lunedì 23 dicembre 2019

La stella nera di Bowie



C'è sempre stata una componente spaziale, ultraterrena, una spinta verso l'infinito a contraddistinguere l'arte complessa di David Bowie. Dagli esordi a oggi la grammatica, l'ispirazione/aspirazione del musicista londinese sono cadenzate da uno sguardo ipermetrope che si perde nelle galassie. Nulla di squisitamente mistico, semmai la cosmogonia di Bowie si concentra proprio sulle origini dell'universo e finisce per trovare l'alto dove c'è il basso, e viceversa, in un processo quasi alchemico. Dal Maggiore Tom di Space Oddity a Ziggy Stardust, da Starman a Life on Mars fino a Loving The Alien. The Stars (Are Out Tonight), Dancing Out In Space, Bowie è davvero  l'uomo che cadde sulla Terra arrivando da un altro pianeta. Che è il suo, la bizzarra galassia David. Un'isola astrale dove convivono le tante passioni collezionate, amplificate, estremizzate da uno dei personaggi più versatili e mercuriali dello show business, rockstar che ha usato la musica per attraversare il Novecento, un pezzo di Terzo Millennio e probabilmente raggiungere l'eternità. Artista vero e in quanto tale capace di intuire mode e modi, anticiparli, un passo avanti a scrutare le infinite distanze.
L'album numero 27 della discografia ufficiale in studio e che uscirà l'8 gennaio, giorno del suo compleanno, ha per titolo un simbolo, una piccola stella nera. Si pronuncia Blackstar, segue il solco cosmico, ma questa volta nel cielo di Bowie c'è un astro che non brilla ma fotografa con un'aura inquieta le miserie umane, l'Apocalisse prossima ventura, il rattrappito incedere di un mondo avido e terribile. Nessuna consolazione nel cercare il firmamento, nessuna pace in terra. L'alto e il basso coincidono ma fanno paura. Il disco, sette pezzi in totale, si apre con la title-track lunga 10 minuti, che sembra il frutto di due composizioni incollate. Una iniziale che ritorna a loop nel finale, l'altra che è parte della struttura centrale. Brano complesso e spiazzante, echi dei Van Der Graaf, un senso di compressione generale. Non è casuale che Bowie apra le danze con una “non canzone”, che richiede ascolto, concentrazione, pensieri fuori dagli stereotipi. Perché Blackstar è così, un'opera magniloquente, ventriloqua, mirabilmente suonata. Accanto a sé l'artista ha voluto una band di jazzisti, tra i migliori del circuito americano. Jazzisti al servizio di un disco rock futuribile con rimandi a Mingus e Coleman, dove il sassofono e la voce sono gli elementi che più emergono nel magma sonico. 
Il sax di Coltrane
Anche questo non è accidentale e segna un ritorno alle origini: il sax è stato il primo strumento dell'uomo che cadde sulla Terra, il suo insegnante fu Ronnie Ross (è il baritono di Walk on The Wild Side di Lou Reed) e a più riprese David ha dichiarato: “Quando ero ragazzo non riuscivo a decidere cosa volessi essere, se una rockstar o John Coltrane”.
In Blackstar chiude i conti e veste i panni sia di Coltrane che della rockstar. Con lui a produrre l'amico di sempre, Tony Visconti, e poi Donny McCaslin al sax, il chitarrista Ben Monder, il fantasmagorico batterista Mark Giuliana e alle tastiere Tim Levebvre e Jason Linder, musicisti di altissima fattura alla corte di Maria Schneider, compositrice e direttrice di orchestra, spirito guida del precedente The Next Day (2013), il disco che ha rotto un silenzio durato 10 anni. E, soprattutto, dell'outtake Sue (Or In A Season Of Crime), murder ballad che spunta all'improvviso in Nothing Has Changed, monumentale antologia pubblicata nel 2014. Proprio questo brano con 'Tis A Pity She Was A Whore, altra demo track fortuita, trovano composito sviluppo in Blackstar. Un mix di drum'n'bass tiratissimo, chitarre spettrali, rumorismo al calor bianco, echi metal, jazz non solo in quanto suono ma come articolata formula compositiva.
Bowie stupisce ancora una volta, proprio lui che non ha mai smesso e ogni volta alza l'asticella della meraviglia a scardinare ogni previsione. Lui, figlio della guerra e di un soldato tornato dal fronte che scelse di fare il macellaio per dare un tetto alla famiglia. Lui, paradosso del rock'n'roll, che ha dragato il prog, le ballate, il funk, il glam più spinto, l'epopea del trash, l'elettronica glaciale, la new wave, il jazz colto, a quasi 70 anni si permette il lusso di spostare non solo il baricentro della sua musica, ma anche il telescopio. Dall'osservatorio di New York, dove abita da tempo, spegne la luce del cosmo. E accende i riflettori sullo stato del pianeta.
Lazzaro non risorge
In Blackstar si aggirano uomini ciechi in cerca di segni e la resurrezione è affidata a Lazarus, il vero singolo di un album teso, sfaccettato, tanto bello quanto arduo, arduo come una risalita. Lazarus che è anche una pièce teatrale diretta da Ivo Van Hove ispirata proprio a The Man Who Sold The World. Tutto torna in questo immenso gioco di citazioni e rimandi: il passato e il futuro, l'alto e il basso che coincidono. Così a sorpresa arrivano Girl Loves Me, marcia sincopata dalle movenze sinfoniche, e soprattutto due ballate lussuose - Dollar Days e I Can't Give Everything Away -, con sassofono, piano e voce che si intersecano a indicarci una possibile via di fuga, una luce oltre il tunnel della stella nera. Finale arioso come un miracolo. Un lavoro biblico, dove la rinascita è accompagnata alla pietas, alla misericordia, ai segni che pulsano nel cielo.
L'elemento profetico è una vecchia storia, ciclica, nell'opera di Bowie. Anche lo Ziggy Stardust del disco (uscito nel 1972) non è esattamente un extraterrestre. Bowie lo ribadì nel lontano 1974, incontrando il poeta tossico della Beat Generation, William Burroughs, una intervista incrociata sui destini dell'uomo e la ricerca dell'altro fuori dalla propria dimensione. E infatti Ziggy a detta di Bowie, è un uomo in carne ed ossa che entra in contatto con l'altro mondo casualmente, attraverso le onde radio, e stabilisce relazioni con energie sconosciute (gli “infiniti”) scambiando i messaggi che arrivano via etere per rivelazioni spirituali e assumendo un ruolo messianico. La distruzione della Terra è prossima, solo 5 anni, Five Years, poi conteremo le macerie. Ne sono passati quasi 40 da allora. Ci siamo ancora ma Bowie non ha mai smesso di prevedere. E il futuro, di certo, lo inquieta.
Le Metamorfosi
Catastrofi, alieni, soprattutto miracoli. Di questi ultimi è costellata l'ascesa con rare cadute di Bowie, un occhio blu e un occhio marrone, l'ermafrodita perfetto, soprattutto l'artista globale, colui che ha intuito dove girasse il vento sempre un minuto prima. Un marziano anche di genere, un mutante in continua e imprevedibile metamorfosi.
Il picco di una carriera entrata nella Storia e che ha segnato mezzo secolo arriva nel 1975. Solo un anno prima è Halloween Jack, benda da pirata sull'occhio, zazzera cotonata color carota, stivali con la para. D'improvviso, in pieno punk, si spunta i capelli, indossa giacche dal taglio dritto, camicie rigorose. Nel 1976 esce Station To Station, ancora una volta c'è di mezzo una radio ma i segnali che capta arrivano dall'Europa. Bowie diventa “the Thin White Duke” e intuisce che Berlino è, in quel tempo, la capitale del disagio e della massima creatività. Alla città del Muro dedica una trilogia superba in compagnia di artisti come Brian Eno e Robert Fripp dei King Crimson. In un'intervista dichiara: “C’era questa atmosfera particolare, che ho scoperto in seguito essere simile a quella di New York. Qui ho capito, per esempio, quanto fosse importante per me scrivere”.

