lunedì 28 ottobre 2013

Lou Reed, l'ultimo scavalco

Nel luglio del 2003 ero disoccupata. Nel luglio del 2003, il 24 luglio, Lou Reed suonò all'Auditorium di Roma. Pur di vederlo scavalcai. Questa la cronaca



trascuriamo il fatto che lou dimentica di lasciarmi un pass access all areas e che per arrivare a 40 mi mancano 35 euros. trascuro e provo il primo scavalco in stile, imboccando direttamente con l'auto presso l'ingresso tecnico e tentando il colpaccio seppur sul tavolo sia già stato calato un colore e io possieda only una coppia di jack.

l'omino della metropol, ligio al compito, mi ferma. ostento conoscenze altolocate, tal gianni bianchi - joe white se l'omino fosse stato d'albione - che m'attende con lo stesso mister reed direttamente nel backstage. mi dice male. perché il metropolman ha una fottuta radioricetrasmittente, e chiama ora salvo, ora lillo per accertarsi che l'inesistente gianni bianchi stia waiting proprio me. e mi fa perdere pure minuti preziosi, mentre la sottoscritta sbuffa annoiata, come a dire: "aho, ma te pare che te racconto na calla?" . dura quasi un quarto d'ora l'attesa al cancello tecnico, a base di america me senti?, senti salvo qui c'è na giornalista..., finché retromarcio e provo l'ingresso duro agratis, ovvero dall'entrata principale.

che lou reed mi stia aspettando, è chiaro. come arrivo parte street hassle, che riconosciamo in tre - io e altri due sficati posti al lato della cavea dell'auditorium - mentre il pubblico di merda (fate largo all'avanguardia - cfr opera omonima - antoni freak - bologna) sbadiglia e sonnecchia sotto il cielo stellato. l'ingresso duro è durissimo. un gentile ma ostico in doppiopetto grigio sbarra l'accesso anche a un babbo con creatura a carico: "lo vedi, lo vedi apapà? quello a tre quarti è lui, è lou(i)". le note inequivocabili di the bed m'impongono d'agire. m'incammino verso l'ingresso "super super special guest". mi ferma un altro in doppiopetto. "dove va?", fa minaccioso. "al concerto" , squittisco, "ah prego", commenta addentando pane e volpe.

m'inerpico. tento ingressi via toilette, via cantiere dove stanno sistemando piante e panchine. e proprio via cantiere, maledizione, m'imbatto in uno dei roadie di lou. alto, biondo yankee, auricolare, pantaloncini corti, pass plasticoso appuntanto sul notevole pettorale.
dice in perfetto romanico: "ma da dove s'embocca?". come da dove s'embocca? lei non lavora qui, non è un american boy?
ok, stringiamo portoghese sodalizio in un secondo. io non ho il biglietto, lui neppure, e non è il roadie di reed. 

strisciando come vermi, raggiungiamo finalmente la cavea. ci fermano di nuovo. il falsissimo roadie si finge marito a me (la mia signora necessitava di un quarto di mineral e ci siamo persi) e finally - in stile un uomo e una donna - ci accomodiamo sulle note di venus in furs. il pass che il giovinotto sfoggia è in realtà un gadget della omnitel.

non si sente una cippa, quantunque la locazione sia da 40 euros, centesimo più, centesimo meno. manca il drummer, ma c'è una batteriola elettronica, reed è in jeans e t-shirt nera, e la grandissima jane scarpantoni con violoncello suona elettrica e tesissima. segue fluorescente versione di dirty boulevard, con accompagno mimico del maestro tai-chi del Nostro. si strotolano: sunday morning unplugged, e all tomorrow's parties irriconoscibile, tutta di traverso, strozzata in gola. poi call on me sporca e malvagia, pura jazz poetry con the raven fino ad un'epocale set the twilight realing con mike rahtke alla guitarra, fernando saunders al basso e sua eccellenza the reed a spingere sui pedali di tutti i distorsori. fine. applausi. e bis. lou presenta anthony - voce d'angelo trans, un falsetto da coro bianco della sistina, struggente - e insieme acustici snocciolano candy says, perfect day e walk on the wild side che pare una cover dell'originale, tanto è sbilenca, obliqua.

