giovedì 24 luglio 2014

Il rock è morto (bisogna inventarsi qualcos'altro). In memoria di Freak Antoni

Il 12 febbraio 2014 è morto Freak Antoni, cantante e paroliere degli Skiantos, "maestro" del "rock demenziale", bolognese. Ucciso da una grave malattia, aveva 59 anni





Permettete che per salutare Freak Antoni io parta da un ricordo personale. Un concerto organizzato a Roma nel lontano 1986, una rassegna di “Rock demenziale” all'Uonna Club con gli Skiantos, Lino e i Mistoterital, Sandro Oliva, i Sentinels. All'epoca non c'erano cellulari, non esisteva Internet. Si comunicava con il vecchio telefono. Roberto Antoni, detto Freak, aveva il mio numero di casa e spesso a quel numero rispondeva mia madre. Non so come, ma tra lui e mamma si instaurò una specie di rapporto a distanza, anche dopo lo show. Freak telefonava con il suo accento bolognese e chiedeva: “Ma oggi che cucina signora?”. E stavano lì a parlare tranquilli di pelati e spezzatino. 

Freak Antoni era un demonio sul palco, un provocatore, forse il più grande punk d'Italia. Eppure nella realtà era un uomo timidissimo e gentile che domava i suoi demoni correndo sul filo teso del paradosso. Una vita tra draghi e droghe, vita irriducibile e scatenata. Ci lascia a 59 anni, nato sotto il segno dell'ariete il 16 aprile nel 1954. Ci lascia il grande sognatore, il contraltare in musica di Andrea Pazienza, la voce graffiante e i versi al cianuro. 

Inventò il rock demenziale, ovvero l'unico stile autoctono, originale mai partorito in questo Paese. Inventò una grammatica sonora, cantando rime baciate e apparentemente assurde in italiano, lanciando invettive fulminanti, raccontando il mondo velocissimo e confuso dei ragazzi del '77. Ai concerti insultava i fan, la folla. Resta scolpito quel pezzo, manifesto d'intenti, “Fate largo all'avanguardia” che nella strofa successiva recita: “Siete un pubblico di merda, applaudite per inerzia. L’avanguardia alternativa non fa sconti comitiva, l’avanguardia è molto dura e per questo fa paura”. 

A Bologna, nel 1979, per il primo immenso summit del movimento, gli Skiantos portarono sul palco del Palasport un frigo e invece di suonare iniziarono a cucinare gli spaghetti. Accadde di tutto, volò di tutto. “L'apice o il fondo della provocazione. Una questione di punti di vista”, ebbe a dire Freak anni dopo. Era un ragazzo del Dams, Roberto. Che con Dandy Bestia e il resto della mutevolissima banda prendeva in giro sia gli autonomi che i karabigneri, le frasi fatte, la “para dura”, le sbarbine, il kinotto (“la bibita del teppista morbido”), l'eptadone. 

Gli Skiantos cominciarono con una cassetta, furono notati prima da Oderso Rubini e poi dalla Cramps, incisero dischi incredibili, dischi totem fino almeno al 1987, l'anno di “Non c'è gusto in Italia a essere intelligenti” che è anche il titolo di uno dei nove libri scritti da Freak. Un altro da segnalare è proprio “Stagioni del rock demenziale”, piccola bibbia surreale e dadaista per dire che poiché “il rock è morto bisogna inventarsi qualcos'altro”. Folle, esilarante, indispensabile. 

Il gruppo ebbe alterne fortune. Sciolti cento volte, poi daccapo assieme. Nel tempo anche il graffio, la “stravoltura continua” persero mordente. Freak si inventò mille esistenze parallele, in una fu Beppe Starnazza con i Vortici (con lui Tommaso Vittorini, Pasquale Minieri, Lele Marchitelli), band specializzata in swing-punk e nella rilettura scalmanata dei classici di Natalino Otto e Fred Buscaglione. 

