mercoledì 25 dicembre 2013

L'albero di Natale alla stazione Termini

I rami più bassi pendono, stracarichi di messaggi. Qualcuno cerca di arrampicarsi come può pur di infilzare il proprio bigliettino, dire la sua, augurarsi un pezzettino di felicità, augurarla agli altri. Lo chiamano «l'albero dei desideri»: un semplice abete con i festoni, piazzato all'ingresso della Stazione Termini di Roma. Lo addobbano migliaia di foglietti che sono la fotografia di questa Italia stanca, spesso spaventata e ondivaga, che coltiva nel profondo sogni, bisogni, incanti. È come un muro questo abete grande e grosso che raccoglie speranze e guizzi, pensierini scemi e teorie di futuro. Un muro su cui lasciare la propria firma, il messaggio nella bottiglia. 
La leggenda metropolitana racconta che la prima ad attaccare sui rami un bigliettino fu una clochard: era il 2005. La donna cercava di dormire tra i cartoni e un vecchio sacco a pelo ma c'era troppo rumore. Trovò un foglio di carta e una penna, scrisse: «Caro Babbo Natale portaci un po' di silenzio, per favore. Anche noi abbiamo diritto di riposare». Poi, sono arrivati gli altri. Tanti, tantissimi. Dai turisti che passano dalla stazione e salutano Roma in tutte le lingue del mondo ai pendolari che aspettano un treno in perenne ritardo, dai passanti infreddoliti ai cassaintegrati dell'Agila che hanno raccontato la loro protesta, la sofferenza, la paura servendosi anche dell'albero di Termini, dai migranti agli studenti. 

Un abete come cassetta della posta, letterine di adulti indirizzate a Gesù Bambino o a Santa Klaus. Lo specchio di un Paese che ha fame di lavoro, soprattutto. La maggioranza dei messaggi chiede un posto, un'occupazione, un progetto per guardare al futuro. Nel 2010 una donna attaccò la propria busta paga da 600 euro al mese. Scrisse: «Vedi se puoi fare qualcosa di meglio». Oggi c'è chi appunta il proprio curriculum, come un ragazzo di Gugliano, diploma tecnico in ristorazione, nato il 24 dicembre del 1991. Nato proprio a Natale. Chissà se da qualche parte c'è anche per lui una piccola stella cometa. E poi Giulia che su un foglio di quaderno aggiunge: «Fammi lavorare. E visto che ci sei porta pure la pace sulla terra». 

C'è chi prepara il proprio messaggio a casa, in bella calligrafia, ci aggiunge disegni e colori. Ma i più scrivono su una panchina, per terra, appoggiati sui corrimano. Scrivono di getto, sul retro di uno scontrino della spesa, su un pezzetto di manifesto pubblicitario staccato dai muri, su di un foglio stropicciato. Pensieri e parole di carne in questi anni virtuali, sintetici. Sui rami c'è di tutto. E c'è posto per tutti. Strati di pezzi di carta, uno sull'altro. C'è chi chiede di avere un bambino, chi spera di incontrare l'amore o di tenerselo, chi sogna un viaggio, un diploma, più soldi, una vittoria magari alla Lotteria o un trofeo per la propria squadra del cuore. C'è chi augura semplicemente buon Natale, chi - come Mauro – «vorrebbe la forza e il coraggio di lasciare questo Paese per sempre». C'è chi disegna cuori e chi manda al diavolo tutti «i politici ladri e infami», c'è chi insulta e chi immagina un nuovo anno bellissimo. C'è anche chi pensa agli altri come Nadia e Fabrizio che in una lunga lettera scrivono: «Caro Babbo Natale, io e e il mio compagno avremmo molte cose da chiederti in regalo, tra le quali un lavoro che ci permetta di vivere dignitosamente. Ma siamo abbastanza giovani, forti e guerrieri. E quindi ci sentiamo obbligati a chiederti un'altra cosa. Devi aiutare Francesca e Concetta, le ultrasettantenni che vivono sui marciapiedi della Stazione Termini in Piazza dei Cinquecento, da oltre 30 anni visibili a milioni tra turisti e pellegrini, ma invisibili alle istituzioni. Ti preghiamo di rendere dignità a loro, al popolo romano e a quello italiano». 

