sabato 15 marzo 2014

L'uomo col pugno chiuso



Questa intervista è frutto di invenzione. Tuttavia le informazioni che contiene sono state assunte da articoli pubblicati e vere interviste, libri e citazioni provate.

Questa intervista inventata parte da un assunto. 
"Il suo corpo è architettura in movimento" (Neil Allen)



Come posso chiamarla? Tommie? mister Smith? The Jet?
Mi chiami coach. Coach Smith va benissimo.

Coach di cosa? 
Insegno ai bianchi a dimagrire. Qui, al Santa Monica college. Una palestraccia. op, op, salta, tira su quel culo, forza, issa. Ecco li alleno a smaltire chili di hamburger. Lo sa che una dieta di junk food in dieci giorni può spappolarle il fegato? Per non dire del colesterolo.

Corre ancora, coach?
Tutte le mattine per prendere l'autobus, non possiedo automobili. I miei allievi si stupiscono. Dicono: ma se era così famoso, coach, perché non è riuscito ad acquistare almeno un Mercedes usato? Così corro, non riuscirei più a a tagliare i 200 in 19 secondi e 83. Ma mi arrangio (ride)

Appunto, come mai? Come mai costretto a vender il poster di Messico 68 autografato per 90 dollari? Non le sembra di mercificare sé stesso, il suo gesto?
Non mercifico nulla. Mi riapproprio di un pezzo della mia storia e fotto il business. Ho tre figli da mantenere. La vita in Texas è faticosa,  questo è un Paese ricco. Costa tutto il doppio.

Se non sbaglio ha un master in sociologia. Ha mai pensato di  insegnare?
Io sì. Però dovrebbe rivolgere la domanda alle università americane.

Vuol dire che lo Stato dell'Unione non lo hai mai perdonato?
L'unico regalo che ho ricevuto, in questi anni,  è stato evitare il servizio in Vietnam. I miei compagni non ritornarono da quella sporca guerra. Tutta la mia pattuglia fu sterminata. Mi salvai per indegnità. Forse oggi qualcuno ne riderebbe, allora fu come essere una bestia marchiata col fuoco.

Anche la sua famiglia ricevette minacce ed insulti. 
Mia madre Dora per mesi fu additata come una spia. Morì di crepacuore. Mio padre capì. Aveva un'altra consapevolezza. Sapeva che di notte studiavo, leggevo la Bibbia e di giorno lavoravo e correvo. Non ero una testa matta, sapeva che avevo ragione. Furono scritte molte stronzate dopo quel giorno. Si disse che in realtà ero un fornicatore e un improbo, che avevo fatto quello che avevo fatto per rimorchiare le donne. Solita retorica sui negri che fottono. In realtà  la ragazza cacciata dal villaggio olimpico con me era mia moglie Denise. Era incinta. Mi aveva raggiunto per portarmi il guanto delle Panthers. Dissero che ci avevano pagato i comunisti dell' Unione Sovietica. Mi furono requisiti i discorsi di Jefferson, la costituzione americana e una foto di Martin Luther King. Materiale sovversivo

Sente ancora John Carlos?
Talvolta. L'ultima è stata per i funerali di Peter. Chiedemmo alla famiglia di poter portare la sua bara. Fummo accontentati. Per noi è stato un grande onore, abbiamo pagato un debito di cuore necessario.

Peter Norman, giusto?
Chi altri? Fu sua l'idea di dividerci un guanto a testa tra me e John. Fu lui a indossare lo stemma dell'Olympic Project For Human Rights. Arrivò secondo, medaglia d'argento. Per favore lo scriva perché in questo mondo di ipocriti smemorati c'è chi ha tentato di togliergli pure quel trofeo. Venti secondi ci mise, era il bianco più veloce che avessi mai visto. Pagò la solidarietà alla nostra causa per ogni giorno della sua vita in terra. Boicottato, cancellato, insultato. Solo dopo la sua morte l'Australia istituì il Peter Norman Day, cade il 9 ottobre, il giorno in cui se ne andò. Una modesta trovata per lavarsi la coscienza. Ciao Pete, ciao fratello, sappi che prego per te. (si commuove).

So che lei ha una persona speciale in Italia. Una persona alla quale tiene. 
E' mio figlioccio. Si chiama Andrew Howe Besozzi. Sono stato accanto alla mamma, Renee Felton, quando fu colpita da una malattia all'intestino. Una gran donna. E il ragazzo è bravo, è forte.

Lo chiamano il figlio del vento.
Come Carl Lewis, che retorica da quattro soldi.

