sabato 12 novembre 2016

So long, sir

Lo sapeva bene Leonard Cohen. E ci aveva avvertiti. Lucido, concreto fino alla fine. Perché poi, solo i giganti, sanno affrontare con consapevole dolcezza  la  morte, mettere un piede nel paese sconosciuto narrato da Shakespeare, guardare il buio e volerlo perfino più scuro.  «Hineni, hineni, hineni», ripete tre volte Cohen nel suo ultimo disco, You Want It Darker. È il lamento  di Abramo che nella Bibbia consegna il figlio Isacco alla volontà di Dio. «Sono pronto, Signore», canta con quella voce che è catrame e miele bruciato, abisso delle scale tonali. Era pronto Leonard Cohen. Lo aveva scritto  in una lettera struggente a Marianne, la musa bionda,  suo grande amore, scomparsa a luglio. «È arrivato questo tempo in cui siamo entrambi molto vecchi e i nostri corpi cadono a pezzi (…). Sai che ti sono così vicino che se allungassi la mano troveresti la mia. Penso che ti seguirò molto presto. Addio mia infinita bellezza, ci vediamo lungo la strada». Lo aveva ribadito in una intervista, bellissima e feroce, a David Remnik pubblicata lo scorso 17 ottobre su The New Yorker: «È la condizione del mio fisico a limitarmi. Devo sdraiarmi spesso, ora. Il grande cambiamento rispetto al passato è la vicinanza con la morte. Sono una persona che cerca di finire quello che ha iniziato. E quindi sono pronto ad andarmene. Sento il Bat Kol (in ebraico è la voce divina, ndr), sembra dirmi “Stai perdendo troppo peso Leonard, stai morendo”. C’è una realtà  profonda accanto a noi, ogni tanto emerge. La percepivo perfino quando ero in buona salute, adesso la vedo con chiarezza».
Leonard Cohen, nato a  Montréal 82 anni fa, ha attaccato al chiodo l’inseparabile cappello, si è tolto l’impermeabile blu per l’ultima volta lunedì 7 novembre. I funerali sono stati celebrati ieri nel “suo” tempio,  alla Shaar Hashomayim Synagogue di Montréal, la congregazione a cui l’artista e la sua famiglia appartenevano: sia il  bisnonno di Leonard, Lazarus, che il nonno Lyon ne erano stati presidenti. Ad accompagnarlo il coro diretto dal cantore della Sinagoga,   Gideon Zelermyer, lo stesso che risuona melodioso e celestiale in You Want It Darker. La scorsa notte, infine, la famiglia ha dato l’annuncio ufficiale.

Quando per definire un musicista si ricorrere alla parola “poeta”, spesso si esagera. Non nel caso di Cohen che inizia la propria avventura proprio come tale, pubblicando nel 1956 la prima raccolta di versi, Let Us Compares Mythologies, seguita da Six Montreal Poets e da The Spice Box of Earth. E poi i romanzi - The Favourite Game e Beautiful Losers -  scritti nei giorni del vino e delle rose, a Hydra, in Grecia, con accanto Marianne bella come una sirena bionda.  Solo nel 1967 esce il suo primo album, Songs of Leonard Cohen, ha già 33 anni, lo spinge verso la musica Judy Collins, la prima a cantare Suzanne.  Lui ha imparato a suonare la chitarra grazie a un amico spagnolo («Solo flamenco, con una sei corde, mentre a me piacevano Robert Johnson, il jazz di Count Basie e Billy Holiday, il lirismo di Edith Piaf e Jacques Brel...», raccontò poi). È un disco intriso di malinconia, che parla di morte, di depressione.  Un album respingente inciso da un uomo conflittuale:  tutti temi, che con differenti toni e sfumature, Cohen svilupperà nel corso di una carriera tanto parca quanto mirabolante. Tra le molte leggende che si narrano sull'artista canadese  c'è quella degli studi di registrazione riarredati con il mobilio della sua camera da letto, perché Leonard si sentisse a suo agio e cantasse con facilità.

