mercoledì 28 dicembre 2016

Il bello degli anni Ottanta

Ora che lo scorso Natale – Last Christmas – è stato consumato e che questo 2016 mefitico si sta finalmente chiudendo, ognuno potrà fare i conti con i propri ricordi e la playlist privata di canzonette e tormentoni. Ora che George Michael si “è spento serenamente” a 53 anni, per cause “ancora ignote ma non imprevedibili” – come recita il comunicato del suo agente – si potrà tentare di restituire dignità a una icona del pop mai entrata nella reale lista delle “british icons” (battuto perfino da Robbie Williams dei Take That, che smacco).
Cento milioni di copie vendute quando i dischi erano oggetti reali e non streaming liquidi, sette album ufficiali in studio (tre con gli Wham! e quattro da solo), e poi live, cover, duetti epici, soprattutto una smitragliata di singoli perfetti e video altrettanto laccati in una carriera durata effettivamente un ventennio. Questo in due righe era George Michael, ovvero Georgios Kyriacos Panayiotou, nato a Londra nel 1953 da padre greco-cipriota e madre inglese, capostipite delle boy band, il ragazzo con il giubbottino nero e il ciuffo impomatato che amava Lennon, Elvis, Stevie Wonder, il soul e il r&b, e che ha impiegato una vita a distruggere ciò che era stato per costruire un altro se stesso. Una vita spesa a farsi accettare senza pregiudizi, per citare quell'album del 1990 – Listen without Prejudice vol. 1 - , cambiare passo, bruciare il “chiodo” di pelle e il jukebox (come nel videoo di Freedom '90), cancellare la sua stessa immagine, imporsi solo come musicista piuttosto che come belloccio platinato.

George Michael non ha perso la battaglia: alla fine è riuscito a dire quello che voleva, a far tremare il pubblico con una voce notevolissima e un gusto per la melodia pop mescolata a elementi neri, a cantare con i più grandi del mondo e oggi, a farsi rimpiangere. Quel che ci resta, a parte gli album e le private memorie di ciascuno, è un uomo molto più complesso di quello che sembrava, alle prese con i propri demoni, incalzato dalla peggiore stampa britannica a caccia del mostro da sbattere in prima pagina, sfiancato dalle case discografiche e dai fan che lo avrebbe voluto cristallizzare nello stereotipo del giovanotto gaudente di Club Tropicana, modello di una rivista fashion a galleggiare in piscina. Si è ribellato spesso George Michael: alle regole, ai luoghi comuni, all'eterosessualità imposta dal Circo Barnum del pop. E ha pagato ogni curva presa ad alta velocità: il possesso e l'uso di droghe, l'andirivieni dai rehab e dalle aule dei tribunali, la guida in stato di ebbrezza, gli atti osceni in luogo pubblico fino a essere sbattuto in carcere. E poi ancora denunce, la causa con la Sony per essere finalmente padrone della sua musica, le lezioni degli altri colleghi gay – da Elton John a Boy George fino a Morrissey – che avrebbero voluto più esplicito e meno tormentato il suo outing, reso pubblico solo nel 1998 con Outside, singolo che gli costò altri guai con la polizia.

In realtà Michael fu meno effimero degli anni Ottanta che lo videro protagonista con Andrew Ridgeley del successo degli Wham!. All'epoca era appena maggiorenne, già surfista d'alta classifica in un microcosmo dorato e di plastica, a base di modelle scosciatissime, bicipiti in bella vista, capelli gonfi e ciuffi laccati. L'epoca dei Duran Duran e degli Spandau con Margaret Thatcher rieletta dopo la guerra delle Falklands e la Gran Bretagna costretta a fare i conti con una crisi economica da lacrime e sangue. Il new pop sembrava impermeabile a quei giorni durissimi, allo sciopero dei minatori, alla perdita del lavoro per migliaia di sudditi della Regina. C'erano i video di MTV a raccontare un mondo parallelo e inesistente come il set del Truman Show: barche, auto, cocktail e bella vita. Un immaginario lezioso contenuto in tre album e svariati singoli: da Bad Boys a Wake Me Up Before You Go-Go fino alla ballatona Careless Whisper. E poi addio Wham!, nell'87 George Michael inizia la propria carriera da solista con Faith, prende due Grammy, canta con Aretha Franklin, diventa la voce sfacciata della lussuria (I Want Your Sex), gioca con le ambiguità sessuali e pare impersonare la carne e l'estetica del pop. Ci metterà tre anni a crescere, a realizzare Listen Without Prejudice Vol. 1 dove decide di non apparire, con la pretesa di essere più musicista che star. Quindi in Freedom '90 brucia il famigerato giubbottino fa esplodere il juke-box e comunica al mondo di essere finalmente adulto. Il disco successivo arriverà sei anni dopo – Older – e l'ultimo ufficiale, il più lacerato e complesso nel 2004. Si intitola Patience, title-track composta con il pianoforte di Lennon (comprato e poi donato al Museo permanente in onore dell'ex Beatle) e una serie di riflessioni sulla morte: da Please Me Send Me Someone, dedicata come la bella Jesus To A Child alla memoria del compagno Anselmo Feleppa ucciso dall'Aids a My Mother Had A Brother per lo zio deceduto il giorno in cui George era nato. Come scrive Simon Hattenstone sul Guardian il concetto di finitezza lo ossessionava: aveva perso in sequenza l'uomo che amava, la madre, il produttore Phil Ramone e persino un cucciolo di Labrador, viveva da recluso in una casa a Highgate, nord di Londra, assediato dai fan e dai tabloid. “Gran voce (quando non aveva fumato troppo), grande cantautore (prima del blocco creativo), grande personalità (quando non era troppo fatto)”. Sopravvissuto per miracolo a un incidente, a una polmonite, agli stravizi, eppure “bad boy” fino alla fine con la ricerca di sesso occasionale nel parco di Hampstead Heath e l'abuso di sostanze, una scimmia sulla schiena che non riusciva a scrollarsi da dosso nonostante l'aiuto degli amici, Elton John in primis.
Ma che voce, appunto. Basta riascoltare la sua versione di Somebody To Love dei Queen nel tributo a Freddy Mercury o la plasticità con cui riusciva a duettare sia con Luciano Pavarotti che con Whitney Houston o Paul McCartney.

Nel 2011 parte il Symphonica Tour con tanto di orchestra al seguito e arriva immancabile anche un album di cover. Sembrava che George si stesse rimettendo in carreggiata, pronto per un nuovo disco con pezzi originali che, invece, non è mai arrivato. Sembrava che il ragazzo che aveva stigmatizzato la politica inglese e l'alleanza con gli Usa per l'uso dei missili Cruise avesse trovato il suo punto di equilibrio. Sembrava che il musicista che aveva donato i diritti d'autore di Last Christmas a Band Aid per combattere la fame in Africa, quello che aveva cantato per Mandela e sostenuto la ricerca per combattere il virus dell'Hiv, avesse ripuntato la bussola. Più forte, più solido, capace di fare i conti con un passato ingombrante e un futuro tutto da scrivere.
E invece per George Michael questo è stato il Natale definitivo, una festa feroce lontano dalla neve di quel video che ha fatto innamorare generazioni di ex adolescenti che sognavano commedie rose e vite perfette. E che ora lo piangono come si piange la gioventù perduta.