Oggi ci lascia un piccolo genio. Quello che spiegava che la vita è una e tanto vale “pestare duro/suonare energico, stimolante/fare testi semplici con rime baciate/ritmi immediati che dicono tutto e non devi decifrare-capire-interpretare con atteggiamento critico. Bisogna chiarire subito quello che si vuole: io voglio godere e non soffrire”. Ci lascia Freak, che ha mandato al diavolo l'insopportabile mondo del buon senso, convinto che una risata avrebbe distrutto tutti i kattivi, tutti, nessuno escluso. 

Daniela Amenta (l'Unità, 13 febbraio 2014)

sabato 15 marzo 2014

L'uomo col pugno chiuso



Questa intervista è frutto di invenzione. Tuttavia le informazioni che contiene sono state assunte da articoli pubblicati e vere interviste, libri e citazioni provate.

Questa intervista inventata parte da un assunto. 
"Il suo corpo è architettura in movimento" (Neil Allen)



Come posso chiamarla? Tommie? mister Smith? The Jet?
Mi chiami coach. Coach Smith va benissimo.

Coach di cosa? 
Insegno ai bianchi a dimagrire. Qui, al Santa Monica college. Una palestraccia. op, op, salta, tira su quel culo, forza, issa. Ecco li alleno a smaltire chili di hamburger. Lo sa che una dieta di junk food in dieci giorni può spappolarle il fegato? Per non dire del colesterolo.

Corre ancora, coach?
Tutte le mattine per prendere l'autobus, non possiedo automobili. I miei allievi si stupiscono. Dicono: ma se era così famoso, coach, perché non è riuscito ad acquistare almeno un Mercedes usato? Così corro, non riuscirei più a a tagliare i 200 in 19 secondi e 83. Ma mi arrangio (ride)

Appunto, come mai? Come mai costretto a vender il poster di Messico 68 autografato per 90 dollari? Non le sembra di mercificare sé stesso, il suo gesto?
Non mercifico nulla. Mi riapproprio di un pezzo della mia storia e fotto il business. Ho tre figli da mantenere. La vita in Texas è faticosa,  questo è un Paese ricco. Costa tutto il doppio.

Se non sbaglio ha un master in sociologia. Ha mai pensato di  insegnare?
Io sì. Però dovrebbe rivolgere la domanda alle università americane.

Vuol dire che lo Stato dell'Unione non lo hai mai perdonato?
L'unico regalo che ho ricevuto, in questi anni,  è stato evitare il servizio in Vietnam. I miei compagni non ritornarono da quella sporca guerra. Tutta la mia pattuglia fu sterminata. Mi salvai per indegnità. Forse oggi qualcuno ne riderebbe, allora fu come essere una bestia marchiata col fuoco.

Anche la sua famiglia ricevette minacce ed insulti. 
Mia madre Dora per mesi fu additata come una spia. Morì di crepacuore. Mio padre capì. Aveva un'altra consapevolezza. Sapeva che di notte studiavo, leggevo la Bibbia e di giorno lavoravo e correvo. Non ero una testa matta, sapeva che avevo ragione. Furono scritte molte stronzate dopo quel giorno. Si disse che in realtà ero un fornicatore e un improbo, che avevo fatto quello che avevo fatto per rimorchiare le donne. Solita retorica sui negri che fottono. In realtà  la ragazza cacciata dal villaggio olimpico con me era mia moglie Denise. Era incinta. Mi aveva raggiunto per portarmi il guanto delle Panthers. Dissero che ci avevano pagato i comunisti dell' Unione Sovietica. Mi furono requisiti i discorsi di Jefferson, la costituzione americana e una foto di Martin Luther King. Materiale sovversivo

Sente ancora John Carlos?
Talvolta. L'ultima è stata per i funerali di Peter. Chiedemmo alla famiglia di poter portare la sua bara. Fummo accontentati. Per noi è stato un grande onore, abbiamo pagato un debito di cuore necessario.