buon concerto, se l'avessi seguito tutto per intero. avrei da discettare sull'acustica dell'auditorium di roma, e qualche rallentamento di troppo. ma sarei poco credibile, viste le circostanze.e infine. m'imbatto nel traffico dei gitanti di caetano veloso, gratis pure lui, in piazza del popolo. fra 10 giorni la capitale rimetterà il silenziatore. viviamo come le falene, solo d'estate. d'inverno ci s'accontenta di gerry scotty, e al massimo si sceglie di scegliere tra un sugo pronto knorr e 4 salti in padella.
portami via, lurid.


24 luglio 2003



venerdì 18 ottobre 2013

E le bambine si presero i paesi fantasma



Il comune di Baradili, fra le colline della Marmilla e le falde della Giara, è il più piccolo della Sardegna. Un luogo delizioso con 97 abitanti noto per i reperti medievali e la sagra del raviolo. Per far crescere la popolazione la giunta del sindaco Lino Zedda ha messo a disposizione dei papabili nuovi residenti tutte le opzioni deliberate dalla Regione a favore dei centri sottopopolati: trentamila euro a fondo perduto per la ristrutturazione di una vecchia casa del paese e 1500 euro per la nascita o adozione di un nuovo bambino (2mila dal secondo in poi). Requisito fondamentale: essere abbastanza giovani, trasferirsi a Baradili almeno per 10 anni, magari figliando. Per chi volesse approfittarne c'è tempo fino a luglio.

 Non è l'unico comune «bonsai» che cerca di invogliare anche i forestieri a mettere le radici nel proprio territorio. Il rischio infatti è quello di sparire. Entrare nella «black list» dei centri fantasma - sono centinaia in Italia - abbandonati dopo calamità o imponenti flussi migratori. Luoghi cancellati, cumuli di storia e memoria in rovina. A Riace, il paese calabrese noto per i Bronzi, il primo cittadino Mimmo Lucano ha così deciso di aprire le porte ai profughi. Se ne contanto in pianta stabile oltre 150, trenta sono bambini. Migranti fuggiti dal Senegal, dalla Tunisia, dalla Siria e l'Algeria impiegati come operai, contadini, sarte, sostenuti da un bonus a intermittenza erogato dalla Protezione Civile. Il progetto «Città Futura» è molto semplice. «Noi vi diamo vitto e alloggio gratis più un tot di euro al mese - spiega Lucano -. Voi in cambio lavorate e mandate i figli a scuola che così non rischia di chiudere». E non solo: grazie al tam tam solidale, Riace è tornata a essere frequentata perfino dai turisti.

Miracoli della solidarietà. La palma dei Comuni meno abitati spetta però al Nord: Lombardia e Piemonte. Qui, in provincia di Alessandria, nell'alta Val Borbera sorge Carrega Ligure, 90 residenti sulla carta ma una decina di fatto durante il lunghissimo inverno. La proporzione è di 1,5 abitanti per km quadrato, tra le più basse d'Italia. Anche in questo caso è stato il sindaco a provare a rilanciare le bellezze in dismissione di Carrega per non finire nell'elenco delle «Ghost Town», paesi morti, cancellati dalla carta geografica e dall'esistenza in vita. Così Guido Gozzano nel 2008, copiando l'idea di Sgarbi a Salemi, aveva annunciato urbi et orbi che a Carrega le case sarebbero state messe in vendita a un euro. Ruderi e cascine, nella maggioranza dei casi, appartenute agli emigrati che nel secolo scorso avevano attraversato l'Atlantico senza più fare ritorno. Con il supporto della Facoltà di Architettura di Genova nel 2009 sono stati censiti 400 immobili e in tanti - ma tanti - ne hanno fatto richiesta, persino l'università del capoluogo ligure e un'intera comunità new age di stanza nel Trentino. Il problema è che molti dei proprietari delle abitazioni sono morti in America senza lasciare eredi e senza effettuare la successione dei beni in Italia. Un affaire non facilmente risolvibile. Ad Alessandrianews Gozzano spiega l'inversione di rotta: «Dalle case a un euro passeremo alle case a poco più di un euro. L'amministrazione comunale non farà più la compravendita degli immobili ma semplicemente da intermediario tra proprietari di rovine e ruderi che intendono disfarsene anche a causa delle nuove tasse, e gli acquirenti desiderosi di una qualità della vita migliore rispetto a quella delle città».