Daniela Amenta

(l'Unità 27 dicembre 2016)


sabato 12 novembre 2016

So long, sir

Lo sapeva bene Leonard Cohen. E ci aveva avvertiti. Lucido, concreto fino alla fine. Perché poi, solo i giganti, sanno affrontare con consapevole dolcezza  la  morte, mettere un piede nel paese sconosciuto narrato da Shakespeare, guardare il buio e volerlo perfino più scuro.  «Hineni, hineni, hineni», ripete tre volte Cohen nel suo ultimo disco, You Want It Darker. È il lamento  di Abramo che nella Bibbia consegna il figlio Isacco alla volontà di Dio. «Sono pronto, Signore», canta con quella voce che è catrame e miele bruciato, abisso delle scale tonali. Era pronto Leonard Cohen. Lo aveva scritto  in una lettera struggente a Marianne, la musa bionda,  suo grande amore, scomparsa a luglio. «È arrivato questo tempo in cui siamo entrambi molto vecchi e i nostri corpi cadono a pezzi (…). Sai che ti sono così vicino che se allungassi la mano troveresti la mia. Penso che ti seguirò molto presto. Addio mia infinita bellezza, ci vediamo lungo la strada». Lo aveva ribadito in una intervista, bellissima e feroce, a David Remnik pubblicata lo scorso 17 ottobre su The New Yorker: «È la condizione del mio fisico a limitarmi. Devo sdraiarmi spesso, ora. Il grande cambiamento rispetto al passato è la vicinanza con la morte. Sono una persona che cerca di finire quello che ha iniziato. E quindi sono pronto ad andarmene. Sento il Bat Kol (in ebraico è la voce divina, ndr), sembra dirmi “Stai perdendo troppo peso Leonard, stai morendo”. C’è una realtà  profonda accanto a noi, ogni tanto emerge. La percepivo perfino quando ero in buona salute, adesso la vedo con chiarezza».
Leonard Cohen, nato a  Montréal 82 anni fa, ha attaccato al chiodo l’inseparabile cappello, si è tolto l’impermeabile blu per l’ultima volta lunedì 7 novembre. I funerali sono stati celebrati ieri nel “suo” tempio,  alla Shaar Hashomayim Synagogue di Montréal, la congregazione a cui l’artista e la sua famiglia appartenevano: sia il  bisnonno di Leonard, Lazarus, che il nonno Lyon ne erano stati presidenti. Ad accompagnarlo il coro diretto dal cantore della Sinagoga,   Gideon Zelermyer, lo stesso che risuona melodioso e celestiale in You Want It Darker. La scorsa notte, infine, la famiglia ha dato l’annuncio ufficiale.

Quando per definire un musicista si ricorrere alla parola “poeta”, spesso si esagera. Non nel caso di Cohen che inizia la propria avventura proprio come tale, pubblicando nel 1956 la prima raccolta di versi, Let Us Compares Mythologies, seguita da Six Montreal Poets e da The Spice Box of Earth. E poi i romanzi - The Favourite Game e Beautiful Losers -  scritti nei giorni del vino e delle rose, a Hydra, in Grecia, con accanto Marianne bella come una sirena bionda.  Solo nel 1967 esce il suo primo album, Songs of Leonard Cohen, ha già 33 anni, lo spinge verso la musica Judy Collins, la prima a cantare Suzanne.  Lui ha imparato a suonare la chitarra grazie a un amico spagnolo («Solo flamenco, con una sei corde, mentre a me piacevano Robert Johnson, il jazz di Count Basie e Billy Holiday, il lirismo di Edith Piaf e Jacques Brel...», raccontò poi). È un disco intriso di malinconia, che parla di morte, di depressione.  Un album respingente inciso da un uomo conflittuale:  tutti temi, che con differenti toni e sfumature, Cohen svilupperà nel corso di una carriera tanto parca quanto mirabolante. Tra le molte leggende che si narrano sull'artista canadese  c'è quella degli studi di registrazione riarredati con il mobilio della sua camera da letto, perché Leonard si sentisse a suo agio e cantasse con facilità.

In 50 anni di carriera  solo quattordici album in studio, gli ultimi tre – Old Ideas, Popular Problems e il definitivo You Want It Darker realizzati tra il 2012 e il 2016 – come se l'urgenza di dire si fosse fatta impellente. Quattordici dischi come Songs From a Room (1969) che contiene Nancy e Bird On The Wire, Songs Of Love and Hate (1971)  con Famous Blue Raincoat , il corposo  New Skin for the Old Ceremony (1974) e Death of a Ladies' Man del 1977, che è uno spartiacque. Lavoro prodotto da Phil Spector  in cui appaiono, tra gli altri,  Allen Ginsberg e Bob Dylan.  E poi il resto, e da citare c’è almeno I’m Your Man del 1988,  e  canzoni come inni per cuori spezzati e anime gentili ma ribelli. Canzoni come Hallelujah, The Partisan, So long,  Marianne, Chelsea Hotel#2, Sisters of Mercy, Tower of Song o First We Take Manhattan che hanno prodotto cloni, versioni, incidendo nell’immaginario di una marea di musicisti a venire. E in parallelo l’attività di poeta e romanziere con Book of Mercy, The Energy of Slaves o Book of  Longing, tradotto in Italia come Il libro del desiderio tra versi luccicanti e piccoli, meravigliosi disegni.

Un’anima incomparabile Leonard Cohen, “l’uomo con l’oro in bocca” sopravvissuto alla depressione, cantore di gesti estremi e  disperati eppure capace di quella ironia yiddish con cui sapeva liquidare e irridere  gli eccessi degli Stati Uniti e dell’Occidente, languido come un gatto e brutale quando c’era da raccontare guerre disumane. C’è gente che danza, cammina, fa sesso,  piroetta e si ammala di amore infinito e  di tristezza nell’universo di Cohen. C’è un piccolo ebreo seduto nella terza fila della Sinagoga di Montreal che studia e prega, c’è un bambino di 9 anni che vede morire il padre e che per consolarsi sotterra nel giardino di casa il papillon del genitore e un frammento di carta dove descrive il proprio dolore.  C’è un giovane bello, con gli occhi blu, che fa impazzire le donne e che impazzisce per loro. C’è lo studioso della Bibbia  che cita re David, Betsabea e Sansone, affamato di letteratura, attraversatore indomito di un miscuglio formidabile di culture e stili di vita: dall’intimismo del folk al pacifismo hippie, dalla Beat Generation alla rivoluzione digitale del Terzo Millennio.
C’è Leonard il monaco Zen ordinato nel 1996, presso il Mount Baldy Zen Center, a 200 km da Los Angeles, con il nome di Jikan, il silenzioso. Anni di meditazione e patimenti («riflettere su se stessi non è mai una festa», disse) accanto al suo maestro, Sasaki Roshi.  C’è una star defilata, generosissima sul palco, ridotta quasi in miseria dalla ex  manager. Un fallimento  che lo costrinse a tour estenuanti e a quei tre dischi in pochi anni. Ma You Want It Darker, uscito a fine ottobre, non è esattamente un testamento. Semmai  l’ultimo atto di una parabola intensa, immensa in cui Cohen guarda già altrove, oltre il  mondo terreno, le umane miserie.  Polvere alla polvere.  La finitezza come paradigma dalla quale non si sfugge.  E anche in questa opera scura, scurissima  si trova una crepa che fa filtrare la luce e illumina la nostra fragilità dolente. Come scrivemmo recensendo il disco: «In You Want It Darker c’è lo Zen e l'arte di mantenersi onesto e consapevole, gestire la fatica e salutare ogni giorno come un piccolo dono. C'è la pazienza di fare i conti con il dolore e c'è la saggezza di guardare al passato con disincanto e tenerezza per giustificarsi un po'. Solo un po'».  
L’uomo che ha provato per tutta la vita  a essere libero come l’uccello che dondola sul filo della luce - Bird on the wire  - è riuscito nella missione.  A noi resta una torre di suoni e di parole, il conforto del suo sorriso e un alito di vento che alza l’orlo di un impermeabile blu.