Peter Norman, giusto?
Chi altri? Fu sua l'idea di dividerci un guanto a testa tra me e John. Fu lui a indossare lo stemma dell'Olympic Project For Human Rights. Arrivò secondo, medaglia d'argento. Per favore lo scriva perché in questo mondo di ipocriti smemorati c'è chi ha tentato di togliergli pure quel trofeo. Venti secondi ci mise, era il bianco più veloce che avessi mai visto. Pagò la solidarietà alla nostra causa per ogni giorno della sua vita in terra. Boicottato, cancellato, insultato. Solo dopo la sua morte l'Australia istituì il Peter Norman Day, cade il 9 ottobre, il giorno in cui se ne andò. Una modesta trovata per lavarsi la coscienza. Ciao Pete, ciao fratello, sappi che prego per te. (si commuove).

So che lei ha una persona speciale in Italia. Una persona alla quale tiene. 
E' mio figlioccio. Si chiama Andrew Howe Besozzi. Sono stato accanto alla mamma, Renee Felton, quando fu colpita da una malattia all'intestino. Una gran donna. E il ragazzo è bravo, è forte.

Lo chiamano il figlio del vento.
Come Carl Lewis, che retorica da quattro soldi.

Eppure parliamo di Lewis, l'uomo che disse che pur di non votare Bush si sarebbe fatto decapitare.
Meglio tardi che mai. Ha corso per loro, da bravo negro schiavo. Esattamente come Jesse Owens. Ha goduto dei loro privilegi.

In Messico la polizia uccise 600 studenti. Un particolare quasi trascurato dai media che ripropongono la storia delle olimpiadi. 
Fu una carneficina. Ricordo che nonostante ci fossero centinaia di giornalisti, furono in pochi a sottolineare l'orrore. C'era però  una brava cronista italiana. Fallaci mi sembra si chiamasse. Scrisse senza peli sulla lingua.

Ascolta musica?
Sì, certo. Anche qui in palestra per far dimagrire i ciccioni. Miles, Hendrix. Il mio preferito rimane Fela Kuti. Lo scriva pure.

Coach, lo rifarebbe? Dico quel pugno, la testa china durante l'inno?
Figliola, lo faccio tutti i giorni.

Daniela Amenta, 2002

mercoledì 5 marzo 2014

Dirty old town



Quando shane arrivò a roma, roma era in stato di grazia. era di primavera, era un cielo da cartolina con dei ritocchi blu cobalto da sembrare finti. uno scenario posticcio salutò l'arrivo di shane, garrincha del rock. era sbilenco e magro, con pelle chiarissima. la prima cosa che chiese fu un bicchierino. poi i bicchierini diventarono 3, 5, 100.

io facevo l'ufficio stampa del concerto che i Pogues avrebbero dovuto tenere al Tendaastrisce, città di Roma, non c'era nessuno ad  accoglierlo della casa discografica. lo accolsi io. mi consegnarono una valigia col cambio, hotel piazzale clodio. io con la valigia, lui con una bottiglia di gin nascosta in una busta di plastica.

uno che bevesse così tanto, appena sveglio, non l'avevo mai visto. uno che bevesse così di tutto. uno che non s'accontentasse del crepuscolo in testa che ti lascia una sbronza, il giorno dopo, ma avesse il bisogno di riaccendere di continuo gli special dell'ebrezza. gli tremavano queste mani bianche, come vestite da dei guantini di mohair con i pois delle lentiggini.

ma era un signore, shane. timido anche, divorato dentro da un'onda di tragedia apparentemente incomprensibile. incomprensibile perché aveva occhi di foglia, orecchie di Dumbo,  e quando cantava, col suo aspetto storto di garrincha-uccellino, c'era di che commuoversi.

si sporcò senza accorgersene, si fece la pipì addosso,  un macchia grande e poi se ne vergognò a lungo. e chiese scusa in diverse lingue. eravamo in un corridoio della rai, in via teleuda, c'era un programma tv e lui avrebbe dovuto eseguire un pezzo in playback. era tardi, ed entrammo nello studio che aveva dei puff e dei divani per ricreare un ambiente moderno e accogliente. il regista lo insultò, gli disse "piscione", shane capì perfettamente e arrrossì.  andai a cercargli il paio di pantaloni puliti nella valigia che mi avevano consegnato all'albergo di piazzale clodio.

