A una settimana dal Nobel assegnato a
Bob Dylan irrompe, come un segno del destino o la soluzione
dell'enigma, la nuova opera di Leonard Cohen. Esce ufficialmente oggi
in tutto il mondo You Want It Darker . E' il quattordicesimo
album in studio dell'artista canadese in mezzo secolo, il terzo in
soli quattro anni. Segno che l'urgenza di dire è diventata
pressante, la sensazione del tempo che scivola grandioso si impone
come un Moloch e la visione del futuro si è fatta stretta anche per
questo gigante della musica e delle parole.
Cos'è è la letteratura? Cos'è la
poesia? Le domande che si sono posti gli scrittori in crisi di
identità di fronte al tributo dell'Accademia di Svezia all'autore di
Duluth, rimbalzano tra i solchi e le pieghe anche di questo disco,
che è in fondo la summa del Cohen pensiero. E' forse azzerare i
concetti di cultura alta e bassa, saper interpretare lo Zeitgeist di
un'epoca, riempire di poetica ed emozioni il cuore di generazioni,
sintetizzare miliardi di letture, suoni, tradizioni in una canzone,
ovvero pochi minuti di pura estasi? Se è così – ed è probabile
che sia così – un pezzo del Nobel guadagnato da Bob va di diritto
anche a Leonard. Dylan lo sa bene: ha sempre trattato Cohen con i
guanti bianchi, ammirato e soggiogato dal fascino colto eppure così
carnale di questo signore nato in Canada 82 anni fa. “Sei tu il
numero 1”, ebbe a dirgli. Fino a paragonarlo per talento
compositivo e genio sonoro a Irving Berlin, uno dei più grandi
compositori del Novecento.
Due storie in parallelo. Ebrei
entrambi, entrambi erranti e inquieti. Ma se con gli anni Cohen ha
trovato il punto di equilibrio e sa nutrirsi dell'amore
incondizionato del suo pubblico, Dylan è ancora alle prese con il
concetto di infinito – The Never Ending Tour – e con
un'anima ostile, difficilmente domabile.
Ecco, l'infinito e la finitezza. Questa
è la frattura tra i due. Per dirlo con uno dei versi di Leonard:
“C'è una crepa in ogni cosa e questo è il modo in cui la luce può
entrare”.
C'è, dunque, luce in un disco che già
dal titolo tende verso l'oscurità, gli abissi, il buio? You Want
It Darker, a dispetto delle apparenze, è un'opera che sa trovare
crepe e struggenti bagliori luminosi nella fragilità dolente della
mortalità. A cominciare dalla title-track scritta da Cohen e
dall'amico Patrick Leonard. La voce del canadese è ormai catrame,
fondo delle scale tonali. Ripete in ebraico: “Ineni, ineni”, le
parole di Abramo nella Bibbia. Le traduce in inglese: “Sono pronto,
Signore”. Lo accompagna, a dare spessore mistico,
il coro della Sinagoga di Montreal. E' un pezzo fascinoso, doloroso.
Ma non è un addio. E' solo consapevolezza quella di Leonard Cohen.
In questo anno
maledetto altre due opere importanti hanno affrontato il tema della
morte: Blackstar
di David Bowie e Skeleton Tree
di Nick Cave. Nel primo caso si è trattato di un testamento d'arte,
furente e alchemico. Nel secondo il lutto del padre “orfano” che
vede seccarsi l'Albero della vita descritto nella Cabala e
frantumarsi al suolo il suo frutto più bello. Qui, in You
Want It Darker, Cohen narra il
distacco cosciente, lucido e dolce, dal mondo terreno. Come se la
lettera scritta alla sua musa, il suo grande amore Marianne scomparsa
a luglio, trovasse in questo disco la necessaria compiutezza. “E'
arrivato questo tempo in cui siamo entrambi molto vecchi e i nostri
corpi cadono a pezzi (…). Sai che ti sono così vicino che se
allungassi la mano troveresti la mia. Penso che ti seguirò molto
presto. Addio mia infinita bellezza, ci vediamo lungo la strada”.
La strada è
segnata dalla poetica dei chiaroscuri di Leonard: una chitarra
malinconica, violini, voci femminili, ballad. E il nostro “chazan”
che ci prende per mano per mostrarci gli angoli più intimi e segreti
dell'umana finitezza: “Milioni di candele accese per l'amore che
non è mai venuto” oppure “Ho lottato con alcuni demoni, erano
dolci e borghesi. Io non sapevo di avere il permesso di uccidere e
mutilare”. Così in Treaty
si confessa e non si assolve: “Solo uno di noi esisteva, ed ero io”
e in On The Level ammette
ancora le tentazioni di un vecchio, vinto però da “una bestia
addormentata”.