So Long, Leonard.


Daniela Amenta l'Unità 12 novembre 2016




domenica 6 novembre 2016

I fotografi che fecero cantare il jazz: da Gottlieb a Leloir

Come un matrimonio riuscito, quei sodalizi strettissimi, imprescindibili. Senza dubbio una storia d'amore tra il jazz e la fotografia. Negli anni Trenta, Quaranta, Cinquanta, nell'epoca d'oro della musica afroamericana, i fotografi sono stati lo specchio degli artisti. Immagini fermate per sempre in un camerino, sul palco, dietro il proscenio o in quei Cotton Club dove il fumo si tagliava con una lama. Particolari rubati, ritratti, profili, il luccichio delle ance o dei pianoforti per descrivere un mondo di note scalpitanti che avrebbero investito l'intero Novecento.
Ritmi mai uditi, un lessico armonico scardinato dai canoni classici. Erano gli States
della guerra e della Depressione. E c'era voglia di ballare, di marciare, di urlare.
Sono state le immagini a raccontarci, al pari dei dischi, delle registrazioni, la storia di un suono, di un popolo e di una cultura che restano “graffio nell'anima”per dirla come Thelonious Monk.

Dal Dixieland alle Big Band, dallo swing al bebop, fino all'hard passando per il modale e alle improvvisazioni più spinte del free furono loro, i fotografi, a documentare quel magma mirabolante ed eterogeneo, quel «tipo di uomo con cui non vorreste uscisse vostra figlia», come amava ripetere Duke Ellington nel tentativo di definire cosa fosse il jazz. Una cattedrale di musica ribelle e meravigliosa figlia dei 
lamenti del blues, voce degli ultimi e dei diseredati. Ci sono fotografi che hanno inciso solchi come trombettisti, pianisti, sassofonisti. Hanno documentato ma soprattutto ridotto, assottigliato il solco razziale, cavalcando a loro modo la battaglia dei diritti, dell'equità, delle Sisters Rose che non avevano neanche uno strapuntino sui cui sedersi in quei tram sferraglianti dell'America del sud. Erano bianchi che fotografavano con amore i neri. E infatti nel dualismo cromatico che si fa memoria e immaginario, gli scatti sono sempre – per esigenze tecniche, storiche e un formidabile gioco del destino - in bianco e nero, con il nero che prevale come tinta e melanina. Complici e sodali di Duke, Billie, Dizzy, Louis, quasi sempre con una Leica al collo, spesso muniti di flash al magnesio che facevano un rumore infernale. Suoni entrati nei dischi come contrappunti ritmici, frammenti di sottofondo ambientale che irrompono nella scena, coordinate spazio-temporali e tuffi al cuore.

Dietro l'obiettivo gente come William Gottlieb, uno dei giganti della fotografia jazz, probabilmente il padre putativo del resto della banda, o Herman Leonard nato nel 1923 in Pennsylvania che nel 1948 lasciò la risacca dell'Oceano Atlantico per trasferirsi in Sullivan Street, Greenwich Village, New York. Fu qui, nei club arrampicati tra Broadway e Harlem, che immortalò le scarpe consunte di miss Holiday che per esibirsi doveva entrare dall'ingresso posteriore dei teatri, troppo negra anche per cantare. Oppure la tazzina di caffè di Ellington, il cappello bislacco di Lester Young, le mani d'ebano bellissime –di Miles Davis, e la stanchezza di Art Tatum. In parallelo, o con pochi anni di scarto, vennero Jim Marshall, 50 anni di carriera e un tocco magico, molto dopo arrivò anche l'ottica da 35 millimetri di Lona Foote, signora dell'avanguardia scomparsa troppo giovane e soprattutto William Claxton, californiano, classe 1927, pazzo di Chet Baker che definì “il James Dean del jazz”. A lui dobbiamo fotografie entrate nel mito, poster per le stanzette dei fanatici: Chet senza camicia, la tromba in mano, accanto ad Halima, giovanissima e splendente, che sarebbe diventata sua moglie e che lo guarda adorante. Era il 1955. Disse Claxton: «Ero affascinato da quella gente. Ognuno aveva il suo timbro e il suo temperamento. Erano ingenui, innocenti.Teste aperte. Eppure, allo stesso tempo, mostravano una disciplina ferrea, una dedizione totale per il loro mestiere. Ammiravo anche il loro individualismo, le differenze di carattere che si esprimevano in musica». 

Quando il jazz, negli anni Cinquanta, emigrò in Francia fu una deflagrazione anche per l'Europa. Tra i primi a tentare l'avventura lontano dall'America razzista fu Miles Davis, accompagnato da Tadd Dameron, Kenny Clarke e James Moody. Tra i locali di Saint-Germain des Près e Saint-Michel il trombettista di Kind of Blue perse la testa per Juliette Gréco e quel milieu esistenzialista, quell'aria nuova, accogliente, complice. Ed è qui che la macchina fotografica di Jean- Pierre Leloir, si trasforma in un totem, uno strepitoso archivio di sensazioni, note, passioni. Nato nel 1931 a Parigi,
Leloir fu davvero “l'occhio delle nostre orecchie”come lo definirono artisti del calibro di Edith Piaf, John Coltrane, Charles Mingus o Jacques Brel, George Brassens e Léo Ferré. Unosguardo ultraterreno. La sua biografia recita: «A 18 anni scoprì il jazz al liceo Carnot, ascoltando Sidney Bechet, Count Basie e Duke Ellington. Nel 1949, dopo il festival che riunì Charlie Parker e Miles Davis a Salle Pleyel, Leloir decise di interrompe gli studi per dedicarsi esclusivamente alla fotografia. Nel maggio del 1951 pubblica il suo primo scatto sulla rivista Jazz Hot Magazine. È il ritratto del pianista Jef Gilson, il primo di un centinaio a venire».