il regista urlava di brutto, che era tardi, e che modi, e chi schifo portate a suonare, che gentaglia. shane sorrideva al pubblico-claque modernamente sdraiato sui puff. ecco i pantaloni puliti, signor regista. intanto shane si era procurato una bottiglia di fontana candida, non so come, forse alla mensa rai. il regista perse il controllo, disse al microfono (noi sentivamo la voce dall'alto, senza poterlo guardare in faccia. il regista era dio in persona, insomma), disse così: "fate sparire quella fottuta bottiglia e rassettate sto pezzente". E che cos'è il genio, cos'è la trovata, cos'è l'improvvisazione? Mentre partivano i titoli d'apertura del programma e il regista era fuori di sé, shane si calò i pantaloni sporchi e caldi di pipì davanti alle telecamere, mostrò un culo di pesca. Nel frattempo che dio impazziva e i tecnici applaudivano, si infilò quelli puliti e fece un balletto come fred astaire, sorrise felice e sdentatato  poi nascose la boccia in uno zainetto. e attaccò a cantare, niente basi, solo la sua voce.

Questa fece, 

I met my love by the gas works wall
Dreamed a dream by the old canal
I kissed my girl by the factory wall
Dirty old town
Dirty old town


Fu la rivolta del popolo degli abissi.  l'accogliente pubblico si spellò le mani, tremarono i puff e dio si vergognò  di essere stato maleducato e disonesto con il ragazzo senza denti.

Daniela Amenta

domenica 16 febbraio 2014

Mi chiamerò ericdolphy










mi chiamerò ericdolphy. suonerò tutto. sarò gentile con le persone più grandi ma anche rigorosissima con chi cerca di approfittarsi di me. avrò come amico solo charlie mingus, peggio di un bastardo, che a suo modo mi vuole un gran bene. 
sarò ericdolphy, pronta a raccontare le mie cose favorite con il vecchio coltrane, e cadenzare di flauti l'aria quando si fa troppo secca o troppo umida. sarò come un angelo caduto sulla terra per poco, citerò melville, berrò laphroaig invecchiato 10 anni che sa di terra e torba.
non farò il tifo per nessuna squadra ma guarderò volentieri il gioco del pallone. il calcio non avrò per me il pathos che voialtri gli attribuite. sarà solo uno schema magnifico con note sorprendenti che, a volte, si intersecano come toni sulla partitura.

il mio preferito sarà lev yashin perché anche io sono un gatto nero e un portiere. paro stoccate e indifferenza, pianissimi e altissimi con la stessa tuta scura, mai una grinza di troppo.

mi chiamerò ericdolphy, leggerò i classici della letteratura russa e alcuni voluminosi tomi d'america, avrò una coppia di felini sempre al mio fianco: il maestro e margherita. mai più nascerò il primo aprile. troppo facile ricordarlo.

provate a rammentarvi solo il mio nome, allora. sono ericdolphy e attraverso gli spartiti come un uccello. l'altro bird.

sono l'altro bird e volo alto

daniela amenta

giovedì 13 febbraio 2014

Cose per San Valentino

Questo piccolo racconto fu scritto a Cagliari nel 2004 per Natale Acido, convention di penne in libertà per sopportare la retorica delle feste. Tuttavia ancora oggi, a ridosso di San Valentino,  resta squisitamente pertinente. 





La tavola in rosso, amore. Per due. E i calici di cristallo, le porcellane chiare, fragili come meringhe, amore.
E la musica giusta. La nostra canzone. Quella dei Waterboys, quella che dice: and you, you in my arms. E tu, tu nelle mie braccia. E le candele che ti piacciono, la luce morbida. Il dorato. Il dorato delle tue labbra, dei tuoi occhi, quegli screzi d'autunno nelle tue pupille, tra le ciglia. I tuoi occhi di foglia, di paglia. Lascio che muoia in me il desiderio dei tuoi occhi.

