parentesi terrena dell’ex urlatore è finita e si è conclusa in grande stile grazie all’affetto della gente, la sua gente, radunata per i funerali al Divino Amore, uno dei santuari più amati dai romani. Lo celebrano loro più dei nostri «coccodrilli». Loro che lo hanno seguito nella buona e nella cattiva sorte, spellandosi le mani anche quando lo show business lo aveva dimenticato. Saranno altri 24mila baci e spade nel cuore e profumo di mare e una vita intera da salutare. Tra un ciuffo malandrino e vecchio rock’n’roll.

Daniela Amenta
(l'Unità 30 maggio 2013)

mercoledì 18 settembre 2013

Lucio Dalla, quale allegria


"Il giorno di domani, sarà tutto per te, un goccio di caffè, una zaffata di vento"

Tre giorni soltanto al quattro marzo. Lucio Dalla non è riuscito a festeggiare il compleanno, 69 anni, con Gesù Bambino, un tipo strambo che abita con i gatti in piazza Grande. È rimasto a Montreux, ucciso da un infarto. Era in tour, infaticabile musicista operaio. Morto sul lavoro in Svizzera, come Pablo, il protagonista della canzone firmata con De Gregori. Se n'è andato così, d'improvviso. L’ultima sorpresa, dolorosa stavolta, di Lucio che in 50 anni di carriera ha attraversato generi e pentagrammi con passo leggero e veloce. E noi dietro, a inseguire quell’uomo piccino, che con geniale autoironia si era trasformato egli stesso in un personaggio, sorta di buffo fumetto. L’uomo-icona dei cappellini e gli occhiali grandi che quando cantava, però, riusciva a emozionarci. A emozionare almeno cinque generazioni. Per ognuna una canzone del cuore, un ricordo, un flash da archiviare nella memoria. Lui in bianco e nero a Sanremo, lui nei musicarelli vestito da cowboy, lui e la poesia di Roversi, lui e Banana Republic, lui e Caruso, lui infine che dirige Pierdavide Carone.  Dalla era un alchimista. E come tale è stato in grado di trasformare la canzone in materia viva, una specie di elastico. Tirava gli accordi Lucio, li compattava, li allungava a dismisura e ci cuciva sopra versi funambolici. Tutto molto semplice e semplicemente incantevole.

Nato a Bologna nel ‘43 è stato artista a tutto tondo, dotato di grande intuito anche nella scelta di partner e collaboratori, contraltari e soci. Da Paoli a Ron, da Morandi agli Stadio, da De Gregori alla Baraldi. Una carriera generosa iniziata dalle parti del jazz quando era ancora un ragazzino, continuata negli anni Sessanta, ai tempi del beat, quando cantava scat con i Flippers e si ostinava a esibirsi scalzo. Nel 1966, accompagnato dagli Idoli, il primo disco. Materiale grezzo, voce da strillatore, brani in bilico tra il cinico e il disarmato, il disincanto poetico e il cazzeggio, ovvero quella che nel tempo diventerà la cifra stilistica dell'artista. «Ascoltavo Mingus e Thelonious Monk e la sera suonavo in balera. La gente fischiava, mi tirava dietro qualunque cosa. Pomodori, derrate alimentari. Erano allegri bifolchi che si divertivano e io mi divertivo con loro. È stata la mia palestra. Se si sopravvive si diventa forti» raccontava all’Unità nel ‘79. Così riuscì a sopravvivere anche quella notte, quel 27 gennaio del 1967, vicino di stanza di Tenco a Sanremo. E il giorno dopo salire sul palco e cantare Bisogna saper perdere, un paradosso crudele più che un pezzo. Negli anni Settanta la svolta con 4 marzo 1943 su testo di Paola Pallottino.

L’impegno prende il sopravvento sul ribellismo da urlatore grazie all’incontro con Roberto Roversi: quattro anni folgoranti, tre album spettacolari: da Il giorno aveva 5 teste, tutt’ora un gioiello autorale per raccontare l’Italia operaia, ad Anidride Solforosa fino alla ruggente bellezza di Automobili. Parto difficile e divorzio con Roversi e l’inizio del lavoro in solitudine segnato nel 1977 da Com’è profondo il mare, un capolavoro. Piovono le critiche, i processi sommari nei Palasport e nelle radio libere: ll sovversivo Dalla si è venduto. Lui, sopravvissuto agli ortaggi e alla morte di Tenco, va avanti. Nel ‘79 esce Lucio Dalla, l’album che lo consacra. Un milione di copie vendute. Nell’80 replica con Dalla che contiene Futura. Avete idea di quante (ex) bambine si chiamino così?

