Ora che lo scorso Natale – Last
Christmas – è stato consumato e che questo 2016 mefitico si
sta finalmente chiudendo,
ognuno potrà fare i conti con i propri ricordi e la playlist privata
di canzonette e tormentoni. Ora che George Michael si “è spento
serenamente” a 53 anni, per cause “ancora ignote ma non
imprevedibili” – come recita il comunicato del suo agente – si
potrà tentare di restituire dignità a una icona del pop mai entrata
nella reale lista delle “british icons” (battuto perfino
da Robbie Williams dei Take That, che smacco).
Cento milioni di copie vendute quando i
dischi erano oggetti reali e non streaming liquidi, sette album
ufficiali in studio (tre con gli Wham! e quattro da solo), e poi
live, cover, duetti epici, soprattutto una smitragliata di singoli
perfetti e video altrettanto laccati in una carriera durata
effettivamente un ventennio. Questo in due righe era George Michael,
ovvero Georgios Kyriacos Panayiotou, nato a Londra nel 1953 da padre
greco-cipriota e madre inglese, capostipite delle boy band, il
ragazzo con il giubbottino nero e il ciuffo impomatato che amava
Lennon, Elvis, Stevie Wonder, il soul e il r&b, e che ha
impiegato una vita a distruggere ciò che era stato per costruire un
altro se stesso. Una vita spesa a farsi accettare senza pregiudizi,
per citare quell'album del 1990 – Listen without Prejudice vol.
1 - , cambiare passo, bruciare il “chiodo” di pelle e il
jukebox (come nel videoo di Freedom '90), cancellare la sua
stessa immagine, imporsi solo come musicista piuttosto che come
belloccio platinato.
George Michael non ha perso la
battaglia: alla fine è riuscito a dire quello che voleva, a far
tremare il pubblico con una voce notevolissima e un gusto per la
melodia pop mescolata a elementi neri, a cantare con i più grandi
del mondo e oggi, a farsi rimpiangere. Quel che ci resta, a parte gli
album e le private memorie di ciascuno, è un uomo molto più
complesso di quello che sembrava, alle prese con i propri demoni,
incalzato dalla peggiore stampa britannica a caccia del mostro da
sbattere in prima pagina, sfiancato dalle case discografiche e dai
fan che lo avrebbe voluto cristallizzare nello stereotipo del
giovanotto gaudente di Club Tropicana, modello di una rivista
fashion a galleggiare in piscina. Si è ribellato spesso George
Michael: alle regole, ai luoghi comuni, all'eterosessualità imposta
dal Circo Barnum del pop. E ha pagato ogni curva presa ad alta
velocità: il possesso e l'uso di droghe, l'andirivieni dai rehab e
dalle aule dei tribunali, la guida in stato di ebbrezza, gli atti
osceni in luogo pubblico fino a essere sbattuto in carcere. E poi
ancora denunce, la causa con la Sony per essere finalmente padrone
della sua musica, le lezioni degli altri colleghi gay – da Elton
John a Boy George fino a Morrissey – che avrebbero voluto più
esplicito e meno tormentato il suo outing, reso pubblico solo nel
1998 con Outside, singolo che gli costò altri guai con la
polizia.
