Appena
si seppe, appena arrivò la notizia furono prima lacrime, poi
disperazione, poi veglie, infine l’incapacità di gestire la
realtà. L’8
aprile del 1994 la “Generazione X” si trovò a fare i conti con
un lutto che, ancora, in molti, non hanno alcuna intenzione di
metabolizzare. In parte dipende dalla stessa mitologia del rock, in
parte è roba da lettino freudiano. Si chiama negazione,
gettonatissimo meccanismo di autodifesa in caso di tragedia
collettiva. I ragazzi e le ragazze degli anni Novanta all’improvviso
provarono la desolazione dell’assenza, sentimento ben più compatto
e aguzzo dello spleen di chi non ha un posto dove andare, un posto
nella vita.
Alle
8.40 di tre giorni prima, secondo l’autopsia e le notazioni del
Coroner, Kurt Cobain aveva premuto contro di sé il grilletto di
un Remington-11, fucile semi automatico usato anche durante le guerre
in Vietnam e Corea. Un colpo che non era, non è, la sconfitta
di un solo uomo ma di milioni di fan in gramaglie, dei teenager di
ieri. Perfino l’estetica del gesto è devastante da capire,
figuriamoci da introiettare: quel volto bellissimo, angelico e
disperante, massacrato da un proiettile. La negazione del sé, della
stessa immagine dei Nirvana, la frantumazione dell’io, lo sfregio.
Ecco, anche la violenza del rito autodistruttivo, l'esegesi tragica
del male oscuro, non hanno aiutato gli orfani di Cobain che negli
anni hanno dato vita a una mostruosa e gigantesca messa in scena pur
di dirsi che lui no, il loro Kurt, l’icona del grunge, non
l’avrebbe mai fatto, mai. Delitto, è stato un delitto. Cominciò
ad avanzare ipotesi in puro stile complottista Richard Lee,
giornalista in vena di scoop. E nel tempo le congetture più
bizzarre, audaci e imprevedibili hanno “riempito” l’assenza, il vuoto,
rimbalzando come biglie tra libri, film, programmi televisivi, forum
di discussioni.
Così
il 20 febbraio, in occasione dei 50 anni mai compiuti da Cobain,
arriva in Italia (con un discreto tempismo macabro) Chi ha ucciso
Kurt Cobain?, documentario che ripercorre
gli ultimi giorni del leader dei Nirvana, fino alla fine: il corpo
riverso nel garage del villone a Seattle e accanto il pacchetto di
American Spirit
nere, nere le Converse, neri gli occhiali, nera la biro infilata
nella terra di un vaso a tenere ferma, immobile la lettera d’addio.
E poi il kit da tossico, i 120 dollari sparpagliati, le cicche, il
quadretto amaro di tutta la desolazione cantata da Cobain nella sua
breve parabola su questa terra. Protagonista principale del doc non è
il caro estinto ma Tom Grant, investigatore privato che fu assoldato
da Courtney Love per rintracciare il marito in fuga dal rehab di
lusso a Los Angeles.
Anche
Grant sostiene, ovvio, che qualcuno volesse morto Kurt. E gli indizi,
guarda un po’, portano tutti alla bella e inquieta vedova.
Che, di par suo, ha ingaggiato squadre di avvocati, raccontato la sua
versione della storia attraverso testi, pubbliche confessioni e
pellicole autorizzate (una è Montage Of Heck di Brett Morgen,
del 2015). Festa
mesta, dunque, per Cobain. Così celebrato, citato, eppure - pare -
mai ascoltato sul serio. Prego, rileggersi i testi, provare a capire
il senso di un suono oltre alla nostalgia per le camicie a quadri che
indossammo. Il
senso di morte è così presente, totalizzante, da fare male. Già da
Bleach , l’album che apre ufficialmente le danze della
carriera dei Nirvana. La prima canzone si intitola Blew, e fa
così: Se non vi dispiace vorrei tirare il fiato/ Se non vi
dispiace vorrei lasciarmi andare/ Se non vi dispiace vorrei lasciare/
Se non vi dispiace vorrei
respirare.