L'albero accoglie qualunque desiderio. Qui non si può aggiungere «mi piace» come su Facebook, non si può condividere come su Twitter. Pensieri e parole restano lì, immobili, scolpiti, fino alla fine della feste. Poi spariscono quando l'abete viene portato via con i festoni d'argento, quando le lucette si spengono. Peccato. Sarebbe bello tenere da parte queste lettere d'Italia all'Italia, che scandiscono il trascorrere del tempo attraverso gesti tanto semplici quanto antichi. Sarebbero da conservare questi desideri, sperare che almeno qualcuno si sia realizzato. E che l'albero di Termini, muto e immobile, possa un giorno trovare la voce per raccontare un Paese migliore.

Daniela Amenta
(L'Unità 24 dicembre 2013)

giovedì 28 novembre 2013

Into your arms, oh Nick


E' lui l'ossimoro. Tutto e il suo contario, soprattutto il bene e il male, soprattutto la redenzione e la perdizione, l'angelo e il demonio in una sola anima palpitante, guerriera, nero catrame. Qualche patto infernale Nick Cave, da Warracknabeal, deve averlo controfirmato cou una piuma di pavone intinta nel sangue. Ha 56 anni e sembra più giovane di quando ne aveva 26 nonostante i draghi, le droghe, la vita misera sull'orlo dei precipizi, le botte date e ricevute. Sembra un uomo pacificato, Nick. Un uomo che si concede, si dà, dà “il proprio cuore in pasto al pubblico” come avrebbe detto Oscar Wilde sfogliando un garofano verde. Lo si capisce subito. Entra in grande stile con una band sinceramente mediocre, figuranti stonati rispetto ai veri Bad Seeds, entra nella sala buona dell'Auditorium di Roma sculettando. Attraversa il palco con falcate da ballerino, da star. Più alto e più magro di vent'anni fa, sempre Roma ma al Tenda a Strisce, dove tenne uno show timido, nervoso, irrisolto.
Oggi no. Oggi è in forma. Vuole amare, farsi amare. Accetta il primo mazzolin di fiori dalla fan in giuggiole, ne bacia un'altra. Palco buio, luci bianche incandescenti. Parte We No Who Ur.

Sembra un concerto, all'inizio. Poi alla seconda strofa di Jubilee Street, Nick Cave alza il tiro. Il suono è saturato al limite dell'umana sopportazione, ma così serve. E' suono al calor bianco, è rumorismo crudele, è il punk che infuria smidollato ed elementare, è il rock piegato come un Cristo in croce. Un muro di note e tutta la meravigliosa, coatta, abusata retorica dei quattro quarti trasformati in marcia funebre e opera erotica. Gli adepti del culto, i missionari del King Ink, schizzano dalle poltroncine in velluto rosso, dritti verso il palco. Si alzano centinaia di mani. Il re si fa toccare, sporge il bacino pelvico, il petto. Ecco, prego, prendetemi. Sono carezze, baci, urla: una piccola orgia collettiva. Il re si sostiene con quelle mani. Si tuffa tra quelle mani. Le mani lo sostengono come un ponte. Sono le mani di Henry Lee, delle donne avute, di quelle sognate, quelle ammazzate da Barbablu: Deanna, Alice, Sugar sugar sugar, Lucy, Christina, la moglie di John Finn, Cassiel, Betty Coltraine. Into my arms, oh Lord.

Ci sono giorni di inchiostro. E quando arrivano questi giorni, con mantelli scuri e refoli di vento gelido e brividi, bisogna avere il coraggio di guardarli in faccia. Avere il coraggio di aprire la porta, di far accomodare ricordi e manie, e di riascoltarsi un pezzo, un bel pezzo di vita. La propria. La nostra. La tua. Quando arrivano i giorni di inchiostro, la musica è del King Ink. re della
nostra miserevole e fiammeggiante antologia di Spoon River, re e predicatore, il reverendo Cave armato di doppietta, il satanasso Nick con camicia nera sul palco che bacia tutti e da tutti si fa baciare: ragazzine, donne fatte, pischelli in estasi. Love Letter.

L'estasi arriva con Higgs Boson Blues ed è un pezzo imperativo. La sintesi del delirio e della rinascita. Cave benedice, maledice. Il trono della misericordia attende.

E in un certo senso spero
di farla finita con questo esame della verità
Occhio per occhio
Dente per dente
E non ho più niente da perdere
E non ho più paura di morire”.