In 50 anni di carriera  solo quattordici album in studio, gli ultimi tre – Old Ideas, Popular Problems e il definitivo You Want It Darker realizzati tra il 2012 e il 2016 – come se l'urgenza di dire si fosse fatta impellente. Quattordici dischi come Songs From a Room (1969) che contiene Nancy e Bird On The Wire, Songs Of Love and Hate (1971)  con Famous Blue Raincoat , il corposo  New Skin for the Old Ceremony (1974) e Death of a Ladies' Man del 1977, che è uno spartiacque. Lavoro prodotto da Phil Spector  in cui appaiono, tra gli altri,  Allen Ginsberg e Bob Dylan.  E poi il resto, e da citare c’è almeno I’m Your Man del 1988,  e  canzoni come inni per cuori spezzati e anime gentili ma ribelli. Canzoni come Hallelujah, The Partisan, So long,  Marianne, Chelsea Hotel#2, Sisters of Mercy, Tower of Song o First We Take Manhattan che hanno prodotto cloni, versioni, incidendo nell’immaginario di una marea di musicisti a venire. E in parallelo l’attività di poeta e romanziere con Book of Mercy, The Energy of Slaves o Book of  Longing, tradotto in Italia come Il libro del desiderio tra versi luccicanti e piccoli, meravigliosi disegni.

Un’anima incomparabile Leonard Cohen, “l’uomo con l’oro in bocca” sopravvissuto alla depressione, cantore di gesti estremi e  disperati eppure capace di quella ironia yiddish con cui sapeva liquidare e irridere  gli eccessi degli Stati Uniti e dell’Occidente, languido come un gatto e brutale quando c’era da raccontare guerre disumane. C’è gente che danza, cammina, fa sesso,  piroetta e si ammala di amore infinito e  di tristezza nell’universo di Cohen. C’è un piccolo ebreo seduto nella terza fila della Sinagoga di Montreal che studia e prega, c’è un bambino di 9 anni che vede morire il padre e che per consolarsi sotterra nel giardino di casa il papillon del genitore e un frammento di carta dove descrive il proprio dolore.  C’è un giovane bello, con gli occhi blu, che fa impazzire le donne e che impazzisce per loro. C’è lo studioso della Bibbia  che cita re David, Betsabea e Sansone, affamato di letteratura, attraversatore indomito di un miscuglio formidabile di culture e stili di vita: dall’intimismo del folk al pacifismo hippie, dalla Beat Generation alla rivoluzione digitale del Terzo Millennio.
C’è Leonard il monaco Zen ordinato nel 1996, presso il Mount Baldy Zen Center, a 200 km da Los Angeles, con il nome di Jikan, il silenzioso. Anni di meditazione e patimenti («riflettere su se stessi non è mai una festa», disse) accanto al suo maestro, Sasaki Roshi.  C’è una star defilata, generosissima sul palco, ridotta quasi in miseria dalla ex  manager. Un fallimento  che lo costrinse a tour estenuanti e a quei tre dischi in pochi anni. Ma You Want It Darker, uscito a fine ottobre, non è esattamente un testamento. Semmai  l’ultimo atto di una parabola intensa, immensa in cui Cohen guarda già altrove, oltre il  mondo terreno, le umane miserie.  Polvere alla polvere.  La finitezza come paradigma dalla quale non si sfugge.  E anche in questa opera scura, scurissima  si trova una crepa che fa filtrare la luce e illumina la nostra fragilità dolente. Come scrivemmo recensendo il disco: «In You Want It Darker c’è lo Zen e l'arte di mantenersi onesto e consapevole, gestire la fatica e salutare ogni giorno come un piccolo dono. C'è la pazienza di fare i conti con il dolore e c'è la saggezza di guardare al passato con disincanto e tenerezza per giustificarsi un po'. Solo un po'».  
L’uomo che ha provato per tutta la vita  a essere libero come l’uccello che dondola sul filo della luce - Bird on the wire  - è riuscito nella missione.  A noi resta una torre di suoni e di parole, il conforto del suo sorriso e un alito di vento che alza l’orlo di un impermeabile blu.

So Long, Leonard.


Daniela Amenta l'Unità 12 novembre 2016




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