domenica 19 febbraio 2017

Sulla generazione che non ha perdonato Cobain (e invece sarebbe ora)

Appena si seppe, appena arrivò la notizia furono prima lacrime, poi disperazione, poi veglie, infine l’incapacità di gestire la realtà. L’8 aprile del 1994 la “Generazione X” si trovò a fare i conti con un lutto che, ancora, in molti, non hanno alcuna intenzione di metabolizzare. In parte dipende dalla stessa mitologia del rock, in parte è roba da lettino freudiano. Si chiama negazione, gettonatissimo meccanismo di autodifesa in caso di tragedia collettiva. I ragazzi e le ragazze degli anni Novanta all’improvviso provarono la desolazione dell’assenza, sentimento ben più compatto e aguzzo dello spleen di chi non ha un posto dove andare, un posto nella vita.

Alle 8.40 di tre giorni prima, secondo l’autopsia e le notazioni del Coroner, Kurt Cobain aveva premuto contro di sé il grilletto di un Remington-11, fucile semi automatico usato anche durante le guerre in Vietnam e Corea. Un colpo che non era, non è, la sconfitta di un solo uomo ma di milioni di fan in gramaglie, dei teenager di ieri. Perfino l’estetica del gesto è devastante da capire, figuriamoci da introiettare: quel volto bellissimo, angelico e disperante, massacrato da un proiettile. La negazione del sé, della stessa immagine dei Nirvana, la frantumazione dell’io, lo sfregio. Ecco, anche la violenza del rito autodistruttivo, l'esegesi tragica del male oscuro, non hanno aiutato gli orfani di Cobain che negli anni hanno dato vita a una mostruosa e gigantesca messa in scena pur di dirsi che lui no, il loro Kurt, l’icona del grunge, non l’avrebbe mai fatto, mai. Delitto, è stato un delitto.  Cominciò ad avanzare ipotesi in puro stile complottista Richard Lee, giornalista in vena di scoop. E nel tempo le congetture più bizzarre, audaci e imprevedibili hanno “riempito” l’assenza, il vuoto, rimbalzando come biglie tra libri, film, programmi televisivi, forum di discussioni.

Così il 20 febbraio, in occasione dei 50 anni mai compiuti da Cobain, arriva in Italia (con un discreto tempismo macabro) Chi ha ucciso Kurt Cobain?, documentario che ripercorre gli ultimi giorni del leader dei Nirvana, fino alla fine: il corpo riverso nel garage del villone a Seattle e accanto il pacchetto di American Spirit nere, nere le Converse, neri gli occhiali, nera la biro infilata nella terra di un vaso a tenere ferma, immobile la lettera d’addio. E poi il kit da tossico, i 120 dollari sparpagliati, le cicche, il quadretto amaro di tutta la desolazione cantata da Cobain nella sua breve parabola su questa terra. Protagonista principale del doc non è il caro estinto ma Tom Grant, investigatore privato che fu assoldato da Courtney Love per rintracciare il marito in fuga dal rehab di lusso a Los Angeles.

Anche Grant sostiene, ovvio, che qualcuno volesse morto Kurt. E gli indizi, guarda un po’, portano tutti alla bella e inquieta vedova. Che, di par suo, ha ingaggiato squadre di avvocati, raccontato la sua versione della storia attraverso testi, pubbliche confessioni e pellicole autorizzate (una è Montage Of Heck di Brett Morgen, del 2015).  Festa mesta, dunque, per Cobain. Così celebrato, citato, eppure - pare - mai ascoltato sul serio. Prego, rileggersi i testi, provare a capire il senso di un suono oltre alla nostalgia per le camicie a quadri che indossammo. Il senso di morte è così presente, totalizzante, da fare male. Già da Bleach , l’album che apre ufficialmente le danze della carriera dei Nirvana. La prima canzone si intitola Blew, e fa così: Se non vi dispiace vorrei tirare il fiato/ Se non vi dispiace vorrei lasciarmi andare/ Se non vi dispiace vorrei lasciare/ Se non vi dispiace vorrei respirare.