The Mercy Seat arriva inarrivabile. Quanto Deanna.
Lui è venuto, lui se n'è andato. Non voleva il nostro amore, non voleva i nostri soldi. Voleva la nostra anima. Se l'è presa. 

Daniela Amenta
28 novembre 2013

venerdì 22 novembre 2013

Oh violino tzigano



romeo ha 11 anni: a volte ne dimostra 6, a volte 60. e suona la fisarmonica, proprio come in una tristissima canzone di gianni morandi. solo che lui, romeo, le mani ce le ha piccole, da bambino. mani grassottelle coi buchini tra le falangi. e con queste manine suona, gonfia il mantice, attraversa i tasti. "suona suona per me o violino tzigano", e gira tra i tavoli dei bar in centro con la fisarmonica rattoppata, tenuta assieme dal nastro adesivo e un bicchieretto di cartone sopra. chi vuole gli lascia un soldo dentro. ha classe, anche nel chiedere, viene dalla romania, da un paese molto vicino a bucarest.

mi ha spiegato. anzi, mi ha disegnato la carta geografica sul tavolino del ristorante e mi ha indicato il suo paese. "io sono questo", ha detto, sottolineando un punto indistinto tra la forchetta e il bicchiere. mi ha raccontato che una fisarmonica per grandi costa poco (50 Euro) ma una per bambini può arrivare anche a 200. 

ha una faccia tonda, i capelli come manolito, sempre in ordine: i pantaloni azzurri, una vecchia maglietta che gli sta grande, sembra un vestitino, blu e rossa, le scarpe da ginnastica che forse un tempo devon esser state bianche. occhi bellissimi, di brace.
è in italia da 11 mesi, ma parla molto bene. quando mi vede mi sorride tutto di traverso, un sorriso appena accennato, poi mi raggiunge e la fisarmonica si gonfia e si restringe a furia di macinare canzonette. gli ho giurato che gli insegnerò libertango di piazzolla. la canterò tra i tavolini dei bar del pantheon e lui mi verrà dietro a suonarla. 

questa cosa, questa che ci siamo promessi, è un patto vero. ci siamo stretti la mano io e romeo.

Daniela Amenta


giovedì 21 novembre 2013

Obitorio


per esteso, l'insegna dice: "pizzeria dei marmi". ma non c'è uno in questo budello di caput mundi che l'abbia mai chiamata così. qui è detta, ovvero unanimente riconosciuta, come "pizzeria l'obitorio". o per la precisione "obitorio" che i passati proprietari, famiglie moroni e casini, s'encazzavano pure un bel po', toccandosi le parti basse senza manco fingere improvvisi danni prostatici.
sta qua da sempre, l'obitorio, viale trastevere, circa 2mila tavoli in marmo bianco da anatomopatologo e una corte di infermieri-camerieri che va e viene a duemila mentre la caposala, biondissima occhialuta e procace, chiama a voce alta 22 margherite, 15 capricciose, 18 napoli, 6 ortolane (una senza alici). bisturi, plis.
è una fabbrica, è il ministero della pizza romanesca, sottile, ostia croccante, niente de che, ma il rito è rito, e l'obitorio ne fa parte perché è qui, e qui resta. a dispetto del tempo, e sempiterno, con le pale dei ventilatori che gracchiano e graffiano il soffitto, il bancone di marmo, l'alzatina degli alcolici compresa una boccia di liquore strega, ormai più verdognola che gialla. uguale, uguale, anche a ripescare i ricordi più lontani, con la scritta al neon: supplì al telefono, filetti caldi di baccalà, fagioli al fiasco, con le cotiche, con l'osso di prosciutto, e la magnifica insalata capricciosa, mai mangiata, ultimo e inespresso desiderio da rimandare per quando sarà tardi per davvero.
ma all'obitorio non è tardi neanche alle 2 del mattino. che gli infermieri-camerieri spingono de brutto, col nome sulle camiciole bianche, ma basta che li chiami "capo" e arrivano, cioè accorrono al capezzale, strusciando piedi, piedi che percorrono chilometri, chilometri d'asfalto e carciofini, un miliardo di uova sode, tremila tonnellate de pommodoro e mozzarella.
li chiami capo, tutti, tranne lui, valerio, spiccicato a bernard blier, l'immenso spaccapalle della commedia francese, e poche ciance. che qui la pizza s'accompagna a gazzosa Neri e 'na fojetta, quarto di vino castellano bianchissimo e rughetta "nun ce sta", al massimo cicoria ripassata, e l'anguria calda arriva mescolata ai cubetti di ghiaccio. e roma pare roma.
con gli avventori, fuori in fila che te controllano il tempo che ce metti, orologio al polso, il tempo che scivola grandioso tra un'oliva ascolana e un fiore di zucca, un tavolo di marmo che si libera e una rosa - comprarosaeddai - che appassisce prima che valerio porti il conto.
heroes. just for one day.
Daniela Amenta