E scrive, in effetti. Scrive, ad esempio, Heroes, canzone culto. Si invaghisce del kraut-rock e in chiave spirituale ritrova le evocazioni dei Tangerine Dream. Prevede anche la possibilità di salvare Iggy Pop: ne sarà il mentore, il produttore e l'ancora. Forte di una credibilità teutonica e titanica affronta gli anni Ottanta con uno dei simboli del decennio: Scary Monsters, capolavoro di lungimiranza, pura adrenalina, riff immortali. Disco di una bellezza, un'attualità, una forza che a tutt'oggi fanno girar la testa. In Ashes To Ashes, uno dei cavalli di battaglia, ritorna il Maggiore Tom di Space Oddity, liquidato come un tossico. L'Odissea, insomma, era una questione privata, non la realtà. Un cerchio che si chiude, un altro che si apre nel 1983 con Let's Dance. Anche in questo caso Bowie si fa segno, simbolo e sostanza dello Zeitgeist: siamo in pieno riflusso e la gente ha voglia di ballare, ha voglia di giri di basso, soprattutto ha voglie. Lui è platino e abiti rossi, sorriso tecnico,, tutto va bene, la Terra non verrà distrutta da noi alieni. Danziamo,  ragazzi.

Passa un decennio, molti alti in termini commerciali, qualche basso concettuale, fino al 1995. Esce in quell'anno uno dei dischi più mirabili e importanti dell'intera carriera di Bowie: è 1.Outside. David ritrova Eno ma soprattutto negli anni dell'avanzata del grunge ritrova sé stesso, lo shining e dà vita a un concept album incredibile, strabiliante, dove narra le avventure dell'investigatore Nathan Adler alle prese con omicidi artistici-seriali. L'atmosfera è a metà tra Twin Peaks, i thriller di Jeffery Deaver e True Detective. Aria tesa, stelle nere. La stessa che vent'anni dopo risuona prima in The Next Day e poi riempie Blackstar come una premonizione. Nulla più da indagare, solo la consapevolezza disperatissima che la luce buia ha interrotto i collegamenti con gli altri e l'altro da sé, solo la certezza furibonda che vaghiamo come ciechi in cerca, almeno, delle nostre mani mentre la stella cometa brilla a intermittenza ed è quasi Natale.

Daniela Amenta
23 dicembre 2015



martedì 12 giugno 2018

La Resistenza raccontata al mio fruttarolo Bangla

Ho scritto questo racconto per la festa dei Liberi Nantes, la squadra dei rifugiati che gioca a calcio nel campo 25 aprile di Pietralata e che ha compiuto 10 anni. Ho scritto questi pensieri perché la Resistenza come una scossa, come un'idea,come un impegno che parte sempre dal basso attraversa ancora Roma, che è la mia città. La attraversa quasi fosse una zattera. Eppure esiste, con la sua bandiera, il nostro fiato a fare vento. 
E i frutti sono ciliege sulle orecchie delle ragazze.
In questo racconto dedicato da Montagnola a  Pietralata mi ha accompagnato il sassofono struggente di Nicola Alesini, la sua grazia, il suo graffio. 
Ho scritto questo racconto riascoltando un disco di Claudio Lolli, un vecchio e meraviglioso disco. Si intitola: Ho visto anche degli zingari felici.
Le citazioni in corsivo arrivano da lì.
Daniela Amenta, maggio 2018


Quanto è lontano il distretto di Rangpur da qui, qui Montagnola, Rome, Italy? Ajar fa un gesto grandissimo con le mani, un gesto che va dalle carote alle fragole, come un arco quel gesto. Come una freccia di un arco lanciata in cielo. Ajar è il mio amico Bangla, il mio  fruttarolo. C'è il mare, la montagna a casa tua lì nel centro dell'arco?? Che c'è a Rangpur, terra di Bangla? Risponde lui, mi dice: io sono nato a nord. Che infatti ad Ajar le onde piacciono poco, ha visto Ostia una volta, domenica pomeriggio che era inverno, dice, dice lui che preferisce camminare in verticale, verso le cime, che lì è fresco e l'aria entra nei polmoni come una pompa a compressione. Dice che Ostia non è bellissima.
Per primo  a Roma è arrivato Ajar, poi piano piano gli altri, i cugini, tutti cugini i Bangla. Nel mio quartiere a 8 km dal Colosseo che sembrano ottomila i Bangla hanno un negozio di frutta, tre market piccoli ma dove nel surgelatore vendono cernie grosse 100 kili, cernie o balene atlantiche non sapremo mai. Poi sono lavavetri sulla Colombo, mettono assieme i ramini per tornare un giorno a Rangpur. Rangpur  è distante 800 miliardi di km dalla piazza dove abitiamo 800 miliardi e ottomila km dal Colosseo.
Ti prende la nostalgia Ajar? Come dite nostalgia? Capisci che intendo?  E' un senso, un movimento, d'anima, un singhiozzo, è una fitta, una fitta piccola di coltello.
Ajar prende il coltello,  taglia una mela. Me ne offre uno spicchio. "Golden", dice.
Ajar è l'unico dei Bangla del quartiere mio che di notte non gioca a pallone. Perché si sveglia alle 3 per andare al mercato, tiene aperto il negozietto 14 ore di fila, e poi crolla come un sacco di patate su un sacco di patate. Ajar quando non è stanco mi racconta che a Rangpur mandano a raccolto cotone, riso e grano.

E siamo noi a far ricca la terra
 noi che sopportiamo
 la malattia del sonno e la malaria 
noi mandiamo al raccolto cotone, riso e grano,
noi piantiamo il mais
s u tutto l'altopiano.
Noi penetriamo foreste, coltiviamo savane,
le nostre braccia arrivano
 ogni giorno più lontane.
Da noi vengono i tesori alla terra carpiti,
con che poi tutti gli altri
 restano favoriti.