 Il finale di questa storia, nonostante la buona volontà di sindaci e coraggiosi residenti, sembra scritto. Eppure le variabili possono essere sorprendenti, inedite, impreviste. Per esempio a rilanciare Pradeltorno, frazione di Angrogna sulle Alpi Cozie, è stato il famigerato Calendario Maya. O meglio una voce di Wikipedia che attraverso una serie di complicatissimi calcoli spiegava che solo il microscopico villaggio sarebbe stato risparmiato dalla fine del mondo. I catastrofisti non si sono fatti attendere, i giornalisti neppure. Risultato: titoli, servizi, reportage che hanno permesso di scoprire un gioiello verdissimo con un tempio valdese dove abitano 16 persone, quattro sono bambine. Hanno da tre ai nove anni. Si chiamano Erika, Cecilia, Asia e Matilde. Il domani di Pradeltorno dipende da loro. 

Ma non sono sole. A Morterone, nella comunità Montana della Valsassina, è nata il 23 ottobre Arianna, residente numero 37 del comune in assoluto più piccolo d'Italia. Per festeggiarla, sfidando la neve, si è mosso anche don Agostino, il parroco di Lecco, che ha fatto suonare a lungo le campane. E a Pedesina, in Valgerola sulle Alpi Orobiche, altro paesetto lillipuziano con 30 cittadini, ha appena festeggiato i suoi primi 7 mesi Sasha Belotti, figlia di Michele e Jessica. Sei bambine, guarda caso. Sei piccole donne alle quali spetta un compito arduo ma affascinante: evitare il deserto e scongiurare la fine di pezzi d'Italia. Noi facciamo il tifo per loro, ovviamente. Come cantava Lucio Dalla: «E se è una femmina si chiamerà Futura».