Ecco, ora quelle immagini sono parte di un progetto bellissimo, archeologia per “scatti”che torna alla luce grazie all'impegno e al coraggio di una casa discografica italiana, Egea Music, che ha usato i ritratti di Leloir come copertine di un catalogo poderoso: 50 Cd, più 50 Lp e un libro a “rivestire” con abiti sorprendenti alcuni degli album più iconici e cruciali della storia del jazz. Opere come Lady Sings The Blues di
Billie Holiday, Sketches of Spain di Davis, il Porgy and Bess reinterpretato da Ella Fitzgerald o Nina Simone che canta Ellington, Affinity di Oscar Peterson, Armstrong con Duke o le session di Coltrane. O, ancora, Portrait in jazz, con Bill Evans già dipendente dalle droghe, perso in un cappotto troppo largo, piegato sui tasti del pianoforte come un Cristo al martirio. Materiale completamente rimasterizzato, molte foto inedite che rafforzano, se possibile, il valore di suoni immortali.

Non sono scatti in studio ma momenti di vita quasi “rubati”tra aeroporti, bar, piscine, camerini. Leloir se n'è andato nel 2010 lasciandoci un'eredità pazzesca: migliaia di
rullini, moltissimi a colori, e un testamento che vale come lezione per i fotografi del futuro: «Ho amato le persone che ho fotografato ed è così che mi sono messo a loro disposizione, ma nella maniera più discreta possibile. Non ho mai pensato di essere un paparazzo, ho voluto che gli artisti dimenticassero la mia presenza in modo da poter catturare certi piccoli attimi inaspettati». Nel libro che accompagna questo catalogo mirabile, parla tra gli altri il produttore Jordi Soleil. Che spiega: «Unire le immagini di Leloir a dischi già pubblicati con le proprie copertine, dischi che sono pietre miliari del jazz è un'operazione culturale rischiosa ma eccitante. La personalità del lavoro di Jean-Pierre è così forte che una volta che abbiamo avuto tutte quante le fotografie sul tavolo ci siamo resi conto con chiarezza che il catalogo di dischi poteva benissimo rappresentare la collezione ideale non solo per gli appassionati di buona musica ma anche per coloro che amano l'arte e lo stile». E tra gli scatti di questa raccolta che toglie il fiato tanto è bella, sembra di incontrare davvero lo sguardo di Leloir, gentiluomo francese con la pipa. Immagini che suonano, vibrano mentre Parigi torna a cantare “i graffi dell'anima”.

Daniela Amenta
6 novembre 2016 - L'Unità


Il corpo del rock

Il 4 novembre al Museo di Brooklyn, New York, è prevista un'esibizione di Iggy Pop. Anzi, meglio, “exhibition”, termine anglofono che sta ad indicare una mostra piuttosto che uno show. In programma non ci sono i quadri del padre putativo del punk ma 107 disegni che lo ritraggono nudo. L'idea di trasformare il corpo della star più iconoclasta del rock in un'opera d'arte è venuta a Jeremy Deller, artista inglese e sporadico frequentatore della Factory di Andy Warhol. Un progetto inseguito da tempo finché a 69 anni, “abbastanza vecchio per posare”, Pop si è spogliato concedendosi allo sguardo di 22 pittori. Il risultato è uno studio quasi anatomico del fisico del musicista: le pieghe sui fianchi, le rughe sul collo, il torace non più teso come quando nel 1969 cantava/urlava/inveiva No Fun.
In mezzo secolo di carriera Iggy Pop non ha smesso mai di sovvertire il comune senso del pudore. Sul palco si è tagliato le vene e ha offerto il sangue al pubblico come un Messia sacrilego, ha tirato giù la patta dei pantaloni, è rimasto senza mutande, ha mostrato senza alcuna vergogna le vene secche della braccia dopo anni di eroina. Sesso, provocazione e non solo. La fisicità con Iggy diviene metalinguaggio: totem ed estensione del messaggio sonoro. Spiega Jeremy Deller: “Il modo con cui manipola il suo corpo, lo ostenta, lo piega e lo strapazza è un modo per comunicare. E' musica, è un'onda di carne. Di lui ci sono migliaia di foto. Ma ho pensato che Iggy andasse guardato in modo diverso, come un'opera d'arte ”. Così al Museo di Brooklyn, accanto ai nudi del musicista del Michigan, ci sono sculture sulla figura maschile che arrivano dall'Africa e dall' India, disegni di artisti come Egon Schiele e Max Beckmann e fotografie di Jim Steinhardt e Robert Mapplethorpe.
Il corpo, dunque. Il corpo nel rock è una costante, una categoria. Scrive Ian Chambers in Ritmi Urbani (Costa & Nolan, 1986): “E' il corpo che in definitiva produce la musica, ne fruisce e reagisce ad essa. Ed è il corpo che connette suoni, ballo, mode e stili con il riferimento inconscio della sessualità e dell'erotismo. Qui, dove fantasia e realtà formano un tutt'uno, il senso comune è spesso ridicolizzato, disgregato e distorto”.
Nell'immaginario collettivo in principio il corpo fu quello di Elvis Presley. Non a caso detto “The Pelvis” che con quel suo roteare il bacino come in un amplesso fece alzare il livello ormonale di tutta l'America. Il primo re del pop che negli anni Cinquanta seppe saccheggiare i ritmi, la sensualità del rhythm'n'blues e a servirli come canzonette da alta classifica. Un decennio dopo James Brown si riprese quello che apparteneva di diritto al Dna della sua gente fino a dichiararsi nel 1970 la “Sex Machine” per eccellenza e dettare lo stile a personaggi come Michael Jackson e Prince. L'altro punto di rottura, l'altro corpo maiuscolo, definitivo, è quello di Jim Morrison, leader dei Doors. Alla fine degli anni Sessanta si autocelebra come il “Re Lucertola”: estremo, visionario, poetico e maledetto. Bellissimo. Viene arrestato per aver mostrato i genitali in pubblico, ed è il moderno Dioniso che ribalta ogni regola, la rappresentazione carnale dell'inno cantato da Ian Dury nel 1977: “Sex, drugs and rock'n'roll”. Frank Lisciandro in Diario Fotografico (Giunti 2007) scrive di Morrison : “In scena era come un festante dionisiaco, cantava dei miti moderni, e come uno sciamano evocava un panico sensuale per rendere significative le parole di questi miti”.
Il terreno è fertile, d'altra parte. I grandi raduni di Monterey (1968), l'Isola di Wight (1968) e Woodstock (1969) stabiliscono che il rock non è solo fenomeno di massa ma lo scenario giusto per ratificare la rivoluzione sessuale, politica e culturale di quegli anni affollati e affamati di liberà. Gli anni di Jimi Hendrix e di una chitarra che è insieme vaginale e fallica, quelli degli Stones e di Mick Jagger, tentatore come il demonio, la bocca più vorace della scena musicale del Novecento. Da Robert Plant degli Zeppelin a Roger Daltrey degli Who è una gara di addominali e bicipiti scolpiti, pantaloni che fasciano e lasciano intravedere erezioni mentre Frank Zappa, come un satiro, stende ad asciugare tra gli amplificatori gli slip delle adolescenti in fregola. Altro che urla e lacrimucce per i Beatles...
In scena si ammicca pesantamente, le canzoni hanno testi fin troppo espliciti. In contemporanea col machismo estremo, un'altra corrente di suono e pensiero gioca con l'ambiguità di genere: il Glam si prende la rivincita sulla virilità ostenatata e attraversa il dualismo maschio/femmina tra piume di struzzo e mascara pesante. Così Bowie è il transgender perfetto, Lou Reed il vizioso per eccellenza, Marc Bolan, Alice Cooper e le New York Dolls la pantomima dell'eros, i Roxy Music un mix tra dandysmo e fantasie patinate e Freddy Mercury il pirata sognato da Genet.
Sul palco non c'è più solo una rockstar ma l'espressione stessa del desiderio, corpi che cantano, e non è casuale che fino all'inizio degli anni Settanta la fisicità sia tutta relegata ad un ambito maschile. E' solo con il punk e grazie anche alla consapevolezza del femminismo che le donne si trasformano da performer in soggetti attivi: carne, sangue, linguaggio, look. Analizzando la scena inglese nella metà degli anni settanta Dick Hebdige in Sottocultura (Costa & Nolan, 1990) conferma l'elemento consapevolmente trasgressivo : “Lo stile va contro natura, interrompendo il processo di normalizzazione e offendendo la maggioranza silenziosa”.
Il punk, in questo senso, spariglia ancora di più carte, usando quello che Vivienne Westwood definirà “abbigliamento di sfida”: catene, lattice, feticismo e sadomasochismo mescolati com mutandoni e svastiche. La perversione al potere e il corpo che diventa reato. Poly Styrene, Siouxsie o le Slits di Ari Up sembrano uscire dal retrobottega di un pornografo strafatto. Dall'altra parte dell'oceano Poison Ivy dei Cramps e Wendy O. Williams dei Plasmatics sono due furie dell'eros sfacciato mentre Deborah Harry dei Blondie tiene fede al suo passato di ex coniglietta di Playboy. Ma, come annota Dave Laing in Il Punk – Storia di una sottocultura rock (Edt, 1991), tutte loro, in diversi modi “disinnescano l'effetto eccitante previsto dall'esposizioni delle connotazioni proibite (…) I pantaloni bondage, le spille di sicurezza e le borchie erano elementi che appartenevano, sia sul palco che in strada, allo stile del punk di entrambi i sessi. (…). E forse la rottura con le forme convenzionali di abbigliamento fu più importante per le donne che per gli uomini”.
Il corpo del rock, nel tempo, è stato sovvertito, estremizzato, negato o amplificato a dismisura. Dagli sculettamenti della disco al testosterone dell'hip hop, dal monacale luddismo del grunge ai paradossi mascherati e la negazione dell'identità di personaggi come i Devo, i Residents, i Kraftwerk, fino ai violentissimi esperimenti di carne di Genesis P-Orridge, dalla anatomia pompata e scolpita dell'hardcore, Henry Rollins in testa, alla fisicità virtuale dei ritmi digitali e della musica liquida. Oggi quel “corpo” appartiene quasi esclusivamente alla popular music d'alto bordo, parte del business più che linguaggio.