E
così è pure nel pluridecorato Nevermind che, tra l’altro
contiene, Endless, nameless. (Silenzio/Sono qui/ Sono qui/
Silenzioso/ Splendente
e pulito/ È ciò che sono. Sono morto/ Morte/ Con violenza).
Fino alla tragedia di In Utero, opera che nella sostanza è
un testamento. Chi scrive recensì all’epoca quel disco per il
Mucchio Selvaggio, tra le più blasonate riviste rock. Cercò
di spiegare perché i Nirvana fossero così respingenti, feroci, a
tratti insostenibili. I fan non apprezzarono. Però sarà il caso di
far tirare il fiato anche al fantasma di Kurt, farci pace.
Dire,
dirci che non esiste metafora nella poetica di Cobain, non c'è pelle
a dividere i piani, nessuno spessore tra il sé e l'artificio
artistico. Cobain era quello che cantava, che urlava, che piangeva e
distruggeva, piangendo e distruggendo se stesso. Tutto così chiaro e
manifesto, nessuna finzione, una lacerazione nelle carni e nel cuore,
un’autenticità che toglie il fiato, la passione di
un Cristo che sa che non esiste redenzione, né riscatto. Non era
neppure più musica, a un certo punto, ma la deflagrazione totale,
consapevole, di un uomo baciato dal genio e che del genio non seppe
che farsene, se non considerarlo un’altra trappola in cui suo
malgrado era caduto.
Nella
lettera d’addio dedicata a Boddah, l’alter ego del Cobain
bambino, è tutto detto. E nonostante la disperazione, quel ragazzo
di 27 anni al cospetto con la propria fine è così lucido da
scrivere: «Io non provo più emozioni nell’ascoltare musica e
nemmeno nel crearla e nel leggere e nello scrivere da troppi anni
ormai». Forse avrebbe dovuto aggiungere, come Pavese, «non fate
troppi pettegolezzi». Della perdita di relazioni con l'io
interiore, la disidratazione di sentimenti, la cesura con ogni
ancoraggio possibile aveva detto anche Ian Curtis dei Joy Division.
Sembra di leggere lo stesso terribile copione già scritto,
archiviato, in Disorder,
un pezzo del 1979: I've
got the spirit, but lose the feeling, Feeling, feeling, feeling,
feeling, feeling, feeling, feeling.
Niente emozioni, e
per favore niente pettegolezzi, che il defunto li odiava. Ma per una
rockstar è impossibile sottrarsi al chiacchiericcio compulsivo, alle
fandonie, alle congiure, alle fantasie. A una rockstar non è
concesso riposare in pace e, meno che mai, scegliere il suicidio per
uscire di scena. Il suicidio non si perdona a un comune mortale,
figuriamoci a un divo. L’overdose è contemplata nel rock,
l’incidente selvaggio è previsto, perfino l’omicidio ma non il
più estremo dei gesti, quell’«atto di ambizione che si può
commettere solo quando si è superata ogni ambizione». E poi
diamine, aveva tutto Cobain: bello, ricco, famoso, talentuosissimo,
con «una moglie divina che trasuda empatia» e una figlia che gli
ricordava troppo «di quando ero come lei, pieno di amore e gioia».
C’è
che in fondo, nel fondo di questa smania a cercare colpevoli, nelle
foto pubblicate dal luogo della morte, nella morbosa pratica
autoptica a caccia di indizi, si restituisce a Cobain solo la
parvenza. Quasi che anche la sua fine facesse parte dello spettacolo.
Solo spettacolo, solo show pure la solitudine e il dolore. Domani, 20
febbraio, per i 50 anni che Kurt Cobain non ha mai festeggiato,
dovremmo invece tenere soltanto l’amarezza vicina al cuore. Keeps
the bitterness close to the heart. E lasciarlo andare,
finalmente.
La
traduzione dei testi dei Nirvana è opera degli autori di
Nirvanaitalia.it, a cui vanno i miei ringraziamenti.
Daniela Amenta
(L'Unità, 19 febbraio 2017)