Il nostro natale, amore. Sono in piedi da due giorni, non ci dormo. Deve essere tutto perfetto. Io, finalmente, io finalmente sarò perfetta. Sarò come mi vuoi, come pretendi. Bellissima. Perfetta. Perfetta come te. Come le tue braccia chiare, come i muscoli che tirano la pelle, i muscoli che circondano le vene, il bianco sul blu, sul verde delle arterie sottili..

Il pranzo, amore. Da due giorni cucino, notte e giorno. Il ripieno dei tortellini, il macinato con le spezie. La cannella, i filetti d'arancia, i chiodi di garofano. Il brodo nella zuppiera francese, quella bianca come le tue braccia di burro e marmo. Il brodo schiumato, leggerissimo, aereo, senza neppure un filo di grasso. Vuoi sapere, vuoi sapere come si fa? L'acqua deve bollire, e bollire, e bollire. Il trito di sedano e carote confondersi nel fondo, colorare appena, come uno schizzo di tramonto sull'ultimo raggio, oltre, laggiù. nell'orizzonte. Uno schizzo, un suono, la nostra canzone.
T'annoio, amore? T'annoio lo so. Vorrei essere perfetta e sopportare questo silenzio, questo peso che ho in gola. E ridere come ridevo quando ballavamo.
Amore, il brodo. Deve bollire e bollire. E le carni restringersi, ma restare intatte, squadrate, cubi. Le carni calde, guarnite con le salse. E la senape di Inghilterra, le mostarde. Fatte da me per te, con il mosto, la frutta fresca.

Non ci dormo da due notti. Ho i capelli in disordine, il vestito macchiato.
Pensavo, speravo, pensavo amore che sarebbe bastato saziarti, curarti, cullarti. Poteva bastare, e io che c'entro? Nulla. Io sono il latore della presente, il servo, la vestale. Io ti consegno la perfezione dei cibi col vestito macchiato, le calze smagliate. Ma preparo tavole magnifiche, conservo case supreme, mescolo mostarde. Ti amo per procura, perché non sono all'altezza. Ti amo lasciando che il brodo continui a bollire.
Non ho mai freddo quando cucino, mai. Mi scalda l'idea della tua bocca che s'apre, la lingua che gusta, tu che finalmente sorridi e sei mio. Il vino, amore. Il vino lasciamolo decantare. Un Luzzana. Il tuo preferito. Con quel viola che tinge il cristallo, mi tinge le mani. Ho le mani in disordine. I capelli in disordine. Il vestito macchiato
Sarà n natale perfetto, amore. Ti prego, ti prego non te ne andare. Questo natale e poi basta. Caro Gesù Bambino ti prego, lasciamelo per questo Natale, questo e basta. L'ultimo Natale. Ti prego. Vi prego.Un altro natale e basta.
Amore, mettiamoci a tavola. Vieni. Siedi. Il tovagliolo di lino.
Vieni. Assaggia. E' il brodo più buono del mondo, così leggero che sembra aria. Sembra di mangiare le nuvole.
Amore, prendine ancora. Ancora del bollito. Un altro po'. Ti servo io, io che sono la tua serva.

Affonda il coltello nella carne.
Amore, il tuo sapore. Una delizia. Taglio il tuo braccio in 16 porzioni esatte, le ricopro di mostarda di frutta. Il tuo occhio lo lascio per dessert. I tuoi occhi di foglia per brindare al prossimo autunno.

