venerdì 21 ottobre 2016

Cohen (Leonard) splende nel buio

A una settimana dal Nobel assegnato a Bob Dylan irrompe, come un segno del destino o la soluzione dell'enigma, la nuova opera di Leonard Cohen. Esce ufficialmente oggi in tutto il mondo You Want It Darker . E' il quattordicesimo album in studio dell'artista canadese in mezzo secolo, il terzo in soli quattro anni. Segno che l'urgenza di dire è diventata pressante, la sensazione del tempo che scivola grandioso si impone come un Moloch e la visione del futuro si è fatta stretta anche per questo gigante della musica e delle parole.
Cos'è è la letteratura? Cos'è la poesia? Le domande che si sono posti gli scrittori in crisi di identità di fronte al tributo dell'Accademia di Svezia all'autore di Duluth, rimbalzano tra i solchi e le pieghe anche di questo disco, che è in fondo la summa del Cohen pensiero. E' forse azzerare i concetti di cultura alta e bassa, saper interpretare lo Zeitgeist di un'epoca, riempire di poetica ed emozioni il cuore di generazioni, sintetizzare miliardi di letture, suoni, tradizioni in una canzone, ovvero pochi minuti di pura estasi? Se è così – ed è probabile che sia così – un pezzo del Nobel guadagnato da Bob va di diritto anche a Leonard. Dylan lo sa bene: ha sempre trattato Cohen con i guanti bianchi, ammirato e soggiogato dal fascino colto eppure così carnale di questo signore nato in Canada 82 anni fa. “Sei tu il numero 1”, ebbe a dirgli. Fino a paragonarlo per talento compositivo e genio sonoro a Irving Berlin, uno dei più grandi compositori del Novecento.
Due storie in parallelo. Ebrei entrambi, entrambi erranti e inquieti. Ma se con gli anni Cohen ha trovato il punto di equilibrio e sa nutrirsi dell'amore incondizionato del suo pubblico, Dylan è ancora alle prese con il concetto di infinito – The Never Ending Tour – e con un'anima ostile, difficilmente domabile.
Ecco, l'infinito e la finitezza. Questa è la frattura tra i due. Per dirlo con uno dei versi di Leonard: “C'è una crepa in ogni cosa e questo è il modo in cui la luce può entrare”.
C'è, dunque, luce in un disco che già dal titolo tende verso l'oscurità, gli abissi, il buio? You Want It Darker, a dispetto delle apparenze, è un'opera che sa trovare crepe e struggenti bagliori luminosi nella fragilità dolente della mortalità. A cominciare dalla title-track scritta da Cohen e dall'amico Patrick Leonard. La voce del canadese è ormai catrame, fondo delle scale tonali. Ripete in ebraico: “Ineni, ineni”, le parole di Abramo nella Bibbia. Le traduce in inglese: “Sono pronto, Signore”. Lo accompagna, a dare spessore mistico, il coro della Sinagoga di Montreal. E' un pezzo fascinoso, doloroso. Ma non è un addio. E' solo consapevolezza quella di Leonard Cohen.
In questo anno maledetto altre due opere importanti hanno affrontato il tema della morte: Blackstar di David Bowie e Skeleton Tree di Nick Cave. Nel primo caso si è trattato di un testamento d'arte, furente e alchemico. Nel secondo il lutto del padre “orfano” che vede seccarsi l'Albero della vita descritto nella Cabala e frantumarsi al suolo il suo frutto più bello. Qui, in You Want It Darker, Cohen narra il distacco cosciente, lucido e dolce, dal mondo terreno. Come se la lettera scritta alla sua musa, il suo grande amore Marianne scomparsa a luglio, trovasse in questo disco la necessaria compiutezza. “E' arrivato questo tempo in cui siamo entrambi molto vecchi e i nostri corpi cadono a pezzi (…). Sai che ti sono così vicino che se allungassi la mano troveresti la mia. Penso che ti seguirò molto presto. Addio mia infinita bellezza, ci vediamo lungo la strada”.
La strada è segnata dalla poetica dei chiaroscuri di Leonard: una chitarra malinconica, violini, voci femminili, ballad. E il nostro “chazan” che ci prende per mano per mostrarci gli angoli più intimi e segreti dell'umana finitezza: “Milioni di candele accese per l'amore che non è mai venuto” oppure “Ho lottato con alcuni demoni, erano dolci e borghesi. Io non sapevo di avere il permesso di uccidere e mutilare”. Così in Treaty si confessa e non si assolve: “Solo uno di noi esisteva, ed ero io” e in On The Level ammette ancora le tentazioni di un vecchio, vinto però da “una bestia addormentata”.
C'è l'ironia yiddish in
You Want It Darker, gli studi religiosi, la pazienza buddista, lo Zen e l'arte di mantenersi onesto e consapevole, gestire la fatica e salutare ogni giorno come un piccolo dono. C'è la pazienza di fare i conti con il dolore e c'è la saggezza di guardare al passato con disincanto e tenerezza per giustificarsi un po'. Solo un po'. In una bellissima intervista a David Remnik pubblicata lo scorso 17 ottobre su The New Yorker, Cohen spiega il senso di questo disco e molto altro ancora con una semplicità che disarma, offrendo al giornalista biscotti, vino, pollo e succhi di frutta. “Oggi vivo una situazione particolare. Ho meno distrazioni di un tempo. Non devo preoccuparmi di mantenere la mia famiglia, posso leggere e comporre, o mettere in ordine la mia casa che è una pratica simile a un potente analgesico. I miei figli abitano accanto a me, ho un assistente che mi aiuta, qualche buon amico. Sono un uomo benedetto. E' solo la condizione del mio corpo a limitarmi. Ogni tanto devo sdraiarmi...”.
Più volte nell'album Leonard ribadisce il concetto di abbandonare il tavolo, uscire dal gioco come in
Leaving The Table. Lo dice e poi, nel brano successivo, If I Did'nt Have Your Love, si contraddice e ci spiazza con una canzone d'amore, e poi ci confonde ancora con Traveling Light, il viaggio di un uomo alla ricerca della solitudine. Tutti gli umori, i temi, i segni di una vita si mescolano in questo affresco potente, mistico e terreno come solo Cohen sa essere. La fede che va e viene in It Seemed The Better Way (“Alza questo calice di sangue, prova a dire una preghiera di ringraziamento”) e il coraggio per affrontare con dignità le tenebre mentre di nuovo, si accende, in lontananza una fiamma che trema e incanta in Steer Your Way che ha, addrittura, movenze gioiose e che, in forma di poesia, è stata pubblicata proprio da The New Yorker a giugno. Chiude l'opera, che è prodotta dal figlio Adam Cohen, String Reprise, rivisitazione di Treaty con quartetto d'archi.

Non si chiude, invece, la parabola del “bel perdente” che con You Want It Darker ci regala note e parole materiche su cui riflettere e la certezza della polvere di cui siamo fatti. Il resto è un uccello che dondola su un filo, per citare Bird On The Wire del 1968, e la straordinaria bellezza di un uomo che ha impiegato una vita a cercare di essere libero. Fino a riuscirci.


Daniela Amenta
(L'Unità, 21 ottobre 2016)