Gli altri Bangla giocano a pallone di notte, giocano scalzi nella piazza dove abito, che fu la prima della Resistenza. Piazzale Caduti della Montagnola. C'è il monumento. Ci sono i nomi. 53 in tutto.
Ti devo raccontare una storia Ajar, è una storia triste e memorabile. E' la storia del mio Paese.
Ajar è curioso, ascolta, mi dice siediti qui che capo i fagiolini. Dice capo, come si dice a Roma. Mi fa spazio su una cassetta. Dice: racconta.
Ti racconto.  Alle ore 6.00 del 10 settembre 1943 un fuoco di fucileria proveniente dall'attuale palazzo della Civiltà Italiana all'Eur annunciò ai circa ottocento granatieri di Sardegna asserragliati nel forte Ostiense che i tedeschi avevano travolto le difese allestite al ponte della Magliana. Erano entrati.  Erano a Roma, 800 miliardi di km lontani da casa tua, sotto casa mia. Aggregato al forte c'era  l'Istituto religioso Gaetano Giardino, che ospitava circa quattrocento bambini orfani di guerra e minorati psichici, sotto l'assistenza di Don Pietro Occelli e di trentacinque suore francescane. I granatieri avevano solo 91 fucili, risposero al fuoco come potevano ma i nazisti erano forti, erano tanti, ed erano armati.
Alle ore 7.00 da uno spiazzo del Palazzo della Civiltà Italiana, un mortaio dei paracadutisti tedeschi cominciò a bersagliare il bastione del forte, dove era stata predisposta la difesa principale dei granatieri. Alcuni paracadutisti tedeschi superarono la Cristoforo Colombo e via Ostiense. Avevano i lanciafiamme, accesero roghi, bruciarono.
Ajar smette di capare i fagiolini. Vede d'improvviso: la Colombo dove i bangla lavano i vetri delle macchine, l'Ostiense dove i cugini dei cugini Bangla aprono i negozietti di frutta e verdura.
“Ho capito – dice – Erano qui, erano arrivati, erano a un passo”
Sì, erano arrivati.

Ascolta Ajar.
Don Pietro Occelli, direttore dell'istituto degli orfani, alzò un lenzuolo bianco sopra una pertica per dire  ai tedeschi che era la resa, basta, fine, ci arrendiamo, ci arrendiamo qui ci sono bambini, per favore non sparate.  Suor Teresina di Sant'Anna, nata ad Amatrice, stava componendo il cadavere d'un granatiere nella cappella del forte Ostiense, quando un soldato tedesco che passava lì accanto  si accorse che il morto aveva una catenina d'oro al collo, la catenina con il crocifisso. Cercò di strappargliela, la suora si oppose, lo prese a schiaffi. E lui la colpì tante e tante volte da farla cadere. Da ucciderla. Ma qui Ajar non era così come ora. La gente usciva dalle case. La gente si ribellava. La gente si ribellò.

È vero che non ci capiamo
che non parliamo mai
in due la stessa lingua,
e abbiamo paura del buio e anche della luce, è vero
che abbiamo tanto da fare
e che non facciamo mai niente.
È vero che spesso la strada ci sembra un inferno
o una voce in cui non riusciamo a stare insieme,
dove non riconosciamo mai i nostri fratelli.
È vero che beviamo il sangue dei nostri padri,
che odiamo tutte le nostre donne
e tutti i nostri amici.


Ajar del Bangladesh non capisce tutte le parole che dico. Ma è attento e sgomento. Qui Roma, Italia, ora è casa sua. Qui ci sono le donne bangla elegantissime con i bambini, ogni pomeriggio in piazza, a giocare, sorridere, qui portano piccoli pezzi di frutta scelti da Ajar – i migliori – ai piccoli Bangla, figli dei cugini, dei fratelli, di una comunità che è comunità e quindi casa.  E in questa casa dalle pareti di vetro c'era un'altra storia.  La nostra che ora si mescola con la loro.
Ascolta Ajar.  C'era un fornaio. Si chiamava Quirino Roscioni. Mise a disposizione dei ribelli contro i nazisti la casa e il forno. Fece il pane, diede vestiti borghesi ai soldati italiani. Provò. Ma i nazisti avevano le mitragliatrici. Era il 10 settembre del 1943, è un tempo distante come un elastico, grande come un arco dalla patate  alle fragole, amico mio.   Lo uccisero.  In questa piazza  dove abitiamo ci sono stati 53 caduti,  fu il primo grande argine all'avanzata dei nazisti dentro Roma, dentro l'Italia. E' una piazza di eroi. E di martiri, Ajar.

Ajar mi guarda, mi allunga una mano, me la stringe. “E' schifo che i cugini giocano a pallone la notte in questo monumento? E' vergogna, è insulto?”.
No Ajar, è una festa. Siamo liberi ora. E la libertà si festeggia. Ogni giorno, ogni ora, ogni minuto. A Rangpur, in un campo a Pietralata, alla Montagnola.
La libertà è una festa che fa gol.
La nostra festa.









domenica 19 febbraio 2017

Sulla generazione che non ha perdonato Cobain (e invece sarebbe ora)

Appena si seppe, appena arrivò la notizia furono prima lacrime, poi disperazione, poi veglie, infine l’incapacità di gestire la realtà. L’8 aprile del 1994 la “Generazione X” si trovò a fare i conti con un lutto che, ancora, in molti, non hanno alcuna intenzione di metabolizzare. In parte dipende dalla stessa mitologia del rock, in parte è roba da lettino freudiano. Si chiama negazione, gettonatissimo meccanismo di autodifesa in caso di tragedia collettiva. I ragazzi e le ragazze degli anni Novanta all’improvviso provarono la desolazione dell’assenza, sentimento ben più compatto e aguzzo dello spleen di chi non ha un posto dove andare, un posto nella vita.

Alle 8.40 di tre giorni prima, secondo l’autopsia e le notazioni del Coroner, Kurt Cobain aveva premuto contro di sé il grilletto di un Remington-11, fucile semi automatico usato anche durante le guerre in Vietnam e Corea. Un colpo che non era, non è, la sconfitta di un solo uomo ma di milioni di fan in gramaglie, dei teenager di ieri. Perfino l’estetica del gesto è devastante da capire, figuriamoci da introiettare: quel volto bellissimo, angelico e disperante, massacrato da un proiettile. La negazione del sé, della stessa immagine dei Nirvana, la frantumazione dell’io, lo sfregio. Ecco, anche la violenza del rito autodistruttivo, l'esegesi tragica del male oscuro, non hanno aiutato gli orfani di Cobain che negli anni hanno dato vita a una mostruosa e gigantesca messa in scena pur di dirsi che lui no, il loro Kurt, l’icona del grunge, non l’avrebbe mai fatto, mai. Delitto, è stato un delitto.  Cominciò ad avanzare ipotesi in puro stile complottista Richard Lee, giornalista in vena di scoop. E nel tempo le congetture più bizzarre, audaci e imprevedibili hanno “riempito” l’assenza, il vuoto, rimbalzando come biglie tra libri, film, programmi televisivi, forum di discussioni.