 E poi arriva il tour con De Gregori, quel Banana Republic da record, lui il santone del pop assieme al ragazzo timido del Folkstudio. Replica nel 2010. E poi, poi tutto il resto, la fulgida Caruso, e mille altre passioni: dall'omaggio al Napoli alle derive colte dedicate ora a Empedocle ora a Stravinskij. Parabola più dimessa nel finale ma interpretata sempre con travolgente personalità, faccia tosta, senza paura insomma. Il funerale è stato già celebrato in Rete con migliaia di post e canzoni, con lo sketch di Borotalco di Verdone e i tweet tristissimi. Lo piange tutto il mondo della canzone e dello spettacolo: da Celentano a Jovanotti, da Morandi all’amico Ron. Lo saluta con un messaggio anche il Capo dello Stato Napolitano che ne ricorda «la voce forte e originale» tanto amata dagli italiani. A Bologna la casa di Dalla è chiusa ma dalle finestre arrivano le sue canzoni. Tre giorni al quattro marzo. Quale allegria.

Daniela Amenta
 (L'Unità 2 marzo 2012)

martedì 17 settembre 2013

Iggy Pop si è stranito


Iguanito Pop è come nelle foto. tutto muscoli e bucherelli. ah no, non interpreta parti. è così com'è, prendere o lasciare, il nostro. non racconta neanche storie che meritano di essere cliccate, lette e rilette. niente, non pretende. è l'iguanito, the iggy. corteccia sul cuore. ognuno la sua tragedia. solo i baciati da dio credono che la propria meriti di essere più raccontata di quella degli altri. e insomma lui nacque in una roulotte nei sobborghi di detroit, e senza citare i grandi classici mise su un gruppo - the stooges - che poi era il titolo del suo programma tv preferito: quattro cretini a mangiare pop-corn e a bere birra. da quel momento il rock non fu più lo stesso, però. la biografia sta ovunque. con tanto di pere e anfetamine, e non tocca a me raccontarla. ma di iggy vorrei dire, di quel no fun che è sempre vero, quell'urlo (howl, giusto, tanto per citare ginsberg. fa fine), quell'urlo risuona in tre differenti generazioni. niente divertimento e niente altro da aggiungere, a parte le svisate che tagliavano l'aria come - zac zac - rasoi. e la voce. la voce di iggy pop. lust for life.


una persona gentile l'iguanito. piccolo di statura, muscoli e vene di plastica rappresa. parla piano, voce bassa, fumo e catrame, cool è il suo intercalare. aveva una moglie giapponese, tutta zen e arte della manutenzione del più grande bacino punk. poi finì. le storie finiscono, se si è troppo diversi, troppo simili o se si fa a gara a chi colpisce più in fondo, più in giù, dalle parti del cuore. quindi finì. ora sta con 100 femmine, soprattutto ispaniche. gentile, anzi un vero signore. basta non prenderlo per il culo. perché il nonno del search & destroy merita rispetto. a una conferenza stampa, in milano, un tizio gli chiese: "signor iggy, ma visto che lei fa una musica molto dura, perché non si cambia cognome? da pop in rock?". lui niente, manco una piega. d'improvviso s'alza, raggiunge il tipo, lo squadra, gli sputa in faccia "prego, un'altra domanda". certi no fun fanno anche ridere, ma non sono per tutti. ne converrete.

(Daniela Amenta da Linea Gotica, forse 2003)


Nick Drake al nostro matrimonio




La musica sarà per sempre legata alla domenica mattina. La mia, almeno.
C’era da percorrere viale Marconi, l’unica strada di Roma che racchiude un intero quartiere senza nome. C’era da camminare sotto certi raggi d’estate feroci come chiodi incandescenti, e ripararsi sotto le tendine a sbuffo dei negozi quando pioveva. C’era da marciare, tre chilometri di viale Marconi, quasi di corsa, con un’ansia e un’adrenalina che neppure allo stadio mi prende così. Quella voglia di arrivare subito alla fine, di essere lì. Lì era il tunnel che separa il quartiere senza nome da Porta Portese.
Lì è già qui, ora. E qui la domenica mattina si vendono i dischi usati.
Sono stati i miei primi dischi, comprati alla cieca dai pusher di vinile, come li chiamavano noi pischelli.
I pusher arrivavano con le buste delle discoteche più incredibili del mondo, buste rosse di Hong Kong e a strisce blu della Londra swingante e poppettara, e buste nere della New York folky e occhialuta, certamente ebrea che beveva sidro di mele e fumava sigarette al mentolo.
I pusher avevano facce esperte da freak e tenevano le buste in mano. C’era da arrampicarsi sulla punta dei piedi per guardarci dentro, passare con le dita velocemente la costola dei dischi, passare le dita perché la musica è anche tatto. Quando Eno disse che la musica era architettura compressa di suoni, capii e sorrisi. E quindi m’arrampicavo e toccavo, guardavo, valutavo con gli altri pischelli mentre i pusher se la ridevano. Che eravamo alle prese con un miliardo di titoli e due lire in tasca e il dolore estremo della selezione epocale: individuare l’album dell’isola deserta, quello per sempre, della vita.
E poche idee, e zero sapere, e tante volte scegliemmo per un’assonanza, una copertina.