sabato 16 novembre 2013

My favourite things



questa storia che il jazz è un graffio nell'anima, la capisci dopo, molto dopo. all'inizio hai bisogno solo di adrenalina e rullate e marshall e tutto il vivido e fosforescente casino del rocknroll. poi di colpo è come se si aprisse una porta, anzi un cancello ma grosso. e impari che si può ballare, cantare, sognare jazz, e che è la stessa adrenalina, ma più di testa, meno condivisibile con gli altri. party privato tra te e te. e che gran scatti, slanci, sovrapposizioni, implosioni, fuochi d'artificio tra le orecchie e i lobi frontali cerebrali.
tutta questa musica meravigliosa.

my favourite things, dal vivo a stoccoma.  novembre del 1961. coltrane, eric dolphy, mccoy tyner, elvin jones, reggie workman, che madonna di quintetto. con il flauto magicissimo di dolphy, tanto che poi quel matto di mingus, quello peggio di un bastardo chiamò il figlio ericdolphy, tutto attaccato, a dimostrargli che lo aveva riconosciuto prima degli altri.
e pazienza eric il flautista e clarinettista, l'uomo che aveva respiro di un vulcano nei polmoni. e pazienza, dear, se sei morto giovane. ti conserviamo tra questa cascata di note.

di tutta questa musica meravigliosa che conosco poco, amo l'essenza a spirale. il tema che torna dopo 20 minuti di saltabecchi, passeggiatine al lato estremo dello spartito, viaggi altrove dei musicisti. che sembra nessuno vada dalla stessa parte, dici "ma che si sono dimenticati che stavano suonando?". e invece rieccoli, riecco la melodia infinita e suprema.

questo pezzo, my favourite things, in questa versione. da coltranology volume 1, con il vinile rigato. ecco, potrei rimettere l'attacco una miliardata di volte, a loop. con il timpano incollato sulla cassa, perché coltrane - si sente - si sente che prende fiato, prende fiato e attacca.
la più bella festa di paese mai celebrata a stoccolma. come un trane in corsa.

Daniela Amenta




venerdì 8 novembre 2013

Jello Biafra in viaggio di nozze a Roma




jello biafra (vero nome non pervenuto) nasce dalle sue parti. e cresce perfido e rasposo come carta vetrata. l'amerika non gliel'ha mai perdonato, mai, di aver formato un gruppo che si chiamava dead kennedys. che lì, tra stelle e strisce, si può scherzare con tutto ma lascia stare i santi e la cara famiglia estinta. quindi censure su censure, nessuna casa discografica a voler produrre un disco a 'sti mascalzoni. jello allora fonda l'alternative tentacles, indie davvero tentacolare e primo esempio di distribuzione fuori dai circuiti convenzionali. una delle sue cose migliori, insieme al concerto che i kennedys morti tennero a roma.

biafra era magro e perverso, quando suonò al much more. indossava stivaletti borchiati. volavano sputi dappertutto e pogo tosto e ginocchiate fin sulle costole. mani punk tentavano di arrampicarsi verso il palco per sfiorarlo o placcarlo. I pochi che ci riuscirono ancora se lo ricordano. jello indomito prendeva la mira e con il tacco rozzo e squadrato dello stivaletto pestava le dita dei fans, manco fossero cicche. "siete punx? e allora soffrite". il tour italiano fu anche l'occasione del suo viaggio di nozze. ora, jellobi era un mostro di cattiveria on stage. ma sotto, sotto aveva un cuore rocknroll quindi anche tenerone.

la sua signora, uscita direttamente dai camerini di nashville, vestiva un abito di veli bianco, con bei ricamini e grandi svolazzi. la grassottella signora biafra. i due piccioncini costrinsero i fans con le mani fasciate a inseguirli sotto il colonnato di san pietro dove presero moltissime foto e altrettanto se ne fecero scattare, lanciando fiori, riso e confetti. come una vera coppia.