Ma difficilmente gente come Lady Gaga entrarà in un museo come opera d'arte. Questo è un privilegio che lasciamo volentieri a Iggy Pop, rughe e cicatrici comprese. 

Daniela Amenta 
L'Unità 25 ottobre 2016

venerdì 21 ottobre 2016

Cohen (Leonard) splende nel buio

A una settimana dal Nobel assegnato a Bob Dylan irrompe, come un segno del destino o la soluzione dell'enigma, la nuova opera di Leonard Cohen. Esce ufficialmente oggi in tutto il mondo You Want It Darker . E' il quattordicesimo album in studio dell'artista canadese in mezzo secolo, il terzo in soli quattro anni. Segno che l'urgenza di dire è diventata pressante, la sensazione del tempo che scivola grandioso si impone come un Moloch e la visione del futuro si è fatta stretta anche per questo gigante della musica e delle parole.
Cos'è è la letteratura? Cos'è la poesia? Le domande che si sono posti gli scrittori in crisi di identità di fronte al tributo dell'Accademia di Svezia all'autore di Duluth, rimbalzano tra i solchi e le pieghe anche di questo disco, che è in fondo la summa del Cohen pensiero. E' forse azzerare i concetti di cultura alta e bassa, saper interpretare lo Zeitgeist di un'epoca, riempire di poetica ed emozioni il cuore di generazioni, sintetizzare miliardi di letture, suoni, tradizioni in una canzone, ovvero pochi minuti di pura estasi? Se è così – ed è probabile che sia così – un pezzo del Nobel guadagnato da Bob va di diritto anche a Leonard. Dylan lo sa bene: ha sempre trattato Cohen con i guanti bianchi, ammirato e soggiogato dal fascino colto eppure così carnale di questo signore nato in Canada 82 anni fa. “Sei tu il numero 1”, ebbe a dirgli. Fino a paragonarlo per talento compositivo e genio sonoro a Irving Berlin, uno dei più grandi compositori del Novecento.
Due storie in parallelo. Ebrei entrambi, entrambi erranti e inquieti. Ma se con gli anni Cohen ha trovato il punto di equilibrio e sa nutrirsi dell'amore incondizionato del suo pubblico, Dylan è ancora alle prese con il concetto di infinito – The Never Ending Tour – e con un'anima ostile, difficilmente domabile.
Ecco, l'infinito e la finitezza. Questa è la frattura tra i due. Per dirlo con uno dei versi di Leonard: “C'è una crepa in ogni cosa e questo è il modo in cui la luce può entrare”.
C'è, dunque, luce in un disco che già dal titolo tende verso l'oscurità, gli abissi, il buio? You Want It Darker, a dispetto delle apparenze, è un'opera che sa trovare crepe e struggenti bagliori luminosi nella fragilità dolente della mortalità. A cominciare dalla title-track scritta da Cohen e dall'amico Patrick Leonard. La voce del canadese è ormai catrame, fondo delle scale tonali. Ripete in ebraico: “Ineni, ineni”, le parole di Abramo nella Bibbia. Le traduce in inglese: “Sono pronto, Signore”. Lo accompagna, a dare spessore mistico, il coro della Sinagoga di Montreal. E' un pezzo fascinoso, doloroso. Ma non è un addio. E' solo consapevolezza quella di Leonard Cohen.
In questo anno maledetto altre due opere importanti hanno affrontato il tema della morte: Blackstar di David Bowie e Skeleton Tree di Nick Cave. Nel primo caso si è trattato di un testamento d'arte, furente e alchemico. Nel secondo il lutto del padre “orfano” che vede seccarsi l'Albero della vita descritto nella Cabala e frantumarsi al suolo il suo frutto più bello. Qui, in You Want It Darker, Cohen narra il distacco cosciente, lucido e dolce, dal mondo terreno. Come se la lettera scritta alla sua musa, il suo grande amore Marianne scomparsa a luglio, trovasse in questo disco la necessaria compiutezza. “E' arrivato questo tempo in cui siamo entrambi molto vecchi e i nostri corpi cadono a pezzi (…). Sai che ti sono così vicino che se allungassi la mano troveresti la mia. Penso che ti seguirò molto presto. Addio mia infinita bellezza, ci vediamo lungo la strada”.
La strada è segnata dalla poetica dei chiaroscuri di Leonard: una chitarra malinconica, violini, voci femminili, ballad. E il nostro “chazan” che ci prende per mano per mostrarci gli angoli più intimi e segreti dell'umana finitezza: “Milioni di candele accese per l'amore che non è mai venuto” oppure “Ho lottato con alcuni demoni, erano dolci e borghesi. Io non sapevo di avere il permesso di uccidere e mutilare”. Così in Treaty si confessa e non si assolve: “Solo uno di noi esisteva, ed ero io” e in On The Level ammette ancora le tentazioni di un vecchio, vinto però da “una bestia addormentata”.
C'è l'ironia yiddish in
You Want It Darker, gli studi religiosi, la pazienza buddista, lo Zen e l'arte di mantenersi onesto e consapevole, gestire la fatica e salutare ogni giorno come un piccolo dono. C'è la pazienza di fare i conti con il dolore e c'è la saggezza di guardare al passato con disincanto e tenerezza per giustificarsi un po'. Solo un po'. In una bellissima intervista a David Remnik pubblicata lo scorso 17 ottobre su The New Yorker, Cohen spiega il senso di questo disco e molto altro ancora con una semplicità che disarma, offrendo al giornalista biscotti, vino, pollo e succhi di frutta. “Oggi vivo una situazione particolare. Ho meno distrazioni di un tempo. Non devo preoccuparmi di mantenere la mia famiglia, posso leggere e comporre, o mettere in ordine la mia casa che è una pratica simile a un potente analgesico. I miei figli abitano accanto a me, ho un assistente che mi aiuta, qualche buon amico. Sono un uomo benedetto. E' solo la condizione del mio corpo a limitarmi. Ogni tanto devo sdraiarmi...”.
Più volte nell'album Leonard ribadisce il concetto di abbandonare il tavolo, uscire dal gioco come in
Leaving The Table. Lo dice e poi, nel brano successivo, If I Did'nt Have Your Love, si contraddice e ci spiazza con una canzone d'amore, e poi ci confonde ancora con Traveling Light, il viaggio di un uomo alla ricerca della solitudine. Tutti gli umori, i temi, i segni di una vita si mescolano in questo affresco potente, mistico e terreno come solo Cohen sa essere. La fede che va e viene in It Seemed The Better Way (“Alza questo calice di sangue, prova a dire una preghiera di ringraziamento”) e il coraggio per affrontare con dignità le tenebre mentre di nuovo, si accende, in lontananza una fiamma che trema e incanta in Steer Your Way che ha, addrittura, movenze gioiose e che, in forma di poesia, è stata pubblicata proprio da The New Yorker a giugno. Chiude l'opera, che è prodotta dal figlio Adam Cohen, String Reprise, rivisitazione di Treaty con quartetto d'archi.