La canzone. Com'è che fa la canzone? Tu nelle mie braccia. Le tue braccia nel piatto buono di portata.
Daniela Amenta
(immagine da DeviantArt)



domenica 26 gennaio 2014

Gigi Paraggi e la notte putiferia




nel quartiere viale marconi o diventavi coatto, o soccombevi. prendevi sganassoni che levate anche perché la peggio gioventù stava là . quelli della magliana ce stavano, e certi fasci torvi e incazzati, pippati e black, de rapina, de morti ammazzati. pronti a tutto. mannaggia a loro. grossi e 'nfami, appostati al bar subrizi, che era un covo de casino, e se non ti sapevi difendere te la vedevi brutta. a rischio de portaje i cappuccini tutta la vita. se t'andava bene.

l'idolo nostro fu quindi gigi paraggi che era un nano, alto come noi rigazzini. gigi non era propriamente nano, aveva un morbo, che si chiama osteogenesi imperfetta che gli rendeva le ossa piccole e fragili, e gli occhi di un indaco nebbioso. poi si scoprì che anche un re importante stava come gigi nostro, e il jazzista petrucciani, l'uomo che faceva ridere il pianoforte e impazzire le donne, l'artista che suonava tutta la fretta del mondo perché non c'aveva tempo da perde. e infatti quando ascolti 'sta musica meravigliosa, cascate di note d'argento e tramonti sui pianeti pazzeschi, pensi che gigi si meritava intorno gente come a michel, e dischi di diamante fuso all'antracite e a fiori di pesco di giardini. a cose bellissime, insomma. mortaretti de stelle.

invece gigi nacque a viale marconi. e a viale marconi ce stavamo noi, solo noi, co le bolle in faccia e le magliette strette strette alla moda de raffaella carrà. era intelligentissimo, però. un essere superiore nonostante la statura minuscola. una lingua da crotalo. sveglio, cazzuto. cattivo ma equo. e nessuno si permetteva de pijallo in giro.
il sogno di gigi era di poter gareggiare nel derby calcistico marconese-ostiense, in porta. ma questo, nonostante venisse rispettato pure dalla banda del bar subrizi, non gli fu mai consentito. cosicché gigi ci schierò a noialtri rigazzini nell'epocale match che si svolse nella marana teverina, precisamente al campetto infernale lungotevere di pietra papa, un posto tanto lercio e zozzone che anche gli zingari s'erano rifiutati d'accamparsi. il match dei match andò in notturna, con il contributo di quattro fiat e un par di motorini che ci spararono addosso le luci dei fari per illuminare il rettangolo di giuoco.

eravamo un 4-4-2 classico, detti la squadra der nano, tutti nani, anni compresi tra 11 e 13, vestiti di rosso perché gigi disse: "dovemo sembrà diavoli e marziani, esseri imprendibili e un po' malvagi, e sfonnali psicologicamente". in porta il nostro lev jashin coi guanti di lana acquistati all'upim che "la lana trattiene la sfera di cuoio che se incolla ar tessuto".
contro avevamo il real san paolo, che s'allenava in basilica. gente grossa di 17 anni e più. finì con un pareggio, e quindi vittoria per noi, e gigi paraggi l'immenso che parò un corner radente e infido. la sua prima, ultima parata. gigi se ne morì come avevano detto i dottori, che non sarebbe mai arrivato ai 30anni. ne aveva 29 il giorno del match. ne uscì in trionfo e a quelli del bar subrizi glielo disse. gli disse: "d'ora in poi a tre palmi dal culo de sti rigazzini, sennò ve faccio magnà er core". e quelli zitti.

nella chiesa santi cosma e damiano, che non era una chiesa ma un garage, partecipammo tutti al funerale. don angelo ci permise di fare la messa beat. cantammo per lui, il nostro amato gigi, la canzone “il testamento di tito” con don angelo che s'attappava le orecchie per via dei brividi apocrifi.
fu il mio primo amichetto morto, il maestro d'arte coatta. che è morto, però, lo capisco solo oggi. che c'è un cielo d'indaco nebbioso.
bella gi', ce manchi.