biafra si candidò poi alle elezioni come sindaco di san francisco e riuscì ad arrivare in pole position con un programma che prevedeva vigili urbani e poliziotti vestiti da clown (massì, ma che palle le divise. via col naso rosso di mastro ciliegia e la parrucca di riccioli di paglia). e in questo l'amerika è strana forte, perché non lo ha mai perdonato, ma un altro po' lo fa accomodare su una poltrona vera, da primo cittadino.
qualora l'insediamento fosse avvenuto, jello biafra avrebbe salutato frisco cantando: "love me love me love me, I'm a liberal". ora si limita a eseguirla con mojo nixon. che non è un parente.

Daniela Amenta

domenica 3 novembre 2013

Frank Black, The Cult Of Ray




Se il compito dell'arte - come diceva Adorno - è di introdurre caos nell'ordine, Charles Michael Kitridge Thompson IV detto Frank Black, è nello specifico un vero equilibrista. Dall'87, erano i tempi di Come On Pilgrim, la sua 'missione' è quella di inserire elementi inconsueti nell'oramai prevedibilissimo universo dei quattro quarti. I suoi dischi da solo, questo è il terzo, sono in effetti un campionario di riff, svisate, déjà-vu ritmici, echi e riferimenti mescolati in una tessitura surreale assolutamente sorprendente. Un puzzle armonico che si definisce nota dopo nota, che cambia andamento di continuo. Si interrompe, riprende, modifica rotta e obiettivi. Poi riparte. Destinazione sempre sconosciuta.

Frank Black è un genio. Non solo perché è uno dei pochi che nel bazaar modaiolo della musica introduce quei 'famosi' elementi di caos. Non solo perché cita un miliardo di cose e non somiglia mai a nessuno.

Frank Black è un genio perché si porta il rock a spasso come fosse un cagnolino. Ne sposta il baricentro. Lo tratta con un'ironia sottile, se lo coccola tra le corde della chitarra, lo sbaciucchia e gli fa il verso. Lo prende in giro e gli celebra monumenti dadaisti. Un destrutturatore nato. Uno che - immagino - con i cubetti della Lego invece di costruire casette e automobiline tirava fuori giraffe con teste di elicotteri e piedi palmati. Meno fluviale del magnifico Teenager Of The Year, più omogeneo del primo, omonimo Frank Black, The Cult Of Ray è un album incandescente, pirotecnico. Un'altra piccola pietra miliare nell'imponderabile cammino del ciccione più simpatico d'America. Perché se è vero che ogni canzone di Black è un microcosmo a sé stante, è altresì necessario aggiungere che esiste un fil-rouge che unisce The Cult Of Ray ai lavori precedenti. E naturalmente alle memorabili produzioni targate Pixies. 
Un filo che Frank tira, taglia, riavvolge. "Io suono per gente che sa comprendere il rock'n'roll", ha detto. Giusto. E allora orecchie all'erta perché questo è un omaggio all'intelligenza del rock'n'roll, alla sua svampita energia, al suo potenziale rivoluzionario, ai suoi eccessi e a tutta la sua stravagante paccottiglia di miti, eroi, santi, martiri, cliché, luoghi comuni. Tutto assieme, niente escluso. Così The Cult Of Ray celebra, innanzitutto, il punk rock e si ciba di Stooges, Doors, Stranglers, Dead Kennedys, Devo, Cramps, Utopia, Velvet, Talking Heads. Come se Black avesse metà della testa occupata da un campionatore capace di memorizzare e riprodurre i frammenti sonori più disparati della storia del rock. E nell'altra metà un frullatore che mischia e tritura.