Così il primo disco fu Bowie con gli occhi cangianti, neppure avevo lo stereo, ma bisognava pur cominciare. E scelsi per estetica.
Il pusher disse: «controlla che non sia rigato».
Lo sfilai della mutanda di carta bianca, lo tenni tra le mani e sotto il cielo.
Esattamente tra le mani, senza poggiare le dita sulla plastica nera come se io fossi il re del mondo e stessi analizzando un asteroide.
Il pusher, che aveva occhi azzurri come gli infissi della Grecia e i capelli rossi spiccicati a quelli di Pippi Calzelunghe, osservò.
Commentò: «siamo esperti, eh?».
Annuii. Avevo 12 anni e il cuore nelle orecchie, per il mio primo disco. Me lo incartò tra i fogli di un giornale. Ripercorsi viale Marconi, verso casa, con la sensazione precisa di essere diventata, di colpo, adulta.
Altro che baci, altro che sesso.
Bowie me l’ero scelto, l’avevo soppesato. L’unico elemento casuale poteva riguardare il contenuto. Ma per quello, c’era tempo. Bowie rimase incartato come un’icona, con la carta di giornale fermata agli angoli da due grosse orecchie. La domenica ero di nuovo lì, e pure quella dopo, e per tutte quelle che arrivarono per i successivi tre anni.
Il pusher Mariuccio fu il mio guru, e il maestro, il Don Juand el rockenroll.
«Ma lo sai che cos’è Woodstock, pischè?».
Racconta Mariuccio. E Mariuccio raccontava di palchi e decibel e di chitarre. E di quella chitarra, soprattutto.
«Lui si chiama Jimi, con una emme, ripeti. Ma può esse che non l’hai mai ascoltato? Ma non ce l’hai un fratello più grande? Ma guarda, guarda, siete uguali voi due. Ti battezzo come Jimetta». 
Ero Jimetta e il rock era roba mia, ero la sorella di Hendrix e l’allieva prediletta di Mariuccio. La musica arrivò così, per parentele impreviste, suggellate sotto il tunnel di Porta Portese. Fu così e poi nulla fu più uguale.
Quando ascoltai “Voodoo Chile” mi venne la febbre.
Era sangue del mio sangue, roba di viscere e furore scritta da mio fratello. Ero la predestinata, quindi.
Ebbi altri attacchi, a seguire, a metà tra la rosolia e il delirio, con la fronte che scottava per gli Zeppelin, i Pink Floyd, gli Who, i Kinks.
Mariuccio si aprì un negozio in provincia e sparì. Prima, l’ultima consegna.
Anzi, il primo, unico, prezioso regalo: “Bryter layter”, con la foto di un tipo senza scarpe e una chitarra in braccio.
«Ti consegno questo Jimetta, ascoltalo con attenzione. Quando cresci ci sposeremo e metteremo una canzone al nostro matrimonio».
La canzone era “At the chime of a city clock”, Mariuccio? E tu eri il cugino di Nick Drake? Ogni tanto mi ritorni in mente. E quel disco si chiude con Sunday.
Sarà di domenica che ci ritroveremo. Tu con le buste inglesi, io in punta di piedi.
Sarà di domenica che mi verrà di nuovo la febbre per un assolo, una melodia tristissima, per un uomo coi capelli spiccicati a quelli di Pippi Calzelunghe.

“When the light of the city falls
You fly to the city walls
Take off with your bride.
But at the chime of a city clock”

(Daniela Amenta per Webgol di Antonio Sofi, febbraio 2004)

martedì 3 settembre 2013

Il divino Joe Strummer




Nato ad Ankara il 21 agosto del 1952, morto a Broomfield il 22 dicembre del 2002. Chissà come avrebbe festeggiato i sessant’anni Joe Strummer, leader sempiterno dei Clash, l’ultima grande icona del rock che toglie il fiato, chissà se avrebbe imbracciato la chitarra e insultato i potenti. Chissà che faccia a rivedere i vecchi amici - da Shane MacGowan dei Pogues a Billy Bragg - tutti chiamati a raccolta nel Somerset per Strummer of love, il festival che la famiglia ha voluto organizzare in sua memoria. Tutti qui riuniti, in questa contea verdissima e very british, per rendergli omaggio, fare casino, brindando con birre, svisate e ricordi. Una maratona sonora chiusa lo scorso 19 agosto proprio da Mick Jones, contraltare nei Clash, che con gli occhi lucidi e il vestito buono ha salutato la gente dicendo: «Joe è nei nostri cuori, corpi e anime. Ci manca tanto».

Passione totalizzante
Ci manca, non ha mai smesso di mancarci in questi dieci anni volati via. Morto per un infarto dopo una vita randagia, morto poco prima di Natale come in un romanzetto dal finale poco attendibile. Lui era Clash. Lo scontro, la sbandata, il botto, l'esplosione in testa. Joe, simbolo del pelvico bacino due decadi dopo Presley. Più che una star. Era - rimane - passione condivisa da una, due, tre generazioni. Più che un musicista, moltissimo di più. Che quando si tirano in ballo i Clash si parla di un amore totalizzante, di fette cospicue di immaginario, di gente che ti incollavi il poster in cameretta e ci parlavi, condividevi, ti vestivi uguale, parte di te. Di noi.