Non si chiude, invece, la parabola del “bel perdente” che con You Want It Darker ci regala note e parole materiche su cui riflettere e la certezza della polvere di cui siamo fatti. Il resto è un uccello che dondola su un filo, per citare Bird On The Wire del 1968, e la straordinaria bellezza di un uomo che ha impiegato una vita a cercare di essere libero. Fino a riuscirci.


Daniela Amenta
(L'Unità, 21 ottobre 2016)


martedì 27 settembre 2016

Nick Cave dentro la stanza del figlio


Bisognerebbe provare a trattare Skeleton Tree, sedicesimo album in studio di Nick Cave, allontanando l'ombra di Banco shakespeariana che aleggia torva e inquietante. Raccontarlo come fosse un disco qualsiasi nella storia di questo artista furibondo e maledetto, nato in Australia 59 anni fa. Ma Skeleton Tree non è un disco qualsiasi, purtroppo.
Bisognerebbe provare a narrare l'epopea di Nick – dagli esordi esasperati tra punk e rumorismo al calor bianco fino alle riletture bibliche, passando per le poesie, gli inni iconoclasti, il carisma “nero”, le droghe e i draghi – saltando la cronaca. Ma la cronaca si ferma al 14 luglio del 2015, il giorno della morte drammatica di Arthur, figlio adolescente di Cave e della modella-stilista Susie Bick, volato dalla scogliera di Brighton forse sotto effetto di un acido.

Skeleton Tree non è un disco sul dolore. E' semplicemente un'opera pervasa dal dolore. Cave aveva iniziato a scrivere i pezzi prima della tragedia, ma come si intuisce dal documentario One More Time With Feeling (nelle sale italiane solo per due giorni, oggi e domani) quanto è accaduto ha cambiato la direzione della musica, dei testi, dell'intera atmosfera.
Nick Cave, dunque. Oltre trent'anni di suoni nel segno dell'Apocalisse e degli eccessi, deragliamenti sentimentali e sonori. Una scrittura febbrile e torbida tesa verso la perenne ricerca del divino nelle miserie terrene o di un Cristo trascendente a dargli pace, a frenare le frane, attutire il tonfo disperatamente umano di Nick, The King Ink che osò sfidare il cielo.

Nessuno dei 15 dischi che precede Skeleton Tree è facile, confortante. In tutti, con diversi gradi, è presente il concetto di morte, sofferenza, finitezza. Ma se nel passato Cave utilizzava anche i miti letterari per comporre i suoi affreschi tragici – da
Huckleberry Finn di Twain alle epiche Murder Ballads, da Spoon River fino a William Blake e alle pagine più crude e cruente della Bibbia – questa volta non esiste mediazione, escamotage culturale. Il re è nudo, e piange. Piange il figliol prodigo, The Good Son, probabilmente l'erede prediletto (Cave, per la cronaca, ha altri tre figli, tra cui Earl, il gemello di Arthur).

Quaranta minuti di musica che iniziano con l'invettiva di Jesus Alone, dai timbri Morrisoniani, la lunga, faticosa di The End del Terzo Millennio, e si chiudono con l'orazione funebre contenuta nella title-track, Skeleton Tree, ovvero l'albero scheletrico. Nella Cabala ebraica l'esistenza tutta è sintetizzata proprio in un arbusto, che ha radici affondate in terra e rami protesi verso il cielo. Una metafora alchemica che Cave spoglia. Via le foglie, via la linfa. Rimangono un padre e una madre a fare i conti con il dolore peggiore: essere sopravvissuti al proprio figlio, e quindi al significato stesso di futuro. I suoni sono anche essi ridotti all'osso, minimali, spettrali, con archi e sintetizzatori orchestrati da Warren Ellis, infernale genio sonico dei Bad Seeds, la band di Cave.

Un disco ostico eppure fascinoso, magnetico, non il migliore nella discografia complessa di Cave, ma cruciale. Uno snodo. Dove Nick canta: “Sei caduto dal cielo, precipitato su un campo vicino al fiume Adur. (…) Con la mia voce ti sto chiamando”. Dove le parole “amore” e “bisogno” sono ripetute all'infinito e la tregua è segnata da Distant Sky, con la celestiale voce del soprano danese Else Torpe e Girl in Amber, forse entrambe dedicate alla moglie Susie.

