lunedì 23 dicembre 2019

La stella nera di Bowie



C'è sempre stata una componente spaziale, ultraterrena, una spinta verso l'infinito a contraddistinguere l'arte complessa di David Bowie. Dagli esordi a oggi la grammatica, l'ispirazione/aspirazione del musicista londinese sono cadenzate da uno sguardo ipermetrope che si perde nelle galassie. Nulla di squisitamente mistico, semmai la cosmogonia di Bowie si concentra proprio sulle origini dell'universo e finisce per trovare l'alto dove c'è il basso, e viceversa, in un processo quasi alchemico. Dal Maggiore Tom di Space Oddity a Ziggy Stardust, da Starman a Life on Mars fino a Loving The Alien. The Stars (Are Out Tonight), Dancing Out In Space, Bowie è davvero  l'uomo che cadde sulla Terra arrivando da un altro pianeta. Che è il suo, la bizzarra galassia David. Un'isola astrale dove convivono le tante passioni collezionate, amplificate, estremizzate da uno dei personaggi più versatili e mercuriali dello show business, rockstar che ha usato la musica per attraversare il Novecento, un pezzo di Terzo Millennio e probabilmente raggiungere l'eternità. Artista vero e in quanto tale capace di intuire mode e modi, anticiparli, un passo avanti a scrutare le infinite distanze.
L'album numero 27 della discografia ufficiale in studio e che uscirà l'8 gennaio, giorno del suo compleanno, ha per titolo un simbolo, una piccola stella nera. Si pronuncia Blackstar, segue il solco cosmico, ma questa volta nel cielo di Bowie c'è un astro che non brilla ma fotografa con un'aura inquieta le miserie umane, l'Apocalisse prossima ventura, il rattrappito incedere di un mondo avido e terribile. Nessuna consolazione nel cercare il firmamento, nessuna pace in terra. L'alto e il basso coincidono ma fanno paura. Il disco, sette pezzi in totale, si apre con la title-track lunga 10 minuti, che sembra il frutto di due composizioni incollate. Una iniziale che ritorna a loop nel finale, l'altra che è parte della struttura centrale. Brano complesso e spiazzante, echi dei Van Der Graaf, un senso di compressione generale. Non è casuale che Bowie apra le danze con una “non canzone”, che richiede ascolto, concentrazione, pensieri fuori dagli stereotipi. Perché Blackstar è così, un'opera magniloquente, ventriloqua, mirabilmente suonata. Accanto a sé l'artista ha voluto una band di jazzisti, tra i migliori del circuito americano. Jazzisti al servizio di un disco rock futuribile con rimandi a Mingus e Coleman, dove il sassofono e la voce sono gli elementi che più emergono nel magma sonico. 
Il sax di Coltrane
Anche questo non è accidentale e segna un ritorno alle origini: il sax è stato il primo strumento dell'uomo che cadde sulla Terra, il suo insegnante fu Ronnie Ross (è il baritono di Walk on The Wild Side di Lou Reed) e a più riprese David ha dichiarato: “Quando ero ragazzo non riuscivo a decidere cosa volessi essere, se una rockstar o John Coltrane”.
In Blackstar chiude i conti e veste i panni sia di Coltrane che della rockstar. Con lui a produrre l'amico di sempre, Tony Visconti, e poi Donny McCaslin al sax, il chitarrista Ben Monder, il fantasmagorico batterista Mark Giuliana e alle tastiere Tim Levebvre e Jason Linder, musicisti di altissima fattura alla corte di Maria Schneider, compositrice e direttrice di orchestra, spirito guida del precedente The Next Day (2013), il disco che ha rotto un silenzio durato 10 anni. E, soprattutto, dell'outtake Sue (Or In A Season Of Crime), murder ballad che spunta all'improvviso in Nothing Has Changed, monumentale antologia pubblicata nel 2014. Proprio questo brano con 'Tis A Pity She Was A Whore, altra demo track fortuita, trovano composito sviluppo in Blackstar. Un mix di drum'n'bass tiratissimo, chitarre spettrali, rumorismo al calor bianco, echi metal, jazz non solo in quanto suono ma come articolata formula compositiva.
Bowie stupisce ancora una volta, proprio lui che non ha mai smesso e ogni volta alza l'asticella della meraviglia a scardinare ogni previsione. Lui, figlio della guerra e di un soldato tornato dal fronte che scelse di fare il macellaio per dare un tetto alla famiglia. Lui, paradosso del rock'n'roll, che ha dragato il prog, le ballate, il funk, il glam più spinto, l'epopea del trash, l'elettronica glaciale, la new wave, il jazz colto, a quasi 70 anni si permette il lusso di spostare non solo il baricentro della sua musica, ma anche il telescopio. Dall'osservatorio di New York, dove abita da tempo, spegne la luce del cosmo. E accende i riflettori sullo stato del pianeta.
Lazzaro non risorge
In Blackstar si aggirano uomini ciechi in cerca di segni e la resurrezione è affidata a Lazarus, il vero singolo di un album teso, sfaccettato, tanto bello quanto arduo, arduo come una risalita. Lazarus che è anche una pièce teatrale diretta da Ivo Van Hove ispirata proprio a The Man Who Sold The World. Tutto torna in questo immenso gioco di citazioni e rimandi: il passato e il futuro, l'alto e il basso che coincidono. Così a sorpresa arrivano Girl Loves Me, marcia sincopata dalle movenze sinfoniche, e soprattutto due ballate lussuose - Dollar Days e I Can't Give Everything Away -, con sassofono, piano e voce che si intersecano a indicarci una possibile via di fuga, una luce oltre il tunnel della stella nera. Finale arioso come un miracolo. Un lavoro biblico, dove la rinascita è accompagnata alla pietas, alla misericordia, ai segni che pulsano nel cielo.
L'elemento profetico è una vecchia storia, ciclica, nell'opera di Bowie. Anche lo Ziggy Stardust del disco (uscito nel 1972) non è esattamente un extraterrestre. Bowie lo ribadì nel lontano 1974, incontrando il poeta tossico della Beat Generation, William Burroughs, una intervista incrociata sui destini dell'uomo e la ricerca dell'altro fuori dalla propria dimensione. E infatti Ziggy a detta di Bowie, è un uomo in carne ed ossa che entra in contatto con l'altro mondo casualmente, attraverso le onde radio, e stabilisce relazioni con energie sconosciute (gli “infiniti”) scambiando i messaggi che arrivano via etere per rivelazioni spirituali e assumendo un ruolo messianico. La distruzione della Terra è prossima, solo 5 anni, Five Years, poi conteremo le macerie. Ne sono passati quasi 40 da allora. Ci siamo ancora ma Bowie non ha mai smesso di prevedere. E il futuro, di certo, lo inquieta.
Le Metamorfosi
Catastrofi, alieni, soprattutto miracoli. Di questi ultimi è costellata l'ascesa con rare cadute di Bowie, un occhio blu e un occhio marrone, l'ermafrodita perfetto, soprattutto l'artista globale, colui che ha intuito dove girasse il vento sempre un minuto prima. Un marziano anche di genere, un mutante in continua e imprevedibile metamorfosi.
Il picco di una carriera entrata nella Storia e che ha segnato mezzo secolo arriva nel 1975. Solo un anno prima è Halloween Jack, benda da pirata sull'occhio, zazzera cotonata color carota, stivali con la para. D'improvviso, in pieno punk, si spunta i capelli, indossa giacche dal taglio dritto, camicie rigorose. Nel 1976 esce Station To Station, ancora una volta c'è di mezzo una radio ma i segnali che capta arrivano dall'Europa. Bowie diventa “the Thin White Duke” e intuisce che Berlino è, in quel tempo, la capitale del disagio e della massima creatività. Alla città del Muro dedica una trilogia superba in compagnia di artisti come Brian Eno e Robert Fripp dei King Crimson. In un'intervista dichiara: “C’era questa atmosfera particolare, che ho scoperto in seguito essere simile a quella di New York. Qui ho capito, per esempio, quanto fosse importante per me scrivere”.