 Risultato: un disco adrenalinico, godibilissimo, veloce. Le prime cinque tracce schizzano via a duemila. Lui offre chicche chitarristiche a piene mani, forse anche per celare la clamorosa assenza di Joey Santiago, spande pennellate di virtuosismo strumentale con gioiosa nonchalance. Arriva I Don't Wanna To Hurt You, ballatona elettrica in stile Graham Parker ispirato. Ecco lo strumentale anfetaminico Mosh, Don't Pass The Guy. Ecco il desert rock rovente di Kicked In The Taco. Ecco la lunare, aritmica, sensuale e byrniana The Creature Crayling. Un altro strumentale, The Adventure And The Resolution, superbo stacco marziano che introduce Dancewar, ruvida perlina al fulmicotone. La title-track è un fuoco d'artificio dislessico tra improvvisi ralenti e furibondi schizzi melodici. Il tutto si chiude con la languida The Last Stand Of Shazeb Andleeb, deliziosa cantilena dagli accenti morbosi. 
Ottima lezione d'arte questo nuovo capitolo del Franco Nero bostoniano. Che tra battute al cianuro e insondabili coretti risponde con la sua classe formidabile ai vari neo-punkers e saluta irridente - bye bye - le proprie infinite radici, ricandidandosi come adolescente dell'anno.

Perché il rock, si sa, mantiene giovani forever and ever. Soprattutto se, più che uno stile, è un modo irrequieto, perspicace e pungente di guardare fuori e dentro di sé.

Daniela Amenta
Mucchio Selvaggio
1996

Dead Can Dance: Anastasis

Come le facciate delle cattedrali gotiche, anche le copertine dei Dead Can Dance sono una delle chiavi di lettura per addentrarsi nell'universo di Lisa Gerrard e Brendan Perry. In questo caso c'è un campo di girasoli bruciati dal sole, segno che il viaggio più oscuro è terminato e che ci troviamo davanti ad un'opera terrigna ma in grado di guardare in alto. D'altraparte lo stesso titolo del disco, Anastasis, («Resurrezione» in greco) indica una svolta verso una direzione precisa. Dopo sedici anni dall'ufficiale scioglimento e da Spiritchaser, i due si ritrovano. 

Una storia complessa, e con ricaschi anche sentimentali, quella tra la contralto australiana e il polistrumentista britannico. Una storia cadenzata da opere che vanno ben oltre la semplice fruizione musicale e sono parte di un viaggio intimo e profondo. Un viaggio alchemico tra inconscio e ultraterreno, esoterismo e magia. Un viaggio tra popoli e continenti, radici e lingue antichissime, cancellate, tra suoni potenti, viscerali e rimandi ancestrali. Ecco, la resurrezione dei Dead Can Dance questa volta si fa concreta. Per la prima volta nella storia della band nata nel 1981, siamo alle prese con un disco vero e proprio e non con una struttura simbolica, non con un contenitore metafisico. Canzoni-canzoni, testi-testi. Significante e significato che coincidono. 

Una resurrezione costruita su tappeti armonici, voci belle, melodie ricchissime e naturalmente molto raffinate, autocitazioni ed eleganti rimandi. Lisa Gerrard resta più trasversale che nel passato, Perry dirige le danze a cominciare da Children of the sun, singolo orchestrale che vorrebbe riecheggiare le grandi aperture di An American Dream. E quindi scorrono Opium, Agape, Amnesia, Kiko, titoli suggestivi, echi orientali e celtici mescolati con gusto sinfonico. A tratti la liturgia risulta artefatta (come in Return of the She-King), a tratti annoia per la reiterazione fin troppo dilatata e monocorde e senza finale a sorpresa (ed è il caso della conclusiva All in good time). Sia chiaro: Anastasis è un lavoro di qualità ma che non travolge, non intimorisce come è sempre accaduto con i Dead Can Dance. Spariti, addolciti, rarefatti i timbri di un'esperienza sonica importante e sofferta: il pathos ancestrale di Spleen and Ideal, il transglobalismo extratemporale di The Serpent's Egg, il misticismo mantrico di Within The Realm Of A Dying Sun. Dischi che facevano tremare le vene dei polsi, spostavano l'ascoltatore in altre dimensioni e in altre epoche. 


Così Anastasis sembra più il frutto di un ripensamento dopo una lunga separazione. Due vite parallele (sia Brendan che Lisa hanno folgoranti e fruttuose attività da solisti) che si ritrovano e hanno voglia di rispolverare il vecchio baule delle meraviglie ma senza aprirlo. Forse dopo un percorso così complesso, sfaccettato, difficile, dopo aver ridato voce e fatto danzare i morti, Gerrard e Perry hanno scelto una via più lieve. La via dei girasoli. La via della terra arsa e dei raggi di un sole nero. La via della vita. In fondo.