daniela amenta
2003



venerdì 24 gennaio 2014

Certe estati a Tormarancia

sottotitolo: quando ingravallo liberò il cane
(e successe l'iradiddio)



accadde l'anno scorso, nella notte tra il 14 e il 15 di agosto. il quartiere venne svegliato da un mugolio lugubre, un latrato di tragedia. in molti pensammo a un incidente a camillo, che è il cane del quartiere nostro, tormarancia (ce l'ha scritto pure sulla medaglietta). in molti ci affacciammo. e all'alba scoprimmo. sulla terrazza di un attico lo sconsolatissimo husky. rimase sulla terrazza, sotto un sole da tremila gradi, per tutto il giorno. su e giù. disperato. la serranda della finestra abbassata, e il cane su e giù, a infilare un muso triste e bianco tra le fessure del balcone.

rapida consultazione tra i vicini. "ma sto cane? ma che l'hanno abbandonato? ma l'hanno chiuso fuori, ma ce l'avrà  l'acqua? e da magnà sta bestia ce l'avrà??". quello del secondo piano, padrone di nerone, ci rincuorò dicendo che i proprietari dell'husky li conosceva, brava gente, che mai e poi mai l'avrebbero accannato.

e passò il 16 e a metà del giorno 17 di agosto. e ci iniziammo a preoccupare per davvero. l'husky piangeva come un vitello su e giù sulla terrazza rovente. fu allora che dal primo piano un urlo attraversò la tromba delle scale. "chiamiamo ingravallo". ingravallo, ex milite in pensione, è maresciallo nell'anima. di maresciallo ha l'alito, i peli nel naso e il passo piatto. ingravallo non parte mai nei giorni topici dell'anno e monitora il rione con sguardo d'aquila miope.

"marescià è successo questo e questo altro. mo so passati tre giorni. temiamo per il cane, dice che se chiama rollo, pora bestia". ingravallo precisissimo, chiese di visionare la scena da uno delle "postazioni" (traduzione: balcone). sopra l'attico incriminato c'è¨ la terrazza condominiale. e ingravallo disse: "domani mattina informo il comando generale centrale. interverranno loro. è¨ una faccenda delicata. queste bestie di razza aschi sono montanare, ormai so tre giorni che sta al caldo della fornace. può esse che sia ferito e/o disidratato".


quella notte dormimmo tutti poco e male, nell'attesa dell'intervento risolutore. dormimmo male ma il poco fu sonno de piombo.  e infatti non sentimmo il casino in casa dell'husky.

ingravallo, complice il buio, pensò di farci una sorpresa calandosi dalla terrazza condominiale per liberare il cane prigioniero. era già  planato, con un salto aerobico de una metrata. ma in contemporanea erano tornati i proprietari sfaccimmi della bestia montanara che un altro po' denunciano ingravallo-il-prode per infrazione di proprietà privata, furto, rapina e due intere paginette del codice penale.

anche allora fu grande, ingravallo. si ripulì le mani, accarezzò il cane sul capoccione. disse: "le bestie o se tengono bene, o niente. ve denuncio io per maltrattamenti, altro che cazzi".

poi si scopri che i proprietari sfaccimmi si erano assentati per via di un urgente ricovero in ospedale e che la vicina loro ci aveva le chiavi e che l'husky di nome rollo, ci aveva acqua e cibo a carrettate ma per malinconia aveva scelto di stazionare sull'assolato balcone.

ora ogni volta che rollo incontra ingravallo ringhia che è una bellezza.

daniela amenta
2004

mercoledì 8 gennaio 2014

Otto gennaio 1951

Questo post è in memoria di Claudio Rocchi. Oggi avrebbe festeggiato 63 anni.


Il volo magico non si è interrotto. Di sicuro continua altrove. Sopra le pietre nere della Sardegna, le vette dell’Himalaya, tra le note, lo zen e l’arte della manutenzione del cuore. 

Claudio Rocchi, musicista, se n’è andato. Aveva 62 anni, nato a Milano l’8 gennaio del 1951, che poi è il titolo di un suo pezzo bellissimo, struggente. L’ha colpito a sorpresa una malattia degenerativa alle ossa. L’aveva raccontato lui stesso su Facebook, a fine maggio, ma senza piagnistei.