Così il 20 febbraio, in occasione dei 50 anni mai compiuti da Cobain, arriva in Italia (con un discreto tempismo macabro) Chi ha ucciso Kurt Cobain?, documentario che ripercorre gli ultimi giorni del leader dei Nirvana, fino alla fine: il corpo riverso nel garage del villone a Seattle e accanto il pacchetto di American Spirit nere, nere le Converse, neri gli occhiali, nera la biro infilata nella terra di un vaso a tenere ferma, immobile la lettera d’addio. E poi il kit da tossico, i 120 dollari sparpagliati, le cicche, il quadretto amaro di tutta la desolazione cantata da Cobain nella sua breve parabola su questa terra. Protagonista principale del doc non è il caro estinto ma Tom Grant, investigatore privato che fu assoldato da Courtney Love per rintracciare il marito in fuga dal rehab di lusso a Los Angeles.

Anche Grant sostiene, ovvio, che qualcuno volesse morto Kurt. E gli indizi, guarda un po’, portano tutti alla bella e inquieta vedova. Che, di par suo, ha ingaggiato squadre di avvocati, raccontato la sua versione della storia attraverso testi, pubbliche confessioni e pellicole autorizzate (una è Montage Of Heck di Brett Morgen, del 2015).  Festa mesta, dunque, per Cobain. Così celebrato, citato, eppure - pare - mai ascoltato sul serio. Prego, rileggersi i testi, provare a capire il senso di un suono oltre alla nostalgia per le camicie a quadri che indossammo. Il senso di morte è così presente, totalizzante, da fare male. Già da Bleach , l’album che apre ufficialmente le danze della carriera dei Nirvana. La prima canzone si intitola Blew, e fa così: Se non vi dispiace vorrei tirare il fiato/ Se non vi dispiace vorrei lasciarmi andare/ Se non vi dispiace vorrei lasciare/ Se non vi dispiace vorrei respirare.

E così è pure nel pluridecorato Nevermind che, tra l’altro contiene, Endless, nameless. (Silenzio/Sono qui/ Sono qui/ Silenzioso/ Splendente e pulito/ È ciò che sono. Sono morto/ Morte/ Con violenza). Fino alla tragedia di In Utero, opera che nella sostanza è un testamento. Chi scrive recensì all’epoca quel disco per il Mucchio Selvaggio, tra le più blasonate riviste rock. Cercò di spiegare perché i Nirvana fossero così respingenti, feroci, a tratti insostenibili. I fan non apprezzarono. Però sarà il caso di far tirare il fiato anche al fantasma di Kurt, farci pace.

Dire, dirci che non esiste metafora nella poetica di Cobain, non c'è pelle a dividere i piani, nessuno spessore tra il sé e l'artificio artistico. Cobain era quello che cantava, che urlava, che piangeva e distruggeva, piangendo e distruggendo se stesso. Tutto così chiaro e manifesto, nessuna finzione, una lacerazione nelle carni e nel cuore, un’autenticità che toglie il fiato, la passione di un Cristo che sa che non esiste redenzione, né riscatto. Non era neppure più musica, a un certo punto, ma la deflagrazione totale, consapevole, di un uomo baciato dal genio e che del genio non seppe che farsene, se non considerarlo un’altra trappola in cui suo malgrado era caduto.

Nella lettera d’addio dedicata a Boddah, l’alter ego del Cobain bambino, è tutto detto. E nonostante la disperazione, quel ragazzo di 27 anni al cospetto con la propria fine è così lucido da scrivere: «Io non provo più emozioni nell’ascoltare musica e nemmeno nel crearla e nel leggere e nello scrivere da troppi anni ormai». Forse avrebbe dovuto aggiungere, come Pavese, «non fate troppi pettegolezzi». Della perdita di relazioni con l'io interiore, la disidratazione di sentimenti, la cesura con ogni ancoraggio possibile aveva detto anche Ian Curtis dei Joy Division. Sembra di leggere lo stesso terribile copione già scritto, archiviato, in Disorder, un pezzo del 1979: I've got the spirit, but lose the feeling, Feeling, feeling, feeling, feeling, feeling, feeling, feeling. Niente emozioni, e per favore niente pettegolezzi, che il defunto li odiava. Ma per una rockstar è impossibile sottrarsi al chiacchiericcio compulsivo, alle fandonie, alle congiure, alle fantasie. A una rockstar non è concesso riposare in pace e, meno che mai, scegliere il suicidio per uscire di scena. Il suicidio non si perdona a un comune mortale, figuriamoci a un divo. L’overdose è contemplata nel rock, l’incidente selvaggio è previsto, perfino l’omicidio ma non il più estremo dei gesti, quell’«atto di ambizione che si può commettere solo quando si è superata ogni ambizione». E poi diamine, aveva tutto Cobain: bello, ricco, famoso, talentuosissimo, con «una moglie divina che trasuda empatia» e una figlia che gli ricordava troppo «di quando ero come lei, pieno di amore e gioia».
C’è che in fondo, nel fondo di questa smania a cercare colpevoli, nelle foto pubblicate dal luogo della morte, nella morbosa pratica autoptica a caccia di indizi, si restituisce a Cobain solo la parvenza. Quasi che anche la sua fine facesse parte dello spettacolo. Solo spettacolo, solo show pure la solitudine e il dolore. Domani, 20 febbraio, per i 50 anni che Kurt Cobain non ha mai festeggiato, dovremmo invece tenere soltanto l’amarezza vicina al cuore. Keeps the bitterness close to the heart. E lasciarlo andare, finalmente.


La traduzione dei testi dei Nirvana è opera degli autori di Nirvanaitalia.it, a cui vanno i miei ringraziamenti. 