Daniela Amenta
L'Unità - Gennaio 2013

giovedì 17 ottobre 2013

Il re di Palmarola


Ora che ha chiuso gli occhi azzurrissimi per sempre, in un ospedale di Roma così distante dal mirto, dalla scogliera e dal bosco di lecci, anche la sua isola è più sola. Non ci sarà più nessuno a raccogliere gli asparagi selvatici, a camminare tra le pietre coi cani quando è inverno, più nessuno a vegliare quello scoglio bello, selvaggio nelle isole Pontine. Ernesto Prudente era il re di Palmarola, il sindaco autoproclamato e l'unico residente. Se n'è andato a 84 anni in una domenica di settembre. Era nato a Ponza nel '28, professione maestro. Una vita ad insegnare alle elementari di La Forna che negli anni Cinquanta c'erano così tanti ragazzini, fino a cinquanta per classe, che a stento entravano in aula anche la lavagna e la cattedra. Una vita a scrivere, almeno una trentina di libri che poi regalava agli amici o presentava al bar del porto, e a leggere, tanto che la casa è quasi una biblioteca e adesso che lo piangono tutti e che il sindaco ha proclamato il lutto cittadino, c'è anche l'idea di fare un piccolo museo in suo nome.
 Un Robinson Crusoe bizzarro, Ernesto Prudente. Naufragato per scelta semmai e che nonostante moglie, figli e nipoti a un certo punto decise di lasciare Ponza. Via, a Palmarola, un chilometro quadrato, sei miglia oltre. Ci restava per tutto l'inverno e la primavera. D'estate no. D'estate troppo casino, troppi motoscafi. Ne 1992 era riuscito ad ottenere la residenza facendo una battaglia personale e di principio. «Perché io quando c'è da sfidare la burocrazia e battermi per i diritti sto sempre in prima fila», raccontava, intercalando il fiume di parole con altrettanti «è vero», quasi a ribadire la giustezza del suo pensiero. 
Due cani per amici, una radio per parlare con i marinai e le navi di passaggio, una casetta di 30 metri dentro una grotta la Grotta dell'acqua - a 170 metri sul livello del mare. Poi, col tempo era arrivato anche un cellulare per chiacchierare la sera con la moglie, rassicurare i parenti. «Non mi manca niente qui. Sono innamorato di questo posto. È il mio posto, il più bello del mondo, è vero....». È vero, una vertigine Palmarola, con quei tramonti che tolgono il respiro, l'ossidiana che brilla tra le rocce e le pietre, l'odore di macchia mediterranea e salsedine. E il silenzio. Perfino Ernesto Prudente a volte ne aveva paura, e raccontava che pure i cani abbassavano le orecchie e rimanevano in attesa. Come una coltre quel silenzio, rotto solo dalle urla dei gabbiani e del mare. Tanto che neppure riusciva a scrivere il maestro, al massimo tradurre il Pinocchio di Collodi in ponzese. Al massimo.
 «E che fa Ernesto? Come lo passa il tempo?». Lui sgranava gli occhi blu, un po' meravigliato e sgomento. Perché cose da fare ne aveva, il maestro Prudente, alias presidente di Palmarola. Camminare, bere l'acqua piovana, prepararsi da mangiare e mettere sul fuoco il caffè, guardare il mare e ripassare la storia: le caverne del neolitico, le frecce con l'ossidiana, le piroghe dei marinai della preistoria fino a San Silverio Papa, morto proprio lì, nell'isoletta... Ripassare i ricordi. Che anche Ponza era stata terra di confine degli antifascisti. E lui era diventato socialista così, a farsi raccontare da quelli più grandi del paese le storie degli esiliati con la faccia seria, gente che si chiamava Pertini e Terracina, Di Vittorio e Amendola, gente per bene eppure guardata a vista da quelli con le camicie nere. Che tipo il maestro e re di Palmarola, vicino di casa della stilista Alda Fendi e amico di gente famosissima . 
Famoso anche lui, al punto che era riuscito a scrivere la Costituzione della sua isola, 46 articoli in totale, mica robetta. Omen nomen il signor Ernesto, che neppure con la bonaccia andava a pescare, che ci vuole un attimo a scivolare, farsi male, e bisogna essere prudenti «quando si hanno un po' di lustri sulle spalle». Meglio il tonno in scatola, o magari i polipetti tirati su dagli amici. Adesso che se n'è andato, sulla bacheca web di Ponza racconta lo salutano commossi e compatti i suoi studenti, i concittadini, i continentali che lo avevano conosciuto. «Era il padre nobile, era il maestro che ci ha lasciato i compiti a casa da fare, era il sindaco, il punto di riferimento». Ernesto Prudente, insegnante e sovrano, ora riposa senza corona vicino al mare. Il suo regno.
Daniela Amenta
L'Unità

26 September 2012

martedì 1 ottobre 2013

Il calcio ha una gonna rossa


Quando dicono che il calcio è morto, io penso a uno che si chiamava Garrincha, con le gambe storte e zoppe. Ma soprattutto penso a loro, le Cholitas. Le madri del Cholo, l’argentino Diego Pablo Simeone, e di tutti i meticci del mondo con le facce da ladro e la volontà di ferro.
Solo chi è Cholo - mezzo sangue – può sapere cos’è l’orgoglio. Ce l’ha impresso nel codice genetico, lo porta appeso nei tratti, nel profilo. Visi da mulo, zigomi schiacciati, nasi incollati alle guance. In America li chiamano “buckwheat“, cioè “grano saraceno”, spighe brune che servono a fare le pagnotte.