Joe lo strimpellatore, detto anche Woody, come quando suonava l'ukelele nel metrò, nelle case occupate. Metà busker, metà rocker, metà squatter. Magnifico ibrido. Cuore meticcio e testa a mille. Arrivò con un urlo e uno sberleffo il redentore sbilenco del rock'n'roll, che in realtà è solo folk amplificato, vive in strada, attraversa le radici popolari, i sogni comuni e li trasfigura. Si faceva chiamare Joe Strummer il nostro folkman preferito, il nostro Woodie Guthrie del'77 e aveva camicine incollate sulla pelle, stelle rosse da sceriffo brigatista, cravatte da cowboy e stivali sbeccati. Dicono: fu solo il profeta del punk. Cazzate. C'è così tanta musica nei Clash che tutto il resto pare silenzio. C'era il reggae selvaggio di Notting Hill, c'erano il fischio dei lacrimogeni, l'urlo delle molotov, l'honky tonky sgangherato dei bar all'alba, il gracchiare di mille juke boxe che macinavano 45 giri. C'era il funk negrissimo e c'era il dub di Giamaica, tempi raddoppiati, ok che diventava okkey, facciate zeppe zeppe, bianchi vestiti da brothers, rock'a'billy e roots, canzonette e inni, Sam Peckinpah e tutto il Far West.

C'era la consapevolezza che la musica potesse essere rivolta e che, anzi, cadenzasse quei giorni di piombo e morte, giorni fantastici e paurosi, indimenticabili. Strummer usciva dai dischi, scendeva in piazza con noi, occupava le università, strillava: «Siete pronti per lo scontro ?». Pronti, certo, con la chitarra di Joe, uguale a quella di Woody, strumento contro i fascisti. Pronti e senza paura. Eravamo un esercito di ribelli e danzavamo in aria. 

Londra chiamava. L’Italia rispondeva. Era il 1980, a Bologna, in piazza Maggiore. I Clash iniziarono il concerto con due ore di ritardo per colpa di Topper Headon, un signor batterista, che si era perso chissà dove. Poi fu la sacra estasi e la celebrazione del culto. E così a Firenze dove rito punk imponeva che il frontman di un gruppo venisse coperto di sputi dalla folla molto scalmanata sotto il palco. Joe nella luce bianca era come il Cristo di Pasolini, fosforescente, lavato, bagnato, benedetto, maledetto dalla doccia collettiva. Lui immobile, scolpito nei calzoni di pelle aderentissimi, spalle dritte da vero gladiatore e occhi sgranati da martire sul Golgota. Silenzioso sotto il fascio di luce. Lui che raccoglieva gli sputi, tirava fuori il pettinino dalla tasca posteriore e si allisciava i capelli. Come potrebbe non mancarci?

Come Peter Pan
Pensavamo non finisse mai. E poi finì nell'82, con Combat Rock, l'album dei record, che avrebbe dovuto contenere una sola canzone, l’unica che ci riguardasse, l'epitaffio: Straight To Hell. Era il necrologio dei Clash e di noi tutti insieme senza più poster in cameretta, sopravvissuti agli incendi, agli assalti. Orfani e dritti all’inferno. Joe continuò da solo e con i Mescaleros, ma non fu più, mai più come allora. Se ne andò a vivere nel Somerset, tra fiumi e colline, con moglie e cani. 

A marzo del 2003 sarebbe entrato nella Hall Of Fame, consegnato alla storia ordunque, e derubato alla nostra. Non ci arrivò. L’ultimo show lo dedicò ai pompieri di Londra in lotta. Quelli che spengono i fuochi di noia della Londra che brucia. Poi è tornato a casa per il Santo Natale, ha portato i cani a spasso, si è seduto e ha urlato forte: «Siete pronti per lo scontro?» come ai tempi di Career Opportunities, come quando cantava: «Spero di andare in paradiso nel 1977 perché ho preso il sussidio troppo a lungo». Dieci anni fa, un battito di ciglia. Dieci anni fa e ieri un compleanno festeggiato su Facebook, ognuno con la sua brava fotina di Strummy, per fingere che la Fender nera continui a eruttare note e i cannoni di Brixton a svegliare la gente nel cuore della notte.

Pensavamo fossi Peter Pan. E invece te ne sei andato, divino e improbabile. Unico. Ma siamo ancora pronti per lo scontro, Strummy. Dacci i tempi. Vedrai che fiamme.

Daniela Amenta
(L'Unità 22 agosto 2012)

Putiferio Miles Davis


Me lo ricordo bene Miles Davis in quella sala scarlatta di un hotel esclusivo, a Roma. Quella conferenza per pochi intimi - cinque giornalisti in totale - e tempo a sufficienza per farsi raccontare almeno un aneddoto inedito dal Dark Magus. Era il 5 aprile del 1989. Davis tornava nella Capitale per un concerto di lusso alla Geotenda dell’Eur, una struttura futuribile durata meno del viaggio di un neutrino. Show e cena a 250mila lire, una cifra che aveva scatenato polemiche e annunci «di guerra» degli autoriduttori. Tanto che poi lo spettacolo era saltato e gli organizzatori del tour avevano optato per uno show-case per gli addetti ai lavori ma allargato al pubblico. Mezz’ora in totale. A 80mila lire. E invece, nella sala scarlatta, il gloriosus Miles arrivò senza denaro in cambio, e forse anche per questo più ombroso del solito. 