Daniela Amenta
(L'Unità, 19 febbraio 2017)

Gimme Danger

Dietro questa storia, la storia di una band, ce n'è un'altra. Quest'altra è fatta di ritagli di foto, ascolti, confessioni, circostanze, piccolo collezionismo e molto amore. Jim Jarmusch, ex ragazzo dell'Ohio con i capelli candidi, definito “principe del cinema indipendente”, con Gimme Danger ha dato un bacio al suo rettile preferito per trasformarsi nel narratore di un'epopea, di un'America periferica e derelitta, di una scena musicale mai udita prima di allora. Ci sono qui svisate elementari e potentissime, una batteria martellante, feedback e rumore bianco, e un cantante magnetico che rantolava, urlava, si lanciava sul pubblico fino a travolgerlo. E quindi, partiamo dal pretesto: un film sugli Stooges, «la più grande rock band del pianeta». Al centro James Newell Osterberg, detto Jim, ma meglio noto come Iggy Pop, leader del gruppo, anima, motore e icona. Accanto Ron Asheton, Scott Asheton e Dave Alexander, via via sostenuti/sostituiti da Steve Mackay, James Williamson e Mike Watt. Siamo nel “polveroso Midwest”, negli States degli anni Sessanta. È il tempo in cui un ragazzo cresciuto su una roulotte ad Ann Arbor, sobborghi del Michigan, decide di diventare l'Iguana e sopravvivere al tempo, a qualunque orologio, al suo stesso mito.
Gimme Danger è un brano degli Stooges, contenuto in Raw Power, il terzo album del gruppo, datato 1973. Ma questa storia inizia nel 1967, dieci anni prima del 1977, l'anno folgorante del Movimento (in Italia) e della destrutturazione del punk in Gran Bretagna e in America, l'anno selvaggio e della creatività al potere, l'anno in cui tutto ci sfuggì di mano. Dieci anni prima, pensate, c'era chi aveva già immaginato che la musica potesse essere rivolta, violenza, sesso e scardinamento delle regole, praticando ogni estremismo sopra e sotto il palco. L'esordio degli Stooges avvenne la notte di Halloween in una sala dell'università del Michigan e cambiò, nel bene e nel male e per sempre, il baricentro del rock. Jarmusch racconta tutto questo grazie alle parole di Iggy Pop che il 21 aprile prossimo venturo compirà 70 anni e che ha tatuato sulla pelle ogni eccesso.
È un film bellissimo Gimme Danger (nelle sale italiane solo il 21 e il 22 febbraio) perché è un omaggio divertito, complice, malinconico e furente alle passioni dell'adolescenza, al gruppo più amato dai “viaggiatori dei bassifondi”, da chi ha recitato come un mantra livido ed epico No Fun, niente divertimento, per poi divertirsi senza freni. Spezzoni di concerti, poster, ricordi, sketch televisivi d'epoca mescolati con memorie private a sostenutissima velocità. Un collage “bizzarro, disordinato, primitivo”. Jarmusch non ha mai fatto mistero della sua ossessione per il rock (è perfino un discreto chitarrista) ma qui, in questo documentario pulsante, ci sono anche i non luoghi degli States e c'è la fotografia di un tempo – il finire degli anni Sessanta – quando Lyndon Johnson annunciò con il ritiro delle truppe dal Vietnam la sua intenzione a non ricandidarsi, e Iggy Pop pensò «e adesso chi odieremo?».
L'odio, certo, ma soprattutto l'amore per questa band che ha anticipato tutto e che in troppi hanno dimenticato pur saccheggiandone pulsioni, mood, ferocia. Dice il regista: «Nessun può competere con la loro musica, con quei testi succinti e tormentati, con il ringhio da leopardo di un frontman che incarna in qualche modo Nijinsky, Bruce Lee, Harpo Marx e Arthur Rimbaud».
Troppo? Ascoltatelo ancora oggi Iggy Pop, quella voce di catrame che arriva dal fondo di un oceano in tempesta, quello sberleffo sempiterno incollato sulle labbra a sovvertire il comune senso del pudore. Iggy che è il corpo del rock in assoluto, tanto da essersi trasformato nel modello per ventidue pittori che lo hanno ritratto nudo su idea di Jeremy Deller. Quegli schizzi, quei ritratti sono diventati una mostra, lo scorso anno, per il Museo di Brooklyn, New York. Perché con lui, con Iggy, la fisicità è diventata metalinguaggio: totem ed estensione del messaggio sonoro. Annota correttamente Deller: «Il modo con cui manipola il suo corpo, lo ostenta, lo piega e lo strapazza è un modo per comunicare. È musica, è un'onda di carne». 
Ecco, in Gimme Danger quest'onda è un cavallone su cui surfare. C'è l'Iguana splendido e giovanissimo che si offre al pubblico come un Messia iconoclasta, scalciando, saltando, dimenandosi in una danza epilettica, tagliandosi le vene, vomitando, brandendo il sesso mentre gli Stooges non muovono un dito e I wanna be your dog s'alza tumultuosa, funebre, solenne. «Ero attratto - dice Iggy – da questi film a sfondo egiziano, dove c'è sempre un faraone a torso nudo che irrompe sulla scena. Io volevo fare lo stesso». Lo ha fatto, lo fa ancora, senza vergogna, mostrando le rughe e le vene rinsecchite dall'eroina, ultimo sopravvissuto di una genia di rockstar come Nico, sua amante per un breve periodo, Lou Reed o l'amico geniale David Bowie che gli diede infinito credito pur di non farlo morire in qualche stanza di motel con le pareti a fiori. Rockstar solo apparentemente minore Iggy, solo più trasversale e marginale del resto della compagnia ma di fatto sempre capace di reinventarsi come un'Araba Fenice con le piume che sono squame di rettile.
C'è in Gimme Danger il racconto crudo dei meccanismi dello show-biz, il cinismo del mercato: essere presi, sfruttati, liquidati con un calcio nel sedere senza troppe spiegazioni. Sorte che toccò anche agli Stooges, meno furbi dei Sex Pistols che “entrarono nel business per fotterlo”, meno cattivi dei Ramones, meno consapevoli e politicizzati degli Mc5. «Eravamo gentaglia ma tra noi praticavamo la gentilezza. Una specie di famiglia, un gruppo comunista. Spartivamo tutto: la casa, quello che c'era da mangiare, le droghe, i pochi soldi, successi e insuccessi» dice Iggy a Jim Jarmusch. Una parabola che inizia, discograficamente, nel 1969: primo album The Stooges prodotto da John Cale dei Velvet Underground , il secondo è Fun House del 1970, il terzo è Raw Power del 1973, apice e fine di una parabola, l'opera meno capita allora e suo malgrado diventata lo snodo per decifrare le generazioni che “cercavano e distruggevano”, i nichilisti senza sogni, senza pace, senza futuro. Molte droghe, molto caos e la vertigine dell'autodistruzione. Poi, la ripresa nel 2003, la reunion al Festival di Coachella, i reduci – Iggy con Ron e Scott - che si ritrovano e nel 2007 la pubblicazione di The Weirdness, lavoro di cui avremmo potuto fare volentieri a meno se non fosse che anche noi, come Jarmusch, vogliamo bene a questa “gentaglia del polveroso Midwest”.
La storia si è chiusa con Ready To Die del 2013 e questo film è dedicato alla memoria di Dave Alexander e dei fratelli Ashton, in ricordo di quei testi fatti di venticinque parole e di un suono grande e potente e pericoloso, stato dell'anima prima di essere stile. «Non voglio essere alternativo, non voglio essere un hip-hopper, non voglio essere punk. Voglio essere» conclude Iggy.
È l'ultimo fotogramma.
Lunga vita all'Iguana.

