mercoledì 28 dicembre 2016

Il bello degli anni Ottanta

Ora che lo scorso Natale – Last Christmas – è stato consumato e che questo 2016 mefitico si sta finalmente chiudendo, ognuno potrà fare i conti con i propri ricordi e la playlist privata di canzonette e tormentoni. Ora che George Michael si “è spento serenamente” a 53 anni, per cause “ancora ignote ma non imprevedibili” – come recita il comunicato del suo agente – si potrà tentare di restituire dignità a una icona del pop mai entrata nella reale lista delle “british icons” (battuto perfino da Robbie Williams dei Take That, che smacco).
Cento milioni di copie vendute quando i dischi erano oggetti reali e non streaming liquidi, sette album ufficiali in studio (tre con gli Wham! e quattro da solo), e poi live, cover, duetti epici, soprattutto una smitragliata di singoli perfetti e video altrettanto laccati in una carriera durata effettivamente un ventennio. Questo in due righe era George Michael, ovvero Georgios Kyriacos Panayiotou, nato a Londra nel 1953 da padre greco-cipriota e madre inglese, capostipite delle boy band, il ragazzo con il giubbottino nero e il ciuffo impomatato che amava Lennon, Elvis, Stevie Wonder, il soul e il r&b, e che ha impiegato una vita a distruggere ciò che era stato per costruire un altro se stesso. Una vita spesa a farsi accettare senza pregiudizi, per citare quell'album del 1990 – Listen without Prejudice vol. 1 - , cambiare passo, bruciare il “chiodo” di pelle e il jukebox (come nel videoo di Freedom '90), cancellare la sua stessa immagine, imporsi solo come musicista piuttosto che come belloccio platinato.

George Michael non ha perso la battaglia: alla fine è riuscito a dire quello che voleva, a far tremare il pubblico con una voce notevolissima e un gusto per la melodia pop mescolata a elementi neri, a cantare con i più grandi del mondo e oggi, a farsi rimpiangere. Quel che ci resta, a parte gli album e le private memorie di ciascuno, è un uomo molto più complesso di quello che sembrava, alle prese con i propri demoni, incalzato dalla peggiore stampa britannica a caccia del mostro da sbattere in prima pagina, sfiancato dalle case discografiche e dai fan che lo avrebbe voluto cristallizzare nello stereotipo del giovanotto gaudente di Club Tropicana, modello di una rivista fashion a galleggiare in piscina. Si è ribellato spesso George Michael: alle regole, ai luoghi comuni, all'eterosessualità imposta dal Circo Barnum del pop. E ha pagato ogni curva presa ad alta velocità: il possesso e l'uso di droghe, l'andirivieni dai rehab e dalle aule dei tribunali, la guida in stato di ebbrezza, gli atti osceni in luogo pubblico fino a essere sbattuto in carcere. E poi ancora denunce, la causa con la Sony per essere finalmente padrone della sua musica, le lezioni degli altri colleghi gay – da Elton John a Boy George fino a Morrissey – che avrebbero voluto più esplicito e meno tormentato il suo outing, reso pubblico solo nel 1998 con Outside, singolo che gli costò altri guai con la polizia.

In realtà Michael fu meno effimero degli anni Ottanta che lo videro protagonista con Andrew Ridgeley del successo degli Wham!. All'epoca era appena maggiorenne, già surfista d'alta classifica in un microcosmo dorato e di plastica, a base di modelle scosciatissime, bicipiti in bella vista, capelli gonfi e ciuffi laccati. L'epoca dei Duran Duran e degli Spandau con Margaret Thatcher rieletta dopo la guerra delle Falklands e la Gran Bretagna costretta a fare i conti con una crisi economica da lacrime e sangue. Il new pop sembrava impermeabile a quei giorni durissimi, allo sciopero dei minatori, alla perdita del lavoro per migliaia di sudditi della Regina. C'erano i video di MTV a raccontare un mondo parallelo e inesistente come il set del Truman Show: barche, auto, cocktail e bella vita. Un immaginario lezioso contenuto in tre album e svariati singoli: da Bad Boys a Wake Me Up Before You Go-Go fino alla ballatona Careless Whisper. E poi addio Wham!, nell'87 George Michael inizia la propria carriera da solista con Faith, prende due Grammy, canta con Aretha Franklin, diventa la voce sfacciata della lussuria (I Want Your Sex), gioca con le ambiguità sessuali e pare impersonare la carne e l'estetica del pop. Ci metterà tre anni a crescere, a realizzare Listen Without Prejudice Vol. 1 dove decide di non apparire, con la pretesa di essere più musicista che star. Quindi in Freedom '90 brucia il famigerato giubbottino fa esplodere il juke-box e comunica al mondo di essere finalmente adulto. Il disco successivo arriverà sei anni dopo – Older – e l'ultimo ufficiale, il più lacerato e complesso nel 2004. Si intitola Patience, title-track composta con il pianoforte di Lennon (comprato e poi donato al Museo permanente in onore dell'ex Beatle) e una serie di riflessioni sulla morte: da Please Me Send Me Someone, dedicata come la bella Jesus To A Child alla memoria del compagno Anselmo Feleppa ucciso dall'Aids a My Mother Had A Brother per lo zio deceduto il giorno in cui George era nato. Come scrive Simon Hattenstone sul Guardian il concetto di finitezza lo ossessionava: aveva perso in sequenza l'uomo che amava, la madre, il produttore Phil Ramone e persino un cucciolo di Labrador, viveva da recluso in una casa a Highgate, nord di Londra, assediato dai fan e dai tabloid. “Gran voce (quando non aveva fumato troppo), grande cantautore (prima del blocco creativo), grande personalità (quando non era troppo fatto)”. Sopravvissuto per miracolo a un incidente, a una polmonite, agli stravizi, eppure “bad boy” fino alla fine con la ricerca di sesso occasionale nel parco di Hampstead Heath e l'abuso di sostanze, una scimmia sulla schiena che non riusciva a scrollarsi da dosso nonostante l'aiuto degli amici, Elton John in primis.
Ma che voce, appunto. Basta riascoltare la sua versione di Somebody To Love dei Queen nel tributo a Freddy Mercury o la plasticità con cui riusciva a duettare sia con Luciano Pavarotti che con Whitney Houston o Paul McCartney.

Nel 2011 parte il Symphonica Tour con tanto di orchestra al seguito e arriva immancabile anche un album di cover. Sembrava che George si stesse rimettendo in carreggiata, pronto per un nuovo disco con pezzi originali che, invece, non è mai arrivato. Sembrava che il ragazzo che aveva stigmatizzato la politica inglese e l'alleanza con gli Usa per l'uso dei missili Cruise avesse trovato il suo punto di equilibrio. Sembrava che il musicista che aveva donato i diritti d'autore di Last Christmas a Band Aid per combattere la fame in Africa, quello che aveva cantato per Mandela e sostenuto la ricerca per combattere il virus dell'Hiv, avesse ripuntato la bussola. Più forte, più solido, capace di fare i conti con un passato ingombrante e un futuro tutto da scrivere.
E invece per George Michael questo è stato il Natale definitivo, una festa feroce lontano dalla neve di quel video che ha fatto innamorare generazioni di ex adolescenti che sognavano commedie rose e vite perfette. E che ora lo piangono come si piange la gioventù perduta.

Daniela Amenta

(l'Unità 27 dicembre 2016)