E così è pure nel pluridecorato Nevermind che, tra l’altro contiene, Endless, nameless. (Silenzio/Sono qui/ Sono qui/ Silenzioso/ Splendente e pulito/ È ciò che sono. Sono morto/ Morte/ Con violenza). Fino alla tragedia di In Utero, opera che nella sostanza è un testamento. Chi scrive recensì all’epoca quel disco per il Mucchio Selvaggio, tra le più blasonate riviste rock. Cercò di spiegare perché i Nirvana fossero così respingenti, feroci, a tratti insostenibili. I fan non apprezzarono. Però sarà il caso di far tirare il fiato anche al fantasma di Kurt, farci pace.

Dire, dirci che non esiste metafora nella poetica di Cobain, non c'è pelle a dividere i piani, nessuno spessore tra il sé e l'artificio artistico. Cobain era quello che cantava, che urlava, che piangeva e distruggeva, piangendo e distruggendo se stesso. Tutto così chiaro e manifesto, nessuna finzione, una lacerazione nelle carni e nel cuore, un’autenticità che toglie il fiato, la passione di un Cristo che sa che non esiste redenzione, né riscatto. Non era neppure più musica, a un certo punto, ma la deflagrazione totale, consapevole, di un uomo baciato dal genio e che del genio non seppe che farsene, se non considerarlo un’altra trappola in cui suo malgrado era caduto.

Nella lettera d’addio dedicata a Boddah, l’alter ego del Cobain bambino, è tutto detto. E nonostante la disperazione, quel ragazzo di 27 anni al cospetto con la propria fine è così lucido da scrivere: «Io non provo più emozioni nell’ascoltare musica e nemmeno nel crearla e nel leggere e nello scrivere da troppi anni ormai». Forse avrebbe dovuto aggiungere, come Pavese, «non fate troppi pettegolezzi». Della perdita di relazioni con l'io interiore, la disidratazione di sentimenti, la cesura con ogni ancoraggio possibile aveva detto anche Ian Curtis dei Joy Division. Sembra di leggere lo stesso terribile copione già scritto, archiviato, in Disorder, un pezzo del 1979: I've got the spirit, but lose the feeling, Feeling, feeling, feeling, feeling, feeling, feeling, feeling. Niente emozioni, e per favore niente pettegolezzi, che il defunto li odiava. Ma per una rockstar è impossibile sottrarsi al chiacchiericcio compulsivo, alle fandonie, alle congiure, alle fantasie. A una rockstar non è concesso riposare in pace e, meno che mai, scegliere il suicidio per uscire di scena. Il suicidio non si perdona a un comune mortale, figuriamoci a un divo. L’overdose è contemplata nel rock, l’incidente selvaggio è previsto, perfino l’omicidio ma non il più estremo dei gesti, quell’«atto di ambizione che si può commettere solo quando si è superata ogni ambizione». E poi diamine, aveva tutto Cobain: bello, ricco, famoso, talentuosissimo, con «una moglie divina che trasuda empatia» e una figlia che gli ricordava troppo «di quando ero come lei, pieno di amore e gioia».
C’è che in fondo, nel fondo di questa smania a cercare colpevoli, nelle foto pubblicate dal luogo della morte, nella morbosa pratica autoptica a caccia di indizi, si restituisce a Cobain solo la parvenza. Quasi che anche la sua fine facesse parte dello spettacolo. Solo spettacolo, solo show pure la solitudine e il dolore. Domani, 20 febbraio, per i 50 anni che Kurt Cobain non ha mai festeggiato, dovremmo invece tenere soltanto l’amarezza vicina al cuore. Keeps the bitterness close to the heart. E lasciarlo andare, finalmente.


La traduzione dei testi dei Nirvana è opera degli autori di Nirvanaitalia.it, a cui vanno i miei ringraziamenti. 