In realtà Michael fu meno effimero
degli anni Ottanta che lo videro protagonista con Andrew Ridgeley
del successo degli Wham!. All'epoca era appena maggiorenne, già
surfista d'alta classifica in un microcosmo dorato e di plastica, a
base di modelle scosciatissime, bicipiti in bella vista, capelli
gonfi e ciuffi laccati. L'epoca dei Duran Duran e degli Spandau con
Margaret Thatcher rieletta dopo la guerra delle Falklands e la Gran
Bretagna costretta a fare i conti con una crisi economica da lacrime
e sangue. Il new pop sembrava impermeabile a quei giorni durissimi,
allo sciopero dei minatori, alla perdita del lavoro per migliaia di
sudditi della Regina. C'erano i video di MTV a raccontare un mondo
parallelo e inesistente come il set del Truman Show: barche,
auto, cocktail e bella vita. Un immaginario lezioso contenuto in tre
album e svariati singoli: da Bad Boys a Wake Me Up Before
You Go-Go fino alla ballatona Careless Whisper. E poi
addio Wham!, nell'87 George Michael inizia la propria carriera da
solista con Faith, prende due Grammy, canta con Aretha
Franklin, diventa la voce sfacciata della lussuria (I Want Your
Sex), gioca con le ambiguità sessuali e pare impersonare la
carne e l'estetica del pop. Ci metterà tre anni a crescere, a
realizzare Listen Without Prejudice Vol. 1 dove decide di non
apparire, con la pretesa di essere più musicista che star. Quindi in
Freedom '90 brucia il famigerato giubbottino fa esplodere il
juke-box e comunica al mondo di essere finalmente adulto. Il disco
successivo arriverà sei anni dopo – Older – e l'ultimo
ufficiale, il più lacerato e complesso nel 2004. Si intitola
Patience, title-track composta con il pianoforte di Lennon
(comprato e poi donato al Museo permanente in onore dell'ex Beatle) e
una serie di riflessioni sulla morte: da Please Me Send Me
Someone, dedicata come la bella Jesus To A Child alla
memoria del compagno Anselmo Feleppa ucciso dall'Aids a My Mother
Had A Brother per lo zio deceduto il giorno in cui George era
nato. Come scrive Simon Hattenstone sul Guardian il concetto
di finitezza lo ossessionava: aveva perso in sequenza l'uomo che
amava, la madre, il produttore Phil Ramone e persino un cucciolo di
Labrador, viveva da recluso in una casa a Highgate, nord di Londra,
assediato dai fan e dai tabloid. “Gran voce (quando non aveva
fumato troppo), grande cantautore (prima del blocco creativo), grande
personalità (quando non era troppo fatto)”. Sopravvissuto per
miracolo a un incidente, a una polmonite, agli stravizi, eppure “bad
boy” fino alla fine con la ricerca di sesso occasionale nel parco
di Hampstead Heath e l'abuso di sostanze, una scimmia sulla schiena
che non riusciva a scrollarsi da dosso nonostante l'aiuto degli
amici, Elton John in primis.
Ma che voce, appunto. Basta riascoltare la sua versione di Somebody To Love dei Queen nel tributo a Freddy Mercury o la plasticità con cui riusciva a duettare sia con Luciano Pavarotti che con Whitney Houston o Paul McCartney.
Ma che voce, appunto. Basta riascoltare la sua versione di Somebody To Love dei Queen nel tributo a Freddy Mercury o la plasticità con cui riusciva a duettare sia con Luciano Pavarotti che con Whitney Houston o Paul McCartney.
Nel 2011 parte il Symphonica Tour con
tanto di orchestra al seguito e arriva immancabile anche un album di
cover. Sembrava che George si stesse rimettendo in carreggiata,
pronto per un nuovo disco con pezzi originali che, invece, non è mai
arrivato. Sembrava che il ragazzo che aveva stigmatizzato la politica
inglese e l'alleanza con gli Usa per l'uso dei missili Cruise avesse
trovato il suo punto di equilibrio. Sembrava che il musicista che
aveva donato i diritti d'autore di Last Christmas a Band Aid
per combattere la fame in Africa, quello che aveva cantato per
Mandela e sostenuto la ricerca per combattere il virus dell'Hiv,
avesse ripuntato la bussola. Più forte, più solido, capace di fare
i conti con un passato ingombrante e un futuro tutto da scrivere.
E invece per George Michael questo è
stato il Natale definitivo, una festa feroce lontano dalla neve di
quel video che ha fatto innamorare generazioni di ex adolescenti che
sognavano commedie rose e vite perfette. E che ora lo piangono come
si piange la gioventù perduta.
Daniela Amenta
(l'Unità 27 dicembre 2016)