Era un uomo minuto Miles Davis, elegantissimo, con una maglia di Missoni e degli stivaletti in pitone, grandi occhiali scuri e mani lunge, curate, bellissime. Era un uomo che aveva un’aura elettrica attorno Miles, che si portava a spasso la consapevolezza di aver spostato il baricentro della musica. Arrogante, geniale. Disse due parole sul suo nuovo album. «Si intitolerà Amandla, che in sudafricano vuol dire “libertà”. È il mio appoggio alla causa antirazzista». 

NON È PERTINENTE... Era lì a un passo Miles Davis, con quella sua anima tumultuosa e blu su uno sfondo scarlatto. «Domande? Avete domande da farmi?». Uno dei giornalisti in sala alzò la mano. Era emozionato come tutti noi. Inciampò un po’ con l’inglese, chiese: «Può dirci qualcosa di questo suo nuovo lavoro? Delle sonorità....». Non lo fece neanche finire. Si infuriò. «Non è una domanda pertinente. Il mio suono sono io. Che suono dovrebbe avere un disco di Miles Davis?». Aveva una voce roca ma leggermente stridula, qualche tono sopra il pentagramma. Poi iniziò ad agitare le mani, quelle mani bellissime che disegnavano cerchi nell’aria come a circoscrivere un pensiero, un assolo. Le mani che stringevano la tromba più incandescente del jazz, l’unica che continua ad avere una voce più che un timbro. 

Passarono due interminiabili minuti di silenzio imbarazzato. Miles si alzò. «Non credo ci sia altro da dirci. Penso, invece, sarebbe più utile che voi incontraste i miei musicisti. È gente interessante...».. Se ne andò in un lampo il più fantastico e insopportabile principe d'ebano dell'universo. Girò i tacchi pitonati e ci lasciò attoniti nella «red room». Era black satin, proprio come la sua musica. Musica di scosse e lampi nel cervello. Musica che mette addosso un terrore reverenziale tanto è tanta, tanto è oltre. Gelido Miles. Un iceberg col cuore a corrente alternata. Cuore di fuoco e terremoto. Putiferio Davis. Altero e perfettamente a modo. Il suo. 

A Roma il Magus ritornò due anni dopo, il 23 luglio del 1991, allo stadio Olimpico. C’era una folla imponente, da grandi occasioni, stipata tra gli spalti. Prima di lui suonò Pat Metheny. La gente si spellò le mani. Quando Metheny finì la gig metà del pubblico andò via con il chitarrista. Rimanemmo in pochi. Davis era un puntino sul palco, imbracciò la tromba con parsimonia, ma guidò la band come un direttore d’orchestra consumato, sventagliando note dal retrogusto di un temporale. Fu uno dei suoi ultimi concerti.

Daniela Amenta
(L'Unità 28 settembre 2011)

J.J. Cale, my favourite "Guitar Man"





Poche righe sul suo sito in sintonia con la sobrietà  ruvida del personaggio. «JJ Cale è morto alle 8 di sera del 26 luglio allo Scripps Hospital di La Jolla, California, per un attacco di cuore. Non servono donazioni ma visto che l'artista amava gli animali, potete fare beneficenza a qualsiasi ricovero per bestiole in difficoltà». Punto. Poche righe e un grande che se ne va, JJ il solitario, nato nel 1938 a Oklahoma City, cresciuto a Tulsa, figlio di un'America in bianco e nero. 

Una decina di dischi in quarant'anni di carriera, rarissime apparizioni live. Un'esistenza ai margini dello show business  quella del «trovatore» Cale. Il mondo vorace del rock  tentò di cavalcarne il talento magnetico, sornione, morbido come seta. In realtà fu JJ a domare la bestia  luccicante costretta a versare ogni mese centinaia e centinaia di dollari di royalties sul suo conto, permettendogli dunque di non venire a patti con alcun compromesso e di ritirarsi quando era ancora giovane in un ranch nel deserto meridionale della California. Qui abitava con i suoi cani. 

Quando aveva voglia mister Cale montava in macchina, arrivava in città come un cowboy in libera uscita e incideva un disco. Tutto qui. Eppure il suono è unico. Quel modo di far vibrare la chitarra. Il timbro di JJ. Un mood pigro, una voce  «laconica», quasi monocorde, perfetta per raccontare storie di confine, amori veloci, pezzi ombrosi e frastagliati di States. Una voce per ballate introspettive, vagamente malinconiche. Quello di Cale è uno stile prezioso dentro il quale si muovono pochi generi essenziali: il blues, il country, il rock'n'roll.