Le Cholitas, però, lo sanno bene che il calcio è vivo. E che talvolta lotta assieme a noi. Negli spalti di un qualsiasi stadio dell’universo. Nel cuore di un tifoso qualsiasi che esulta o che maledice la sorte e se stesso. Nella palla qualunque che entra in una qualsivoglia rete e che per un secondo firma l’apoteosi.
Le Cholitas, le donne ibride della Bolivia con la pelle scura e la treccia lunga e nera, lo sanno. Perché giocano al pallone. E’ l’unica squadra che da secoli si tramanda di madre in figlia l’arte del dribbling, della punizione e del calcio d’angolo.
Nel paese sull’altopiano, 3.800 metri sul livello del mare, c’è poco da mangiare. Terra secca con pezzi di pepite d’oro dentro. Ma quando si prova a coltivare il “buckwheat” degli States, il grano saraceno che rende dorata una fetta di pane, le zolle non vogliono saperne. Le Cholitas si spaccano la schiena. Portano acqua alle sementi, al cavolo e al pejote, pregano tutte le Madonne. Scavano, modellano la sabbia dura, gelata d’inverno, arsa d’estate.
Poi, alla domenica, fanno pace con i campi. E giocano. Il prato è di fango. Al posto delle porte ci sono due sacchi pieni di lana, due vasi di fiori, due buste con le pietre dentro. L’unico maschio consentito in gioco è l’arbitro. Gli altri stanno fuori, a guardare.

Dovreste vederle le meticce. Gonne lunghe, rosse. Scarpe rotte. Scarpe improbabili da ginnastica, legate coi lacci alle caviglie. Consunte, zozze. Troppo larghe, troppo strette. Oppure sandali di cuoio aperti, che il piede si rattrappisce solo a vedere i sassi.
E, insomma, le Cholitas si scaldano. E sulle gonne rosse, fino alla caviglia, spesso indossano maglie bianche ed azzurre. Per via del cielo, dicono. Non sono giovani, anzi. Ma il pallone è l’unico gioco consentito, lassù, dove l’aria pesante sconvolge. E più cresce l’età, più si accampano diritti e più è facile trovare un ruolo. Quindi giocano. Giocano nel fango, sotto un sole implacabile tanto è vicino.
Chi vince si porta a casa: a) un montone; b) un pallone; c) una lattina di Coca Cola. Primo, secondo e terzo posto in classifica. E gareggiano. E corrono per il sangue delle gonne rosse, e per il cielo delle maglie. Per uno spicchio di libertà guadagnato spingendo la palla oltre. Oltre le montagne, le rocce, l’orizzonte cupo, le nuvole spesse e il raccolto magro. Giocano, tirano, urlano gol che nella lingua dei meticci vuol dire “ci sono”. E tanto basta per prender fiato e mangiare a morsi il vento, e abbracciarsi come sorelle e ridere di niente.
In Texas, una squadra di professioniste di calcio femminile ha voluto chiamarsi “Cholitas”, in loro onore. Sono certa che le mezzosangue della Bolivia neppure lo sappiano. Ma ripetano il rito del pallone, indifferenti alle nostre regole. Un fischio dell’arbitro ed entri in campo. Tre fischi ed è finita. Sotto il prato che non c’è, si stende come un gatto pigro l’America Latina.
Le Cholitas tornano a casa.
Domani ci sarà ancora da zappare.

Daniela Amenta
(Per Zazie, 2002)