Daniela Amenta
da L'Unità, 16 febbraio 2017




venerdì 6 gennaio 2017

Ossigeno

Massimiliano Di Loreto- Nicola Alesini
Ossigeno
(Helikonia)


Guardate l'idrogeno tacere nel mare, guardate l'ossigeno al suo fianco dormire”.
(Fabrizio De André, 1971)


Questa è una storia di respiri che si intrecciano, di suoni che respirano e si mescolano. Di mondi che coabitano, ferite che si rimarginano, pensieri che si fanno aria. E musica che si fa ossigeno per le anime. Questa è la storia di un'amicizia in musica tra Massimiliano Di Loreto e Nicola Alesini, polistrumentisti e compositori. Una storia iniziata con Hang Camera, proseguita con Pollock Project e che con questo album, Ossigeno appunto, traccia le linee di un triangolo perfetto. Dentro c'è jazz, improvvisazione, world music e ambient. Etichette, semplici etichette per tentare di descrivere un'opera tanto minimale, quanto intensa. E lirica, bella. Bellissima.

Ci sono molti battiti in Ossigeno. Di cuori e di percussioni acustiche ed elettroniche. Ci sono le pelli di una batteria che in un brano come Framedra, ad esempio, sembrano trasportarci in un'Africa selvaggia, pura, integra, magniloquente e feroce. Ci sono battiti e soffi, c'è l'aria delle ance: sax tenore, soprano ricurvo e soprattutto un clarinetto basso, che va, viene, scende ogni scala tonale, torna spesso, dà timbro e profondità ma coabita perfettamente con il resto degli strumenti usati: una chitarra elettrica, un phon, M'bira, rumori d'ambiente, forse farfalle che si posano qui e là.

Diciannove pezzi, all'apparenza, che spesso inganna. E quindi oltre il verosimile Ossigeno risuona e riluce, spiazza. E' un gioco di contrasti dove le dissomiglianze tra i musicisti diventano terreno solo di confronto, mai di disparità. Come se Di Loreto e Alesini suonassero l'uno nello specchio dell'altro, rincorrendosi, fermandosi assieme, passi in sincrono.

Ossigeno dunque. E bussole in tasca. Ciò che serve ai viaggiatori per mettersi in cammino. Dall'India di Ganesha al Medioriente di Interno con stupore, da Tenda Rossa dove sembra si rievochino gli spiriti potenti degli indiani d'America al tribalismo inquieto di Scavando, dalla ninna nanna antica ed evocativa di Cullami Ancora fino alla celebrazione obliqua del Giappone in Di Clarone e Koto, dai graffi dolorosi di Platino all'omaggio, quasi indie e tuttavia sorprendentemente suggestivo, contenuto in A Love Supreme dove la devozione mistica, lacerante di John Coltrane diventa un'allegoria morbida, sorniona come un gatto. Giocosa quasi fosse una capriola, opplà.

Ossigeno è opera imprevedibile, per orecchie attente, aperte. Per anime di mercurio.

Opera in viaggio tra terre che sappiamo e quella sconosciuta narrata da Shakespeare. Alternarsi di emozioni sopra un ottovolante da prendere al volo. C'è aria, c'è fuoco, c'è terra, c'è acqua. I quattro elementi per chiunque ricerchi ancora, come Empedocle, il senso della vita e dello strano mondo che ci circonda.

E c'è gioia, rivalsa, passione e solidarietà. C'è dolore e rinascita. Ci sono suoni uditi e inudibili, scarti e contrattempi, inserti come tarsie di un mosaico in movimento. C'è luce, buio, e poi l'azzurro del mare. E la magia di due artisti differenti che dialogano sul filo di un orizzonte immaginario. La chimica dell'idrogeno e dell'ossigeno che si sovrappongono: un'alchimia, il mistero insondabile della musica.


Daniela Amenta
Gennaio 2017







Note biografiche

Massimiliano Di Loreto  dopo avere militato nell'ala “estrema” della scena romana (Fando & Lis, Gronge) frequenta i territori del rock improvvisato con i Ludo, poi si trasferisce in Australia per approfondire l'uso di strumenti inusuali e le tecniche di musicoterapia e al suo ritorno in Italia collabora con Marco Testoni e Hang Camera featuring Billy Cobham. Con Nicola Alesini e Cecilia Silverio fonda i Pollock Project, esperimento di art music, e nel 2014 in quartetto realizza Jetsèmani - Come la terra che calpestate, album in cui una profonda spiritualità si mescola alla ricerca sonora in chiave world e ambient.

Nicola Alesini è sassofonista e compositore. Nella sua musica si fondono jazz, le ricerche della tradizione popolare e Mediterranea, ambient, world music e minimalismo. Lavora da sempre con la poesia, il teatro, il cinema e la danza, ed ha al suo attivo una ventina di produzioni discografiche in cui ha ospitato musicisti di fama internazionale: da David Sylvian a David Torn, da Roger Eno ad Harold Budd, da Steve Jansen a Richard Barbieri fino a Hans Joachim Roedelius, Negli ultimi anni ha collaborato con Rita Borsellino per le celebrazioni in memoria del fratello Paolo realizzando partiture ad hoc e ha composto le musiche per Soltanto il mare e C.A.R.A Italia, docufilm di Dag Ymer sulla condizione dei migranti nel nostro Paese. Fa parte del Claudio Lolli Trio.



 

mercoledì 28 dicembre 2016

Il bello degli anni Ottanta

Ora che lo scorso Natale – Last Christmas – è stato consumato e che questo 2016 mefitico si sta finalmente chiudendo, ognuno potrà fare i conti con i propri ricordi e la playlist privata di canzonette e tormentoni. Ora che George Michael si “è spento serenamente” a 53 anni, per cause “ancora ignote ma non imprevedibili” – come recita il comunicato del suo agente – si potrà tentare di restituire dignità a una icona del pop mai entrata nella reale lista delle “british icons” (battuto perfino da Robbie Williams dei Take That, che smacco).
Cento milioni di copie vendute quando i dischi erano oggetti reali e non streaming liquidi, sette album ufficiali in studio (tre con gli Wham! e quattro da solo), e poi live, cover, duetti epici, soprattutto una smitragliata di singoli perfetti e video altrettanto laccati in una carriera durata effettivamente un ventennio. Questo in due righe era George Michael, ovvero Georgios Kyriacos Panayiotou, nato a Londra nel 1953 da padre greco-cipriota e madre inglese, capostipite delle boy band, il ragazzo con il giubbottino nero e il ciuffo impomatato che amava Lennon, Elvis, Stevie Wonder, il soul e il r&b, e che ha impiegato una vita a distruggere ciò che era stato per costruire un altro se stesso. Una vita spesa a farsi accettare senza pregiudizi, per citare quell'album del 1990 – Listen without Prejudice vol. 1 - , cambiare passo, bruciare il “chiodo” di pelle e il jukebox (come nel videoo di Freedom '90), cancellare la sua stessa immagine, imporsi solo come musicista piuttosto che come belloccio platinato.