 L'apice della carriera è negli anni 70 quando Eric Clapton si invaghisce di After Midnight, un brano che JJ aveva composto un decennio prima. È grazie a quella canzone che Cale riesce a firmare un contratto discografico. Nel 1976, poi, la svolta con Cocaine, 2 minuti e 48 secondi in quell'album bellissimo e seminale che è Troubadour. Clapton produce la sua cover: un successo stellare. Ma non è solo slow hand a godere del genio di JJ. Una lista infinita di artisti ha saccheggiato il suo repertorio: Santana, The Band, Captain Beefheart, Johnny Cash, Randy Crawford, i Deep Purple, Dr. Feelgood, Lynyrd Skynyrd, Tom Petty. 

Pochi dischi ma grandi perle: Call Me The Breeze, Magnolia, Bringing It Back, Cajun Moon. Senza JJ non sarebbero esistiti, probabilmente, neppure i Dire Straits. Se ne va in silenzio il nostro Guitar Man preferito con gli occhi azzurri piantati a guardare l'orizzonte immenso del deserto. Se ne va a passi lievi, con le sue note perfette, con il suo blues da piangere che oggi è anche il nostro.

Ciao Willy De Ville, pirata del rock

Perfino Wikipedia,  sempre attenta a battere la concorrenza sull’ora delle morte e ad aggiornare il presente  in passato remoto, ci ha messo qualche minuto di troppo. Willy DeVille non era così famoso. Però lascia un vuoto simile a una voragine per chi lo ha amato, e pure la consapevolezza che il rock scivola grandioso come il tempo. Grandioso, inesorabile. Willy se ne va. A 59 anni, tumore al pancreas. Sul suo sito una nota a giugno. “Con il cuore spezzato vi annunciamo che i dottori  gli hanno diagnosticato un cancro”. Date del tour annullate.  Ieri sera poche righe. “Con il cuore pesante rendiamo noto che Willy è passato a miglior vita, serenamente”. C’è sempre un cuore che batte, perfino di troppo, nell’opera di questo americano meticcio. Era secco come un chiodo William, detto Willie. I capelli lunghi, i baffetti, le camicie con lo sbuffo e l’orecchino. Un corsaro, un pirata, un Capitan Uncino. Suonava rock ibrido, macchiato da mille contaminazioni nell’epoca consegnata alla purezza degli stili. Lui no. Lui shakerava . Metteva il punk assieme alle influenze latine, i quattro quarti dei vicoli con il lirismo, la poesia affranta con storie di donne e di coltello. Melò imprevedibile. Metà indiano d’America, metà irlandese, metà basco. Alcolico.  Meraviglioso "cane randagio".

Cominciò la storia nella New York algida tra i ‘70 e gli ’80. Si chiamavano Mink Deville. Della formazione nessuno ha più memoria. Ma c’era lui, a volte con la giacchetta da domatore, altre con la canottiera. Lui. E quella chitarra caldissima e dolorante, la voce nasale e un po’ drammatica, la faccia da volpe a reinterpretare “Hey Joe”, come neanche Jimi Hendrix tra  una tribù di ispanici. Ci sono dischi che vale la pena rispolverare e baciare esattamente al centro, per non inumidire il vinile. Dischi tipo “Cabretta” con “Spanish stroll”, sgangherata e imponente.  Dischi come “Return to Magenta”, violento e pistolero, o come “Coup de Grace”, dove il colpo di grazia del punk si sposa al Martedì grasso, alle nenie di New Orleans e ai titoli di canzoni degli Stranglers e dei Plasmatics. Cajun e blues di fango.  “Ho problemi con la band, coi manager e con me stesso”, diceva Willy. Poi, però, staccava la chitarra dal chiodo e tirava fuori dal cilindro operine oblique. Tipo “Le chat Blue”. Quando, anni dopo, venne a Roma a raccontarcelo si accompagnava a una bionda svampita, con un gatto tatuato sul braccio. Lei tutta fusa, minigonna e denti da vampiro. Lui ringhiante e ormonale. Pomiciarono anche sul palco del  Palladium, club  alla Garbatella, incuranti come una coppia da fumetto trash, un po’ Walt Disney, un po’ Corto Maltese, mentre la gente si spellava le mani. 



Pochi album da top ten, forse “Miracle”  (’87) su tutti. Poi capitoli aperti, chiusi, ottimi produttori, ma quell’ansia di farsi male, provocare, ferirsi  fino a vedere il bianco dell’osso che non ingrassa il business. Quindici anni di fuga  tra New Orleans e il Southwest   con la seconda moglie, Lola, “il gatto blu” , morta suicida mentre lui si faceva di eroina. Poi la svolta con Nina, la terza affettuosa compagna. Quindi  qualche disco minore.  Vale la pena ricordarlo con  “Loup garou”, dove interpreta la parte dolente del lupo mannaro. C’è la canzone che chiude l’album, “My own desire”, che è un piccolo, prezioso testamento. La ninna nanna del vampiro, dove i sospiri hanno timbri da crepuscolo, a dispetto delle sbornie salsere. “Demasiado corazon”  batte cassa, ma in lontananza.
Chiude l’epopea “Pistola”, del 2008. Nitroglicerina bagnata. Ci resta tutto il resto, però.  Willy il bucaniere ci resta. Con la chitarra come una spada sulla prua di una nave fantasma. A indicarci l’isola che non c’è mentre la truppa fischia furiosa un rock’n’roll  d’annata. Ci resta una parte di lui. Se ne muore un pezzo di noi. Cuore compreso.