«Il buonumore tiene, la coscienza pure, il libro è iniziato stamane». Il libro era la sua autobiografia, La settima vita. E di cose da raccontare ne aveva Claudio. Un’esistenza pienissima, luminosa e ricca. Proprio come lui. Aveva cominciato nel circuito del rock alternativo, negli anni Settanta, come bassista degli Stormy Six. Poi la carriera da solo: visionaria, mistica, aerea, psichedelica: il primo disco acustico nel 1970 con Mauro Pagani, Viaggio, e poi Volo Magico numero 1, un capolavoro. Parte in India, torna e scrive Essenze facendosi accompagnare da Elio D’Anna degli Osanna e Mino De Martino dei Giganti.

Una vita pienissima. E tanta musica da far girare la testa: da Trilok Gurtu a Paolo Tofani degli Area, da Alice a Battiato, da Alberto Camerini a Franco Mussida... E tanta radio, programmi di culto come: Per voi giovani e Pop Off sulle frequenze di Radio 2. Proprio con Tofani aveva fondato il network nazionale RKC (Radio Krishna Centrale) con programmi dedicati a Vishnu, alla meditazione, alla spiritualità.

Negli anni Novanta continua a comporre: scrive musica, scrive poesie, sostiene l’apertura di «Re Nudo», la rivista underground, interpreta una parte nel film Musikanten di Franco Battiato. Non si fermava mai, Claudio, l’inarrestabile, il solare, innamorato dell’universo e delle sue creature: ascoltare per credere Sacred Planet, musica cosmica e sciamanica. Era magico, era gentile, era ispirato, con quella dose di follia che lo spinse a ideare e realizzare progetti apparentemente assurdi: nel 1999 nuova svolta, addio amici, si parte.

Per andare in Nepal dove rimase tre anni, fondando a Kathmandu, la prima radio indipendente nazionale «The Himalayan Broadcasting Company». Ne parlava con gli occhi che brillavano, che storia quella radio... Che emozioni quella gente, quei luoghi, quella valle sacra per gli indù e i buddhisti. Era un monaco, Claudio, un uomo che camminava a qualche centimetro dalla terra e la osservava con amorevole compassione. Dopo il Nepal un’altra grande sbandata: la Sardegna. 
Aveva trovato una casa a sud di Oristano, vicino a una montagna di pietra nera, da dove si vedeva il mare. All’isola dedicò anche un film, Pedra Mendalza. Era così Claudio Rocchi. Un vulcano in ebollizione. Uno sperimentatore. Un rivoluzionario. Uno che a un concerto di militanti comunisti a Ravenna fece ascoltatore il battito cardiaco di sua figlia nella pancia della mamma. Uno che continuava a fare quello che gli passava per la testa. Per esempio collaborare con una band dell’area psichedelica piemontese, gli Effervescent Elephants, ma soprattutto a fare musica con Gianni Maroccolo (ex Litfba, ex Csi). 

Un progetto bello - Vdb 23 /Nulla è andato perso - con disco, dvd e libro e i fondi trovati in rete grazie al crowdfunding. Un progetto al quale aveva aderito anche l’amico di sempre, Battiato. Rocchi raccontava spesso delle sue vite precedenti («aspirante santo», «aspirante pop star»), aveva mille aneddoti, aveva visto cose che noi umani fatichiamo anche a immaginare. A un certo punto aveva incontrato anche l’amore, Susanna Schimperna, alla quale dedicava (ampiamente ricambiato) meravigliosi post su Facebook e che sognava di sposare. L’altra notte una crisi più grave: pressione bassa, difficoltà a respirare. E poi ieri il tracollo.

Credeva nella reincarnazione e della morte non aveva paura («sostanziamente non esiste») ma lascia un grande vuoto in chi l’ha conosciuto, nei tanti fan guadagnati nel corso di una carriera che ha toccato ogni genere, che si è sempre rinnovata, guardando avanti, verso le nuvole, lungo la linea infinita dell’orizzonte. Buon viaggio, Claudio. Il volo magico è appena iniziato.

Daniela Amenta
L'Unità 19 giugno 2013