George Michael non ha perso la battaglia: alla fine è riuscito a dire quello che voleva, a far tremare il pubblico con una voce notevolissima e un gusto per la melodia pop mescolata a elementi neri, a cantare con i più grandi del mondo e oggi, a farsi rimpiangere. Quel che ci resta, a parte gli album e le private memorie di ciascuno, è un uomo molto più complesso di quello che sembrava, alle prese con i propri demoni, incalzato dalla peggiore stampa britannica a caccia del mostro da sbattere in prima pagina, sfiancato dalle case discografiche e dai fan che lo avrebbe voluto cristallizzare nello stereotipo del giovanotto gaudente di Club Tropicana, modello di una rivista fashion a galleggiare in piscina. Si è ribellato spesso George Michael: alle regole, ai luoghi comuni, all'eterosessualità imposta dal Circo Barnum del pop. E ha pagato ogni curva presa ad alta velocità: il possesso e l'uso di droghe, l'andirivieni dai rehab e dalle aule dei tribunali, la guida in stato di ebbrezza, gli atti osceni in luogo pubblico fino a essere sbattuto in carcere. E poi ancora denunce, la causa con la Sony per essere finalmente padrone della sua musica, le lezioni degli altri colleghi gay – da Elton John a Boy George fino a Morrissey – che avrebbero voluto più esplicito e meno tormentato il suo outing, reso pubblico solo nel 1998 con Outside, singolo che gli costò altri guai con la polizia.

In realtà Michael fu meno effimero degli anni Ottanta che lo videro protagonista con Andrew Ridgeley del successo degli Wham!. All'epoca era appena maggiorenne, già surfista d'alta classifica in un microcosmo dorato e di plastica, a base di modelle scosciatissime, bicipiti in bella vista, capelli gonfi e ciuffi laccati. L'epoca dei Duran Duran e degli Spandau con Margaret Thatcher rieletta dopo la guerra delle Falklands e la Gran Bretagna costretta a fare i conti con una crisi economica da lacrime e sangue. Il new pop sembrava impermeabile a quei giorni durissimi, allo sciopero dei minatori, alla perdita del lavoro per migliaia di sudditi della Regina. C'erano i video di MTV a raccontare un mondo parallelo e inesistente come il set del Truman Show: barche, auto, cocktail e bella vita. Un immaginario lezioso contenuto in tre album e svariati singoli: da Bad Boys a Wake Me Up Before You Go-Go fino alla ballatona Careless Whisper. E poi addio Wham!, nell'87 George Michael inizia la propria carriera da solista con Faith, prende due Grammy, canta con Aretha Franklin, diventa la voce sfacciata della lussuria (I Want Your Sex), gioca con le ambiguità sessuali e pare impersonare la carne e l'estetica del pop. Ci metterà tre anni a crescere, a realizzare Listen Without Prejudice Vol. 1 dove decide di non apparire, con la pretesa di essere più musicista che star. Quindi in Freedom '90 brucia il famigerato giubbottino fa esplodere il juke-box e comunica al mondo di essere finalmente adulto. Il disco successivo arriverà sei anni dopo – Older – e l'ultimo ufficiale, il più lacerato e complesso nel 2004. Si intitola Patience, title-track composta con il pianoforte di Lennon (comprato e poi donato al Museo permanente in onore dell'ex Beatle) e una serie di riflessioni sulla morte: da Please Me Send Me Someone, dedicata come la bella Jesus To A Child alla memoria del compagno Anselmo Feleppa ucciso dall'Aids a My Mother Had A Brother per lo zio deceduto il giorno in cui George era nato. Come scrive Simon Hattenstone sul Guardian il concetto di finitezza lo ossessionava: aveva perso in sequenza l'uomo che amava, la madre, il produttore Phil Ramone e persino un cucciolo di Labrador, viveva da recluso in una casa a Highgate, nord di Londra, assediato dai fan e dai tabloid. “Gran voce (quando non aveva fumato troppo), grande cantautore (prima del blocco creativo), grande personalità (quando non era troppo fatto)”. Sopravvissuto per miracolo a un incidente, a una polmonite, agli stravizi, eppure “bad boy” fino alla fine con la ricerca di sesso occasionale nel parco di Hampstead Heath e l'abuso di sostanze, una scimmia sulla schiena che non riusciva a scrollarsi da dosso nonostante l'aiuto degli amici, Elton John in primis.
Ma che voce, appunto. Basta riascoltare la sua versione di Somebody To Love dei Queen nel tributo a Freddy Mercury o la plasticità con cui riusciva a duettare sia con Luciano Pavarotti che con Whitney Houston o Paul McCartney.

Nel 2011 parte il Symphonica Tour con tanto di orchestra al seguito e arriva immancabile anche un album di cover. Sembrava che George si stesse rimettendo in carreggiata, pronto per un nuovo disco con pezzi originali che, invece, non è mai arrivato. Sembrava che il ragazzo che aveva stigmatizzato la politica inglese e l'alleanza con gli Usa per l'uso dei missili Cruise avesse trovato il suo punto di equilibrio. Sembrava che il musicista che aveva donato i diritti d'autore di Last Christmas a Band Aid per combattere la fame in Africa, quello che aveva cantato per Mandela e sostenuto la ricerca per combattere il virus dell'Hiv, avesse ripuntato la bussola. Più forte, più solido, capace di fare i conti con un passato ingombrante e un futuro tutto da scrivere.
E invece per George Michael questo è stato il Natale definitivo, una festa feroce lontano dalla neve di quel video che ha fatto innamorare generazioni di ex adolescenti che sognavano commedie rose e vite perfette. E che ora lo piangono come si piange la gioventù perduta.

Daniela Amenta

(l'Unità 27 dicembre 2016)