Daniela Amenta
(L'Unità 26 agosto 2009)

lunedì 2 settembre 2013

In memoria di Bill Evans




«Viso pallido, devi scoparti la musica». E gli altri ridevano mentre Miles Davis, il divino, lo prendeva in giro. Bill Evans incassava. Poi si allungava sul pianoforte, prima le mani, poi il petto, poi l’intero corpo lungo e magro, e possedeva la musica fino all’ultima nota. Un amplesso mistico, colossale. E anche i neri, quei gradassi geniali del jazz, restavano attoniti, perfino commossi. Sono trent’anni che Bill Evans ci ha lasciati orfani. Non ci saranno eventi, celebrazioni o riti di massa. L’arte di Evans è una questione privata, una relazione rigorosamente sentimentale, in sordina. Tutta qui la sua grazia, la sua disperazione: essere un gigante e non poterlo, saperlo ammettere. Fino a distruggersi.

Una vita bruciata in fretta quella di William John Evans, detto Bill, morto a 51 anni col fegato spappolato e il sangue impazzito come la maionese. Era il bianco del jazz, il tocco chiaro del jazz, la panna dolce e acida del jazz, il jazz che si fa carezza e abbandono. Non aveva nulla della furia degli altri: non gli eccessi di Parker, le follie di Monk, l’arroganza di Miles, i deliri di Mingus, la luce accecante di Coltrane o Coleman. Eppure quel ragazzo secco e miope del New Jersey, quel viso pallido, fece la sua rivoluzione, trasformando il modale in uno spartito aperto, armonico, imprevedibile. Non più uno stile, un sound. Uno stato dell’anima, semmai. E soprattutto musica. Un’imponente cattedrale di musica meravigliosa: dagli impressionisti francesi a Gershwin, da Stravinsky a Mozart. Passando per Nat King Cole, Cole Porter, il jazz. «Perché io voglio che la gente possa cantare quando mi ascolta».

Cantiamo, allora. Come cantava Mary Soroka, figlia di immigrati russi, la madre amatissima. Siamo a Plainsfield, anni Trenta, a un tiro di schioppo da New York. Il padre è un gallese, professione tipografo col vizio dell’alcol e Mary si prende cura dei figli. È lei a impartire le prime lezioni di piano ad Harry, il primogenito. Bill è troppo piccolo ma ascolta rannicchiato in un angolo le marcette che strimpella il fratello, il suo idolo. A 12 anni ha imparato a orecchio qualunque melodia e lo sostituisce nell’orchestrina locale. E precipita nella musica. Studia Bach, Webern, Schönberg. Ha una naturalezza nel suonare, Bill, che lascia incantati. Come se il pianoforte fosse una parte di sé, il prolungamento di un cuore malinconico e in tumulto. «Poteva produrre più colori tonali Bill Evans in 32 battute che Glenn Gould in tutta la sua carriera», scrisse il critico Robert Offergeld. Aveva ragione.

Il jazz arriva per forza. Frequentando i locali della 52esima strada a New York. Sono gli anni del Bebop, gli anni di Gillespie, Monk, Parker. Bill li ascolta seduto in fondo alla sala, rannicchiato come quando imparava a memoria le note eseguite dal fratello Harry. Gli basta uno sguardo per apprendere. Ha una tecnica mirabile, dita lunghe, bellissime. Ha la poesia nel tocco, quella capacità di suonare voci “strette”, armonicamente perfette, che cantano, incantano. Gli manca la maledizione del jazz. La trova durante il servizio militare. Comincia a farsi. Diventa un altro Bill, costretto a suonare per cibare la scimmia. Un tossico d’arte. La faccia triste ma sempre curatissimo, elegante, la cravatta perfettamente annodata perfino quando navigava tra i bassifondi dei pusher, quando pregava e si umiliava per una dose, quando gli strozzini minacciavano di spezzargli le mani se non avesse pagato. «La roba – disse – è morte e trasfigurazione. Ogni giorno ti svegli tra i dolori, muori di dolore. E poi esci e ti fai, ed ecco la trasfigurazione. Ogni giorno diventa un intero microcosmo di vita». Condivide il calvario con Ellaine, la prima moglie, strafatta e timida come lui. Ma ha un talento, un’intima poesia, una tecnica così cristallina e potente da riuscire a imbrigliare droghe e draghi quando suona.