Daniela Amenta
Unità
Settembre 2012

Negazione o l'hardcore spiegato a un bambino


Era musica velocissima, potente. Musica come un calcio nello stomaco, come il vuoto nel diaframma nell'attimo in cui si vola da un palco. Era un urlo in faccia al futuro. Mordere la vita e masticarla in fretta. Era militanza, uno stato dell'anima, passione, rabbia. Erano i Negazione, da Torino, quelli dell'hardcore punk che cantavano poesie sbilenche, andavano andavano, a bordo di un furgone scassato andavano in giro a suonare. E non bastava mai. Un'esperienza umana e professionale durata fin troppo per quei tempi, quasi nove anni e mezzo, 1983-1992. Poi fine. Addio, ciao per sempre. 

E ora, vent'anni dopo arriva Il giorno del sole, dal titolo di una delle canzoni più belle, laceranti. Manifesto d'intenti. Un cofanetto edito dalla Shake che contiene i due dischi più importanti nella storia della band: Condannati a morte nel vostro quieto vivere e Lo spirito continua. Ma a dare un senso compiuto a questa storia, oltre i suoni, ci sono le parole. Un testo di 63 pagine scritto dai protagonisti: Guido Zazzo Sassola alla voce, Roberto Tax Farano alla chitarra, Marco Mathieu al basso. È il racconto dei giorni furibondi di uno dei pochi gruppi italiani ad avere credito e seguito anche all'estero, è una lettera, soprattutto, dedicata ad Elia, il figlio del batterista Fabrizio Fiegl, scomparso l'anno scorso a soli 46 anni. Ebbene, l'hardcore spiegato a un bambino ha lo stesso impatto che quella musica estrema aveva per chi la ascoltava nei «giorni del sole». Un fiume di energia, una valvola di libertà, l'impegno messo a servizio di un collettivo improbabile che viveva negli squat, nei centri sociali. Il web non c'era, si faceva rete in altro modo: fanzine fotocopiata, cassette da duplicare e far girare, lettere col francobollo spedite da ogni angolo del pianeta. E poi, a un certo punto, c'erano i concerti per incontrarsi, ritrovarsi

. Scrive Mathieu, che oggi fa lo scrittore e il giornalista: «C'erano altre creature nel mondo simili a te con cui condividere rabbia e divertimento... Rivoluzione minimale». Elia in questo disco troverà suo padre che picchiava duro e i suoi amici, fratelli gemelli, soci e sodali in un periodo irripetibile. «Incazzati che ridevano molto». A noi restano le tracce di una band che ci ha messo il cuore e ce l'ha fatto battere forte. Lo spirito continua.

Daniela Amenta
Luglio 2012
L'Unità

lunedì 28 ottobre 2013

Lou Reed, l'ultimo scavalco

Nel luglio del 2003 ero disoccupata. Nel luglio del 2003, il 24 luglio, Lou Reed suonò all'Auditorium di Roma. Pur di vederlo scavalcai. Questa la cronaca



trascuriamo il fatto che lou dimentica di lasciarmi un pass access all areas e che per arrivare a 40 mi mancano 35 euros. trascuro e provo il primo scavalco in stile, imboccando direttamente con l'auto presso l'ingresso tecnico e tentando il colpaccio seppur sul tavolo sia già stato calato un colore e io possieda only una coppia di jack.

l'omino della metropol, ligio al compito, mi ferma. ostento conoscenze altolocate, tal gianni bianchi - joe white se l'omino fosse stato d'albione - che m'attende con lo stesso mister reed direttamente nel backstage. mi dice male. perché il metropolman ha una fottuta radioricetrasmittente, e chiama ora salvo, ora lillo per accertarsi che l'inesistente gianni bianchi stia waiting proprio me. e mi fa perdere pure minuti preziosi, mentre la sottoscritta sbuffa annoiata, come a dire: "aho, ma te pare che te racconto na calla?" . dura quasi un quarto d'ora l'attesa al cancello tecnico, a base di america me senti?, senti salvo qui c'è na giornalista..., finché retromarcio e provo l'ingresso duro agratis, ovvero dall'entrata principale.