E scrive, in effetti. Scrive, ad esempio, Heroes, canzone culto. Si invaghisce del kraut-rock e in chiave spirituale ritrova le evocazioni dei Tangerine Dream. Prevede anche la possibilità di salvare Iggy Pop: ne sarà il mentore, il produttore e l'ancora. Forte di una credibilità teutonica e titanica affronta gli anni Ottanta con uno dei simboli del decennio: Scary Monsters, capolavoro di lungimiranza, pura adrenalina, riff immortali. Disco di una bellezza, un'attualità, una forza che a tutt'oggi fanno girar la testa. In Ashes To Ashes, uno dei cavalli di battaglia, ritorna il Maggiore Tom di Space Oddity, liquidato come un tossico. L'Odissea, insomma, era una questione privata, non la realtà. Un cerchio che si chiude, un altro che si apre nel 1983 con Let's Dance. Anche in questo caso Bowie si fa segno, simbolo e sostanza dello Zeitgeist: siamo in pieno riflusso e la gente ha voglia di ballare, ha voglia di giri di basso, soprattutto ha voglie. Lui è platino e abiti rossi, sorriso tecnico,, tutto va bene, la Terra non verrà distrutta da noi alieni. Danziamo,  ragazzi.

Passa un decennio, molti alti in termini commerciali, qualche basso concettuale, fino al 1995. Esce in quell'anno uno dei dischi più mirabili e importanti dell'intera carriera di Bowie: è 1.Outside. David ritrova Eno ma soprattutto negli anni dell'avanzata del grunge ritrova sé stesso, lo shining e dà vita a un concept album incredibile, strabiliante, dove narra le avventure dell'investigatore Nathan Adler alle prese con omicidi artistici-seriali. L'atmosfera è a metà tra Twin Peaks, i thriller di Jeffery Deaver e True Detective. Aria tesa, stelle nere. La stessa che vent'anni dopo risuona prima in The Next Day e poi riempie Blackstar come una premonizione. Nulla più da indagare, solo la consapevolezza disperatissima che la luce buia ha interrotto i collegamenti con gli altri e l'altro da sé, solo la certezza furibonda che vaghiamo come ciechi in cerca, almeno, delle nostre mani mentre la stella cometa brilla a intermittenza ed è quasi Natale.

Daniela Amenta
23 dicembre 2015