Nel 1956 incide il primo album a suo nome. Si intitola “New Jazz Conceptions”, con lui Paul Motian alla batteria e Teddy Kotick al contrabbasso. Sono i giorni dell’ascesa. La critica lo adocchia, il mondo del jazz lo adotta. Collabora con Mingus, frequenta musicisti del calibro di Philly Joe Jones e Miles Davis. Conosce Scott LaFaro, il suo contraltare, il suo contrabbassista. Tanto riservato l’uno, quanto scatenato l’altro. E sorridente, impetuoso, pieno di vita. Il 2 marzo del ’59 Miles entra in sala di registrazione. Con il trombettista nero ci sono Julian Cannonball Adderly al sax contralto, John Coltrane al sax tenore, Paul Chamber al contrabbasso, Jimmy Cobb alla batteria e Bill Evans. Il progetto si intitola “Kind of Blue”. Per quanto Davis si prenda ogni merito (e ogni centesimo) per uno dei dischi jazz più amati, celebrati, citati, il tocco di Evans è così presente da marchiare il suono. Un pezzo come “Blue in Green” parla con la voce sognante, rarefatta e ultraterrena di Bill. Non servono i credit, basta l’orecchio.
Otto mesi dopo, più consapevole dei propri mezzi, il pianista organizza il proprio trio con Scott LaFaro e Paul Motian. La concezione classica di un tema sviluppato attraverso gli assolo dei musicisti, viene abbandonata a favore dell’interplay, un colloquio tra gli strumenti a base di poliritmie, suggestioni, scarti armonici improvvisi. Enrico Pieranunzi che ad Evans ha dedicato un libro bello e amorevole – “Ritratto d’artista con pianoforte” – scrive di un rapporto telepatico tra Bill e Scott. Una magia quel trio, un’alchimia perfetta che dura tre anni, cadenzati da opere come “Portrait in jazz, Waltz for Debby “e le insuperabili session “Live at Village Vanguard”. Il 5 luglio del ’61, Scott muore in un incidente automobilistico. Per Evans un colpo durissimo, devastante. Riprenderà a suonare dopo mesi e il primo pezzo che il pianoforte gli suggerirà, sarà dedicato a LaFaro: “Danny Boy”. La morte diventa così la compagna di Bill. Lutti drammatici, ombre nerissime sul cuore. Nel ’71 si suicida Ellaine, la prima moglie. Nel ’79 si toglie la vita il fratello Harry. Evans è già un colosso del jazz, piegato dalle droghe, dalla vita. L’inferno in terra e il paradiso in testa. Eppure quando si siede davanti ai tasti è infinita meraviglia, cosi tanta musica, tanta leggiadria concentrata in un milione di note distillate con un furore dolce. Non suona soltanto, Bill. Vola, disegna paesaggi. Come Debussy, come Chopin. Sottrae dalle partiture, lascia che anche il silenzio diventi ritmo. Perfino dopo essersi sparato cocaina nella vene. Allora il passo diventava più secco, più spostato verso gli acuti, ma senza perdere nulla della grazia sontuosa.

Una carriera stellare. Se solo ne avesse approfittato. Tour in tutto il mondo. E collaborazioni da capogiro: da Jim Hall a Chet Baker, da Lee Konitz a Teo Macero, da Stan Getz a Michel Legrand. Come titolare Evans ha firmato 101 album. Alcuni sono capolavori insuperati anche grazie a Helen Keane, la manager che lo prese per mano fino a trasformarlo in una star. Con lei presero corpo “How my heart sings!” (prodotto dal fedele Orrin Keepnews), e” Conversation with Myself” che gli valse il Grammy. Proprio il giorno in cui gli comunicarono la vittoria Bill si ruppe un incisivo. Agli amici disse: «E’ la prima volta, dopo anni, che ho una ragione per sorridere. E sono sdentato». Metafora perfetta di una vita imperfetta. Scrive, suona, suona fin troppo, s’indebita per comprare la roba. Però gira con un quadernetto dove annota chi gli presta i soldi. E restituisce fino all’ultimo cent quando la casa discografica gli concede l’ennesimo anticipo. Attraversa gli anni Settanta tra altissimi e bassissimi: una nuova compagna, Nenette, che gli darà un figlio – Evan Evans – e qualche perla stupefacente come “You” “Must Believe in Spring”, il suo testamento. E poi “Intuition”, l’intimo “Alone Again” e i “Live at Tokyo”. Nel 1979 è a Parigi per l’ultimo concerto. C’è una foto che lo ritrae: ha il volto scavato, i capelli lunghi, si è fatto crescere la barba. E le mani sono gonfie. Morirà il 15 settembre del 1980 a San Francisco, per una emorragia interna. E’ sepolto a Baton Rouge, Louisiana. Una tomba rigorosa e semplice, accanto a quella del fratello. Trent’anni dopo non ci saranno cerimonie. Resta, ci resta la bellezza di una musica che attraversa il tempo a passo di valzer e sembra scritta ora, adesso. Una musica incisa nelle pieghe dell’anima. La musica di Bill Evans, l’uomo che ha fatto cantare anche il silenzio.

Daniela Amenta
(L'Unità 15 settembre 2010)