sabato 12 novembre 2016

So long, sir

Lo sapeva bene Leonard Cohen. E ci aveva avvertiti. Lucido, concreto fino alla fine. Perché poi, solo i giganti, sanno affrontare con consapevole dolcezza  la  morte, mettere un piede nel paese sconosciuto narrato da Shakespeare, guardare il buio e volerlo perfino più scuro.  «Hineni, hineni, hineni», ripete tre volte Cohen nel suo ultimo disco, You Want It Darker. È il lamento  di Abramo che nella Bibbia consegna il figlio Isacco alla volontà di Dio. «Sono pronto, Signore», canta con quella voce che è catrame e miele bruciato, abisso delle scale tonali. Era pronto Leonard Cohen. Lo aveva scritto  in una lettera struggente a Marianne, la musa bionda,  suo grande amore, scomparsa a luglio. «È arrivato questo tempo in cui siamo entrambi molto vecchi e i nostri corpi cadono a pezzi (…). Sai che ti sono così vicino che se allungassi la mano troveresti la mia. Penso che ti seguirò molto presto. Addio mia infinita bellezza, ci vediamo lungo la strada». Lo aveva ribadito in una intervista, bellissima e feroce, a David Remnik pubblicata lo scorso 17 ottobre su The New Yorker: «È la condizione del mio fisico a limitarmi. Devo sdraiarmi spesso, ora. Il grande cambiamento rispetto al passato è la vicinanza con la morte. Sono una persona che cerca di finire quello che ha iniziato. E quindi sono pronto ad andarmene. Sento il Bat Kol (in ebraico è la voce divina, ndr), sembra dirmi “Stai perdendo troppo peso Leonard, stai morendo”. C’è una realtà  profonda accanto a noi, ogni tanto emerge. La percepivo perfino quando ero in buona salute, adesso la vedo con chiarezza».
Leonard Cohen, nato a  Montréal 82 anni fa, ha attaccato al chiodo l’inseparabile cappello, si è tolto l’impermeabile blu per l’ultima volta lunedì 7 novembre. I funerali sono stati celebrati ieri nel “suo” tempio,  alla Shaar Hashomayim Synagogue di Montréal, la congregazione a cui l’artista e la sua famiglia appartenevano: sia il  bisnonno di Leonard, Lazarus, che il nonno Lyon ne erano stati presidenti. Ad accompagnarlo il coro diretto dal cantore della Sinagoga,   Gideon Zelermyer, lo stesso che risuona melodioso e celestiale in You Want It Darker. La scorsa notte, infine, la famiglia ha dato l’annuncio ufficiale.

Quando per definire un musicista si ricorrere alla parola “poeta”, spesso si esagera. Non nel caso di Cohen che inizia la propria avventura proprio come tale, pubblicando nel 1956 la prima raccolta di versi, Let Us Compares Mythologies, seguita da Six Montreal Poets e da The Spice Box of Earth. E poi i romanzi - The Favourite Game e Beautiful Losers -  scritti nei giorni del vino e delle rose, a Hydra, in Grecia, con accanto Marianne bella come una sirena bionda.  Solo nel 1967 esce il suo primo album, Songs of Leonard Cohen, ha già 33 anni, lo spinge verso la musica Judy Collins, la prima a cantare Suzanne.  Lui ha imparato a suonare la chitarra grazie a un amico spagnolo («Solo flamenco, con una sei corde, mentre a me piacevano Robert Johnson, il jazz di Count Basie e Billy Holiday, il lirismo di Edith Piaf e Jacques Brel...», raccontò poi). È un disco intriso di malinconia, che parla di morte, di depressione.  Un album respingente inciso da un uomo conflittuale:  tutti temi, che con differenti toni e sfumature, Cohen svilupperà nel corso di una carriera tanto parca quanto mirabolante. Tra le molte leggende che si narrano sull'artista canadese  c'è quella degli studi di registrazione riarredati con il mobilio della sua camera da letto, perché Leonard si sentisse a suo agio e cantasse con facilità.

In 50 anni di carriera  solo quattordici album in studio, gli ultimi tre – Old Ideas, Popular Problems e il definitivo You Want It Darker realizzati tra il 2012 e il 2016 – come se l'urgenza di dire si fosse fatta impellente. Quattordici dischi come Songs From a Room (1969) che contiene Nancy e Bird On The Wire, Songs Of Love and Hate (1971)  con Famous Blue Raincoat , il corposo  New Skin for the Old Ceremony (1974) e Death of a Ladies' Man del 1977, che è uno spartiacque. Lavoro prodotto da Phil Spector  in cui appaiono, tra gli altri,  Allen Ginsberg e Bob Dylan.  E poi il resto, e da citare c’è almeno I’m Your Man del 1988,  e  canzoni come inni per cuori spezzati e anime gentili ma ribelli. Canzoni come Hallelujah, The Partisan, So long,  Marianne, Chelsea Hotel#2, Sisters of Mercy, Tower of Song o First We Take Manhattan che hanno prodotto cloni, versioni, incidendo nell’immaginario di una marea di musicisti a venire. E in parallelo l’attività di poeta e romanziere con Book of Mercy, The Energy of Slaves o Book of  Longing, tradotto in Italia come Il libro del desiderio tra versi luccicanti e piccoli, meravigliosi disegni.

Un’anima incomparabile Leonard Cohen, “l’uomo con l’oro in bocca” sopravvissuto alla depressione, cantore di gesti estremi e  disperati eppure capace di quella ironia yiddish con cui sapeva liquidare e irridere  gli eccessi degli Stati Uniti e dell’Occidente, languido come un gatto e brutale quando c’era da raccontare guerre disumane. C’è gente che danza, cammina, fa sesso,  piroetta e si ammala di amore infinito e  di tristezza nell’universo di Cohen. C’è un piccolo ebreo seduto nella terza fila della Sinagoga di Montreal che studia e prega, c’è un bambino di 9 anni che vede morire il padre e che per consolarsi sotterra nel giardino di casa il papillon del genitore e un frammento di carta dove descrive il proprio dolore.  C’è un giovane bello, con gli occhi blu, che fa impazzire le donne e che impazzisce per loro. C’è lo studioso della Bibbia  che cita re David, Betsabea e Sansone, affamato di letteratura, attraversatore indomito di un miscuglio formidabile di culture e stili di vita: dall’intimismo del folk al pacifismo hippie, dalla Beat Generation alla rivoluzione digitale del Terzo Millennio.
C’è Leonard il monaco Zen ordinato nel 1996, presso il Mount Baldy Zen Center, a 200 km da Los Angeles, con il nome di Jikan, il silenzioso. Anni di meditazione e patimenti («riflettere su se stessi non è mai una festa», disse) accanto al suo maestro, Sasaki Roshi.  C’è una star defilata, generosissima sul palco, ridotta quasi in miseria dalla ex  manager. Un fallimento  che lo costrinse a tour estenuanti e a quei tre dischi in pochi anni. Ma You Want It Darker, uscito a fine ottobre, non è esattamente un testamento. Semmai  l’ultimo atto di una parabola intensa, immensa in cui Cohen guarda già altrove, oltre il  mondo terreno, le umane miserie.  Polvere alla polvere.  La finitezza come paradigma dalla quale non si sfugge.  E anche in questa opera scura, scurissima  si trova una crepa che fa filtrare la luce e illumina la nostra fragilità dolente. Come scrivemmo recensendo il disco: «In You Want It Darker c’è lo Zen e l'arte di mantenersi onesto e consapevole, gestire la fatica e salutare ogni giorno come un piccolo dono. C'è la pazienza di fare i conti con il dolore e c'è la saggezza di guardare al passato con disincanto e tenerezza per giustificarsi un po'. Solo un po'».  
L’uomo che ha provato per tutta la vita  a essere libero come l’uccello che dondola sul filo della luce - Bird on the wire  - è riuscito nella missione.  A noi resta una torre di suoni e di parole, il conforto del suo sorriso e un alito di vento che alza l’orlo di un impermeabile blu.

So Long, Leonard.


Daniela Amenta l'Unità 12 novembre 2016