Daniela Amenta
(L'Unità, 19 febbraio 2017)

Gimme Danger

Dietro questa storia, la storia di una band, ce n'è un'altra. Quest'altra è fatta di ritagli di foto, ascolti, confessioni, circostanze, piccolo collezionismo e molto amore. Jim Jarmusch, ex ragazzo dell'Ohio con i capelli candidi, definito “principe del cinema indipendente”, con Gimme Danger ha dato un bacio al suo rettile preferito per trasformarsi nel narratore di un'epopea, di un'America periferica e derelitta, di una scena musicale mai udita prima di allora. Ci sono qui svisate elementari e potentissime, una batteria martellante, feedback e rumore bianco, e un cantante magnetico che rantolava, urlava, si lanciava sul pubblico fino a travolgerlo. E quindi, partiamo dal pretesto: un film sugli Stooges, «la più grande rock band del pianeta». Al centro James Newell Osterberg, detto Jim, ma meglio noto come Iggy Pop, leader del gruppo, anima, motore e icona. Accanto Ron Asheton, Scott Asheton e Dave Alexander, via via sostenuti/sostituiti da Steve Mackay, James Williamson e Mike Watt. Siamo nel “polveroso Midwest”, negli States degli anni Sessanta. È il tempo in cui un ragazzo cresciuto su una roulotte ad Ann Arbor, sobborghi del Michigan, decide di diventare l'Iguana e sopravvivere al tempo, a qualunque orologio, al suo stesso mito.
Gimme Danger è un brano degli Stooges, contenuto in Raw Power, il terzo album del gruppo, datato 1973. Ma questa storia inizia nel 1967, dieci anni prima del 1977, l'anno folgorante del Movimento (in Italia) e della destrutturazione del punk in Gran Bretagna e in America, l'anno selvaggio e della creatività al potere, l'anno in cui tutto ci sfuggì di mano. Dieci anni prima, pensate, c'era chi aveva già immaginato che la musica potesse essere rivolta, violenza, sesso e scardinamento delle regole, praticando ogni estremismo sopra e sotto il palco. L'esordio degli Stooges avvenne la notte di Halloween in una sala dell'università del Michigan e cambiò, nel bene e nel male e per sempre, il baricentro del rock. Jarmusch racconta tutto questo grazie alle parole di Iggy Pop che il 21 aprile prossimo venturo compirà 70 anni e che ha tatuato sulla pelle ogni eccesso.
È un film bellissimo Gimme Danger (nelle sale italiane solo il 21 e il 22 febbraio) perché è un omaggio divertito, complice, malinconico e furente alle passioni dell'adolescenza, al gruppo più amato dai “viaggiatori dei bassifondi”, da chi ha recitato come un mantra livido ed epico No Fun, niente divertimento, per poi divertirsi senza freni. Spezzoni di concerti, poster, ricordi, sketch televisivi d'epoca mescolati con memorie private a sostenutissima velocità. Un collage “bizzarro, disordinato, primitivo”. Jarmusch non ha mai fatto mistero della sua ossessione per il rock (è perfino un discreto chitarrista) ma qui, in questo documentario pulsante, ci sono anche i non luoghi degli States e c'è la fotografia di un tempo – il finire degli anni Sessanta – quando Lyndon Johnson annunciò con il ritiro delle truppe dal Vietnam la sua intenzione a non ricandidarsi, e Iggy Pop pensò «e adesso chi odieremo?».
L'odio, certo, ma soprattutto l'amore per questa band che ha anticipato tutto e che in troppi hanno dimenticato pur saccheggiandone pulsioni, mood, ferocia. Dice il regista: «Nessun può competere con la loro musica, con quei testi succinti e tormentati, con il ringhio da leopardo di un frontman che incarna in qualche modo Nijinsky, Bruce Lee, Harpo Marx e Arthur Rimbaud».