Quello che è sottinteso in Skeleton Tree diventa manifesto in One More Time With Feeling, il documentario firmato da Andrew Domink, il regista neozelandese amico di vecchia data. Tra i due perfino una fidanzata in comune, Deanna, celebrata da Nick con un pezzo fiammeggiante su Tender Prey (1988). Nulla è concesso a Cave in questo manifesto terribile, tridimensionale, in bianco e nero, girato tra lo studio dove è stato registrato il disco e la casa di famiglia dell'artista

Brighton, sud della Gran Bretagna, luogo di ferie e tomba della Redenzione. Se il disco suggerisce, nel film il lutto esplode attraverso le parole spezzate, l'imbarazzo, la fragilità di una rockstar che si guarda allo specchio e dice: “Quando mi sono venute queste occhiaie? Quando sono invecchiato così tanto? Sono diventato oggetto di pietà, la gente mi ferma per esprimermi solidarietà. E io non so se piangere, abbracciare, essere maleducato. Non so come sintetizzare quello che ci è accaduto oltre una perfetta banalità. Non so come comportarmi e questo non è da me. Non so raccontare, mi sembra di non essere rispettoso con Arthur. Potrei portare il mio punto di vista, quello di mia moglie, ma non il suo. Capite?”.

Così la stanza del figlio si intravede appena in One More Time With Feeling: un cuscino con il nome del ragazzo scomparso, due skateboard, scarpe da ginnastica. Susie mostra un quadretto disegnato da Arthur quando aveva 5 anni: è la scogliera dove ha trovato la morte. Sussurra a Nick mentre la cinepresa filma impietosa: “Mi sta venendo da piangere”. Lui le tiene la mano, sotto il tavolo. Sembrano due naufraghi, due vite spezzate che cercano di salvare un grande amore, una bella, invidiata, famosa famiglia.

E dunque One More Time With Feeling narra il deragliamento che lascia il vuoto, quella sindrome da superstiti che colpisce chiunque si trovi ad affrontare la catastrofe. Non esistono parabole, non ci sono né Abramo, né Isacco. Nulla brilla. C'è solo la luce agghiacciante di una “stella nera”, per citare Bowie. E fa riflettere che due delle opere rock più attese dell'anno abbiano in comune la desolazione della fine.

Del performer aggressivo, sfacciato è rimasto ben poco. Nick è infastidito dalle domande del regista, incalzanti, ma non sa difendersi. E' spaventato, quasi non trova le parole. E viene da chiedersi perché abbia accettato di dare la propria anima derelitta in pasto al pubblico. Quale catarsi possa provocare una pellicola che sguazza nella sofferenza, si sofferma sugli sguardi devastati dei protagonisti, sulla musica che non consola. Nessuna terapia. Semmai One More Time With Feeling sembra la via tortuosa di un'espiazione rispetto a un divorante senso di colpa “Quando ci siamo distratti? Come è potuto accadere?”, si chiede ad un certo punto Nick Cave. E soprattutto ammette: “Un grande trauma non aiuta il processo creativo, anzi lo affossa, toglie energie, diventa una specie di recinto dentro la testa. Ci ritorni di continuo. La vita non è una storia”

E in questo ha ragione. La vita spesso non è una storia. O almeno non quella che abbiamo sperato di poter raccontare. 

Daniela Amenta
27 settembre 2016, da l'Unità

sabato 23 luglio 2016

Na specie di Gig Robo'

Ad alcuni fortunati  la rivista 8 1/2  dell'istituto Luce/Cinecittà chiede di riscrivere  un film in chiave romanzata.
Questo è il mio. 







Ceccotti Enzo salì sul Colosseo. Dall'alto controllò ancora una volta la città. Nonostante l'aria

gassosa, torbida, carica di polveri sottili e smog, riconobbe ogni cupola, i profili dei monumenti. Il

nitore incandescente, volgare, dell'Altare della Patria, i bagliori verdi del Pantheon, il cerchio dello

stadio Olimpico, perfino la Madonnina d'oro di Montemario vide, e la salutò con rispetto,

facendosi il segno della croce. “Ave o Maria”, mormorò in un imprevisto fremito mistico che quasi

lo commosse. Contò i gabbiani, ma quanti so' pensò Ceccotti Enzo. “Troppi, dovrebbero sta al

mare e invece pure loro hanno invaso 'sta città. Siamo circondati da civiltà nemiche. Qui chi arriva

s'accomoda e a noi de Roma ce tocca de sta' al palo”. Uno degli uccelli, grosso e muscoloso, con il

becco giallo e gli occhi spiritati, iniziò a volteggiargli attorno. Ceccotti Enzò allungò il dito, pensò

che l'avrebbe potuto fulminare con una semplice scarica elettrica, uno dei super poteri che la sorte

gli aveva consegnato dopo un tuffo nel Tevere. E mentre rifletteva se fosse il caso di allontanarlo o

di finirlo, il gabbiano si alzò in volo, prese la mira e gli lasciò un “ricordino” sulla spalla. Poi

scappò via, sghignazzando come un criminale. “Mortacci tua, se te ripresenti te faccio arrosto con

il laser perforante”, urlò Ceccotti, tornato in sé dopo la momentanea parentesi mariana,

L'alba era diventata giorno, intanto. E la luce si era impadronita della città. Il riverbero che saliva

dall'asfalto di via dei Fori Imperiali era così luccicante, e denso, che Enzo si infilò un paio di

occhiali scuri, simil Ray­Ban. Erano, nella realtà, un nuovo prototipo di maschera che potenziava i

raggi gamma e moltiplicava la vista, come se avesse due telescopi al posto delle lenti. Provò a

cercare nello skyline le torri di casa sua, le “towers” di Tor Bella Monaca. Ma nonostante gli sforzi

non le trovò. “Pure la tecnologia alla fine ce molla, non è più quella de un tempo” ragionò con una

punta di amarezza Ceccotti Enzo, detto Jeeg. Si concentrò allora su San Pietro, a un passo

quell'anello tondo, tozzo, con le fondamenta piantate nel fiume: Castel Sant'Angelo. Tentò di

scartabellare tra i files della memoria, ai tempi della scuola media in via dell'Archeologia quando

l'insegnante, la professoressa Bellini Maria, spiegava alla classe la storia di Roma e Roma

sembrava lontanissima, un'altra città, mille chilometri distante da quell'aula scrostata, dai banchi

vecchi, ricoperti di scritte incise coi coltellini. Castel Sant'Angelo era forse stata una prigione?

C'era un fosso con i coccodrilli? I detenuti morivano di fame in segrete buie e terribili circondati da

topi e pipistrelli? E quelli che sopravvivevano agli stenti finivano sotto la scure di Mastro Titta

mentre il pubblico applaudiva? “Me sa de sì” sussurrò Jeeg Ceccotti. E penso anche che la città

che si allargava come un tumore maligno sotto le sue scarpe di camoscio era sempre stata feroce.