Eppure parliamo di Lewis, l'uomo che disse che pur di non votare Bush si sarebbe fatto decapitare.
Meglio tardi che mai. Ha corso per loro, da bravo negro schiavo. Esattamente come Jesse Owens. Ha goduto dei loro privilegi.

In Messico la polizia uccise 600 studenti. Un particolare quasi trascurato dai media che ripropongono la storia delle olimpiadi. 
Fu una carneficina. Ricordo che nonostante ci fossero centinaia di giornalisti, furono in pochi a sottolineare l'orrore. C'era però  una brava cronista italiana. Fallaci mi sembra si chiamasse. Scrisse senza peli sulla lingua.

Ascolta musica?
Sì, certo. Anche qui in palestra per far dimagrire i ciccioni. Miles, Hendrix. Il mio preferito rimane Fela Kuti. Lo scriva pure.

Coach, lo rifarebbe? Dico quel pugno, la testa china durante l'inno?
Figliola, lo faccio tutti i giorni.

Daniela Amenta, 2002

mercoledì 5 marzo 2014

Dirty old town



Quando shane arrivò a roma, roma era in stato di grazia. era di primavera, era un cielo da cartolina con dei ritocchi blu cobalto da sembrare finti. uno scenario posticcio salutò l'arrivo di shane, garrincha del rock. era sbilenco e magro, con pelle chiarissima. la prima cosa che chiese fu un bicchierino. poi i bicchierini diventarono 3, 5, 100.

io facevo l'ufficio stampa del concerto che i Pogues avrebbero dovuto tenere al Tendaastrisce, città di Roma, non c'era nessuno ad  accoglierlo della casa discografica. lo accolsi io. mi consegnarono una valigia col cambio, hotel piazzale clodio. io con la valigia, lui con una bottiglia di gin nascosta in una busta di plastica.

uno che bevesse così tanto, appena sveglio, non l'avevo mai visto. uno che bevesse così di tutto. uno che non s'accontentasse del crepuscolo in testa che ti lascia una sbronza, il giorno dopo, ma avesse il bisogno di riaccendere di continuo gli special dell'ebrezza. gli tremavano queste mani bianche, come vestite da dei guantini di mohair con i pois delle lentiggini.

ma era un signore, shane. timido anche, divorato dentro da un'onda di tragedia apparentemente incomprensibile. incomprensibile perché aveva occhi di foglia, orecchie di Dumbo,  e quando cantava, col suo aspetto storto di garrincha-uccellino, c'era di che commuoversi.

si sporcò senza accorgersene, si fece la pipì addosso,  un macchia grande e poi se ne vergognò a lungo. e chiese scusa in diverse lingue. eravamo in un corridoio della rai, in via teleuda, c'era un programma tv e lui avrebbe dovuto eseguire un pezzo in playback. era tardi, ed entrammo nello studio che aveva dei puff e dei divani per ricreare un ambiente moderno e accogliente. il regista lo insultò, gli disse "piscione", shane capì perfettamente e arrrossì.  andai a cercargli il paio di pantaloni puliti nella valigia che mi avevano consegnato all'albergo di piazzale clodio.

il regista urlava di brutto, che era tardi, e che modi, e chi schifo portate a suonare, che gentaglia. shane sorrideva al pubblico-claque modernamente sdraiato sui puff. ecco i pantaloni puliti, signor regista. intanto shane si era procurato una bottiglia di fontana candida, non so come, forse alla mensa rai. il regista perse il controllo, disse al microfono (noi sentivamo la voce dall'alto, senza poterlo guardare in faccia. il regista era dio in persona, insomma), disse così: "fate sparire quella fottuta bottiglia e rassettate sto pezzente". E che cos'è il genio, cos'è la trovata, cos'è l'improvvisazione? Mentre partivano i titoli d'apertura del programma e il regista era fuori di sé, shane si calò i pantaloni sporchi e caldi di pipì davanti alle telecamere, mostrò un culo di pesca. Nel frattempo che dio impazziva e i tecnici applaudivano, si infilò quelli puliti e fece un balletto come fred astaire, sorrise felice e sdentatato  poi nascose la boccia in uno zainetto. e attaccò a cantare, niente basi, solo la sua voce.

Questa fece, 

I met my love by the gas works wall
Dreamed a dream by the old canal
I kissed my girl by the factory wall
Dirty old town
Dirty old town


Fu la rivolta del popolo degli abissi.  l'accogliente pubblico si spellò le mani, tremarono i puff e dio si vergognò  di essere stato maleducato e disonesto con il ragazzo senza denti.

Daniela Amenta