Troppo? Ascoltatelo ancora oggi Iggy Pop, quella voce di catrame che arriva dal fondo di un oceano in tempesta, quello sberleffo sempiterno incollato sulle labbra a sovvertire il comune senso del pudore. Iggy che è il corpo del rock in assoluto, tanto da essersi trasformato nel modello per ventidue pittori che lo hanno ritratto nudo su idea di Jeremy Deller. Quegli schizzi, quei ritratti sono diventati una mostra, lo scorso anno, per il Museo di Brooklyn, New York. Perché con lui, con Iggy, la fisicità è diventata metalinguaggio: totem ed estensione del messaggio sonoro. Annota correttamente Deller: «Il modo con cui manipola il suo corpo, lo ostenta, lo piega e lo strapazza è un modo per comunicare. È musica, è un'onda di carne». 
Ecco, in Gimme Danger quest'onda è un cavallone su cui surfare. C'è l'Iguana splendido e giovanissimo che si offre al pubblico come un Messia iconoclasta, scalciando, saltando, dimenandosi in una danza epilettica, tagliandosi le vene, vomitando, brandendo il sesso mentre gli Stooges non muovono un dito e I wanna be your dog s'alza tumultuosa, funebre, solenne. «Ero attratto - dice Iggy – da questi film a sfondo egiziano, dove c'è sempre un faraone a torso nudo che irrompe sulla scena. Io volevo fare lo stesso». Lo ha fatto, lo fa ancora, senza vergogna, mostrando le rughe e le vene rinsecchite dall'eroina, ultimo sopravvissuto di una genia di rockstar come Nico, sua amante per un breve periodo, Lou Reed o l'amico geniale David Bowie che gli diede infinito credito pur di non farlo morire in qualche stanza di motel con le pareti a fiori. Rockstar solo apparentemente minore Iggy, solo più trasversale e marginale del resto della compagnia ma di fatto sempre capace di reinventarsi come un'Araba Fenice con le piume che sono squame di rettile.
C'è in Gimme Danger il racconto crudo dei meccanismi dello show-biz, il cinismo del mercato: essere presi, sfruttati, liquidati con un calcio nel sedere senza troppe spiegazioni. Sorte che toccò anche agli Stooges, meno furbi dei Sex Pistols che “entrarono nel business per fotterlo”, meno cattivi dei Ramones, meno consapevoli e politicizzati degli Mc5. «Eravamo gentaglia ma tra noi praticavamo la gentilezza. Una specie di famiglia, un gruppo comunista. Spartivamo tutto: la casa, quello che c'era da mangiare, le droghe, i pochi soldi, successi e insuccessi» dice Iggy a Jim Jarmusch. Una parabola che inizia, discograficamente, nel 1969: primo album The Stooges prodotto da John Cale dei Velvet Underground , il secondo è Fun House del 1970, il terzo è Raw Power del 1973, apice e fine di una parabola, l'opera meno capita allora e suo malgrado diventata lo snodo per decifrare le generazioni che “cercavano e distruggevano”, i nichilisti senza sogni, senza pace, senza futuro. Molte droghe, molto caos e la vertigine dell'autodistruzione. Poi, la ripresa nel 2003, la reunion al Festival di Coachella, i reduci – Iggy con Ron e Scott - che si ritrovano e nel 2007 la pubblicazione di The Weirdness, lavoro di cui avremmo potuto fare volentieri a meno se non fosse che anche noi, come Jarmusch, vogliamo bene a questa “gentaglia del polveroso Midwest”.
La storia si è chiusa con Ready To Die del 2013 e questo film è dedicato alla memoria di Dave Alexander e dei fratelli Ashton, in ricordo di quei testi fatti di venticinque parole e di un suono grande e potente e pericoloso, stato dell'anima prima di essere stile. «Non voglio essere alternativo, non voglio essere un hip-hopper, non voglio essere punk. Voglio essere» conclude Iggy.
È l'ultimo fotogramma.
Lunga vita all'Iguana.

Daniela Amenta
da L'Unità, 16 febbraio 2017