Cattiva e dura. E implacabile con i deboli, con chi come lui avrebbe voluto studiare, che a scuola

andava pure bene, ma non c'erano soldi a casa, non c'erano sogni. E suo padre era stato chiaro:

“Trovate un lavoro, che qui semo in sette. E io non ce la faccio a sfama' tutti”. E a 15 anni aveva

iniziato a lavare tazzine al bar, poi allo sportello della Sala Corse, poi ragazzo di fatica allo

smorzo, poi pure qualche scippo col motorino truccato, tanto per arrotondare. E i guai con le

guardie, i tre gradini di Regina Coeli percorsi avanti e indietro più volte.

Socchiuse gli occhi a fessura e inquadrò il carcere sul Lungotevere. Chissà se là dentro c'erano

ancora gli amici della banda del Raccordo, quelli delle corse illegali a 200 all'ora puntando sul

primo che si schiantava... “D'altra parte – si disse – sto proprio sul Colosseo, chissà quanto sangue

hanno visto 'ste pietre, quanti lamenti, quanta morte”. Provò uno struggimento grande Ceccotti

Enzo, una sensazione di vuoto allo stomaco che pensò fosse fame e che invece era pietà. Pietas,

anzi.

I rumori della città, ora, erano diventati assordanti anche da lassù. “Stò 'n missione, 'a bbelli, ve

devo da sarvà”, urlò a un gruppo di disperati in attesa di un autobus da almeno mezzora davanti

alla fermata della metro B. Quelli non lo sentirono, ma lui provò una vaga soddisfazione ad

ufficializzare il compito che il destino gli aveva affidato. Srotolò uno striscione, urlò ancora. Urlò

forte: “Ve sarverò”, ma nulla. Nessuno alzava la testa verso il cielo. Lui, detto Jeeg, invece

c'aveva dimestichezza con le altezze, col firmamento. Avrebbe voluto fare l'astronauta, ma quando

era diventato gruista gli era sembrato un mestiere quasi simile, fichissimo. Dall'alto pensava

meglio. Pensava bene, cose belle pensava. Aveva pensato che basta coi furtarelli, testa a posto e

pedalare. Salire, salire, farcela. Sposarsi con Alessia, comprarle un abito da nozze azzurro, da

principessa, portarla in luna di miele a Disneyland, Parigi, a vedere da vicino il padiglione Manga,

quello con i Jeeg Robot veri, d'acciaio splendente, toccare le armature di Mechadon 1 e 2, salire

sulla navicella Big Shooter. Pensava a quanto si sarebbero divertiti, quanti baci, quanta allegria. E

invece, mannaggia alla miseria, l'avevano licenziato perché s'erano scoperte gravi irregolarità nel

cantiere. E tutto aveva iniziato a girare storto. Tutto. E non valeva la pena neppure sgolarsi,

strillare, chiedere perché. Nessuno lo ascoltava, nessuno sentiva, proprio come quegli stronzi alla

fermata.

Si sdraiò triste. Allungò la schiena sulle pietre del Colosseo, gambe penzoloni. S'appisolò, forse.

Lo svegliò il suono di una sirena, un suono fastidioso e vicinissimo. Mise a fuoco la situazione con

i suoi occhi a raggi gamma. Sotto di lui ora c'erano almeno tre Volanti, un'ambulanza e un camion

dei pompieri che stava issando una scala lunga, infinita. C'era un uomo con un megafono, anche.

“Ceccotti Enzo, non fare cazzate, scendi”, disse l'uomo.

Jeeg non si mosse. Impietrito. “Ma che ho fatto ora? Ma che sono venuti ad arrestarmi st'infami?

Sono forse i maledetti soldati dell'imperatore?”, pensò col cuore che andava a tremila nel petto.

“Ceccotti Enzo – ripetè l'uomo che ora stava iniziando a salire sulla scala – scendi, ti prego. Qui ci

sono i tuoi amici, la tua famiglia. Siamo tutti in pena per te”.

Provò a parlare, Jeeg. Aveva la bocca asciutta e i pensieri gli rimanevo in testa. Avrebbe voluto

dire: “Io sto in pena per voi, devo salvarvi, sto in missione. Non vi rendete conto che il mondo sta

andando a rotoli, che le civiltà nemiche sono a un passo?”.

L'uomo passò il megafono a un'altra persona, un puntino sotto il Colosseo. Il puntino urlò: “Io solo

una cosa voglio sape' , ma come cazzo sei arrivato là sopra? “. Riconobbe la voce del suo amico

Zingaro. Sorrise Jeeg. Altro passaggio di megafono. “Amore mio, nun è il giorno de' e' tenebre,

nun fa macelli, daje, vieni giù”. Era Alessia, adesso. Ceccotti Enzo s'intenerì, le mandò un bacio

con la punta delle dita.

L'uomo intanto era salito sulla scala dei pompieri. Gradino dopo gradino. Era quasi a un metro da

lui. Ormai.

“Enzo, sono l'ispettore Marinetti – disse scandendo bene le parole – Ora tu scendi con me, è

chiaro. Basta fa er matto, chiaro?”

Jeeg rimase in silenzio. Avrebbe voluto spiegargli che voleva tornare sulla gru, sentire il vento in

faccia, provare la vertigine di un lavoro vero, uno stipendio vero. La vertigine del futuro con

Alessia e pure con lo Zingaro testimone di nozze. Pranzo al Frustone, lungo l'Aniene, e i confetti, e

le bomboniere, e una festa perfetta, e tutto bello e preciso come in un film di quelli che non fanno

piangere.

“Me lo trovate un altro lavoro, ispetto'? Me date la parola d'onore che me trovate un altro lavoro?

Non bastano manco i super poteri per averne uno. Ma le pare giusto? Le pare una cosa normale?

Io vi consegno pure i guanti in maglio e doppio maglio. Però voglio la parola d'onore. Sennò

m'alzo in volo e arrivederci Roma”, disse tutto d'un fiato Ceccotti detto Jeeg.

Sotto al Colosseo si era formato un capannello di gente. I pompieri avevano allargato un telo

immenso. D'incanto si era fermato il traffico. Ferme le macchine, gli autobus, ferma la città. L'aria

si era fermata.

Quando Enzo Ceccotti posò il piede sull'asfalto ruvido si alzò un applauso commosso. Alessia gli

corse tra le braccia, ridendo e piangendo. Lo Zingaro gli rifilò una pacca sulla spalla commentando

a suo modo: “Io solo una cosa voglio sape', ma come cazzo fai a esse tanto scemo?”. C'era anche

una troupe televisiva, la giornalista gli infilò un microfono sotto il naso. “Signor Ceccotti, ma in

che senso voleva salvare la città? Di che missione parlava?”.

E fu a quel punto che Enzo detto Jeeg srotolò lo striscione che aveva staccato dal Colosseo e

adesso teneva sotto il braccio. Lo srotolò sorridendo.

C'era scritto: “La vita è un'emozione da poco”.

© Daniela Amenta, estate 2016


(potete prendere ma solo per intero, citando autore e fonte)