C'è l'ironia yiddish in You Want It Darker, gli studi religiosi, la pazienza buddista, lo Zen e l'arte di mantenersi onesto e consapevole, gestire la fatica e salutare ogni giorno come un piccolo dono. C'è la pazienza di fare i conti con il dolore e c'è la saggezza di guardare al passato con disincanto e tenerezza per giustificarsi un po'. Solo un po'. In una bellissima intervista a David Remnik pubblicata lo scorso 17 ottobre su The New Yorker, Cohen spiega il senso di questo disco e molto altro ancora con una semplicità che disarma, offrendo al giornalista biscotti, vino, pollo e succhi di frutta. “Oggi vivo una situazione particolare. Ho meno distrazioni di un tempo. Non devo preoccuparmi di mantenere la mia famiglia, posso leggere e comporre, o mettere in ordine la mia casa che è una pratica simile a un potente analgesico. I miei figli abitano accanto a me, ho un assistente che mi aiuta, qualche buon amico. Sono un uomo benedetto. E' solo la condizione del mio corpo a limitarmi. Ogni tanto devo sdraiarmi...”.
Più volte nell'album Leonard ribadisce il concetto di abbandonare il tavolo, uscire dal gioco come in Leaving The Table. Lo dice e poi, nel brano successivo, If I Did'nt Have Your Love, si contraddice e ci spiazza con una canzone d'amore, e poi ci confonde ancora con Traveling Light, il viaggio di un uomo alla ricerca della solitudine. Tutti gli umori, i temi, i segni di una vita si mescolano in questo affresco potente, mistico e terreno come solo Cohen sa essere. La fede che va e viene in It Seemed The Better Way (“Alza questo calice di sangue, prova a dire una preghiera di ringraziamento”) e il coraggio per affrontare con dignità le tenebre mentre di nuovo, si accende, in lontananza una fiamma che trema e incanta in Steer Your Way che ha, addrittura, movenze gioiose e che, in forma di poesia, è stata pubblicata proprio da The New Yorker a giugno. Chiude l'opera, che è prodotta dal figlio Adam Cohen, String Reprise, rivisitazione di Treaty con quartetto d'archi.
C'è l'ironia yiddish in You Want It Darker, gli studi religiosi, la pazienza buddista, lo Zen e l'arte di mantenersi onesto e consapevole, gestire la fatica e salutare ogni giorno come un piccolo dono. C'è la pazienza di fare i conti con il dolore e c'è la saggezza di guardare al passato con disincanto e tenerezza per giustificarsi un po'. Solo un po'. In una bellissima intervista a David Remnik pubblicata lo scorso 17 ottobre su The New Yorker, Cohen spiega il senso di questo disco e molto altro ancora con una semplicità che disarma, offrendo al giornalista biscotti, vino, pollo e succhi di frutta. “Oggi vivo una situazione particolare. Ho meno distrazioni di un tempo. Non devo preoccuparmi di mantenere la mia famiglia, posso leggere e comporre, o mettere in ordine la mia casa che è una pratica simile a un potente analgesico. I miei figli abitano accanto a me, ho un assistente che mi aiuta, qualche buon amico. Sono un uomo benedetto. E' solo la condizione del mio corpo a limitarmi. Ogni tanto devo sdraiarmi...”.
Più volte nell'album Leonard ribadisce il concetto di abbandonare il tavolo, uscire dal gioco come in Leaving The Table. Lo dice e poi, nel brano successivo, If I Did'nt Have Your Love, si contraddice e ci spiazza con una canzone d'amore, e poi ci confonde ancora con Traveling Light, il viaggio di un uomo alla ricerca della solitudine. Tutti gli umori, i temi, i segni di una vita si mescolano in questo affresco potente, mistico e terreno come solo Cohen sa essere. La fede che va e viene in It Seemed The Better Way (“Alza questo calice di sangue, prova a dire una preghiera di ringraziamento”) e il coraggio per affrontare con dignità le tenebre mentre di nuovo, si accende, in lontananza una fiamma che trema e incanta in Steer Your Way che ha, addrittura, movenze gioiose e che, in forma di poesia, è stata pubblicata proprio da The New Yorker a giugno. Chiude l'opera, che è prodotta dal figlio Adam Cohen, String Reprise, rivisitazione di Treaty con quartetto d'archi.
Non si chiude,
invece, la parabola del “bel perdente” che con You
Want It Darker ci regala note e
parole materiche su cui riflettere e la certezza della polvere di cui
siamo fatti. Il resto è un uccello che dondola su un filo, per
citare Bird On The Wire del
1968, e la straordinaria bellezza di un uomo che ha impiegato una
vita a cercare di essere libero. Fino a riuscirci.
Daniela Amenta
(L'Unità, 21 ottobre 2016)