che lou reed mi stia aspettando, è chiaro. come arrivo parte street hassle, che riconosciamo in tre - io e altri due sficati posti al lato della cavea dell'auditorium - mentre il pubblico di merda (fate largo all'avanguardia - cfr opera omonima - antoni freak - bologna) sbadiglia e sonnecchia sotto il cielo stellato. l'ingresso duro è durissimo. un gentile ma ostico in doppiopetto grigio sbarra l'accesso anche a un babbo con creatura a carico: "lo vedi, lo vedi apapà? quello a tre quarti è lui, è lou(i)". le note inequivocabili di the bed m'impongono d'agire. m'incammino verso l'ingresso "super super special guest". mi ferma un altro in doppiopetto. "dove va?", fa minaccioso. "al concerto" , squittisco, "ah prego", commenta addentando pane e volpe.

m'inerpico. tento ingressi via toilette, via cantiere dove stanno sistemando piante e panchine. e proprio via cantiere, maledizione, m'imbatto in uno dei roadie di lou. alto, biondo yankee, auricolare, pantaloncini corti, pass plasticoso appuntanto sul notevole pettorale.
dice in perfetto romanico: "ma da dove s'embocca?". come da dove s'embocca? lei non lavora qui, non è un american boy?
ok, stringiamo portoghese sodalizio in un secondo. io non ho il biglietto, lui neppure, e non è il roadie di reed. 

strisciando come vermi, raggiungiamo finalmente la cavea. ci fermano di nuovo. il falsissimo roadie si finge marito a me (la mia signora necessitava di un quarto di mineral e ci siamo persi) e finally - in stile un uomo e una donna - ci accomodiamo sulle note di venus in furs. il pass che il giovinotto sfoggia è in realtà un gadget della omnitel.

non si sente una cippa, quantunque la locazione sia da 40 euros, centesimo più, centesimo meno. manca il drummer, ma c'è una batteriola elettronica, reed è in jeans e t-shirt nera, e la grandissima jane scarpantoni con violoncello suona elettrica e tesissima. segue fluorescente versione di dirty boulevard, con accompagno mimico del maestro tai-chi del Nostro. si strotolano: sunday morning unplugged, e all tomorrow's parties irriconoscibile, tutta di traverso, strozzata in gola. poi call on me sporca e malvagia, pura jazz poetry con the raven fino ad un'epocale set the twilight realing con mike rahtke alla guitarra, fernando saunders al basso e sua eccellenza the reed a spingere sui pedali di tutti i distorsori. fine. applausi. e bis. lou presenta anthony - voce d'angelo trans, un falsetto da coro bianco della sistina, struggente - e insieme acustici snocciolano candy says, perfect day e walk on the wild side che pare una cover dell'originale, tanto è sbilenca, obliqua.

buon concerto, se l'avessi seguito tutto per intero. avrei da discettare sull'acustica dell'auditorium di roma, e qualche rallentamento di troppo. ma sarei poco credibile, viste le circostanze.e infine. m'imbatto nel traffico dei gitanti di caetano veloso, gratis pure lui, in piazza del popolo. fra 10 giorni la capitale rimetterà il silenziatore. viviamo come le falene, solo d'estate. d'inverno ci s'accontenta di gerry scotty, e al massimo si sceglie di scegliere tra un sugo pronto knorr e 4 salti in padella.
portami via, lurid.


24 luglio 2003



venerdì 18 ottobre 2013

E le bambine si presero i paesi fantasma



Il comune di Baradili, fra le colline della Marmilla e le falde della Giara, è il più piccolo della Sardegna. Un luogo delizioso con 97 abitanti noto per i reperti medievali e la sagra del raviolo. Per far crescere la popolazione la giunta del sindaco Lino Zedda ha messo a disposizione dei papabili nuovi residenti tutte le opzioni deliberate dalla Regione a favore dei centri sottopopolati: trentamila euro a fondo perduto per la ristrutturazione di una vecchia casa del paese e 1500 euro per la nascita o adozione di un nuovo bambino (2mila dal secondo in poi). Requisito fondamentale: essere abbastanza giovani, trasferirsi a Baradili almeno per 10 anni, magari figliando. Per chi volesse approfittarne c'è tempo fino a luglio.

 Non è l'unico comune «bonsai» che cerca di invogliare anche i forestieri a mettere le radici nel proprio territorio. Il rischio infatti è quello di sparire. Entrare nella «black list» dei centri fantasma - sono centinaia in Italia - abbandonati dopo calamità o imponenti flussi migratori. Luoghi cancellati, cumuli di storia e memoria in rovina. A Riace, il paese calabrese noto per i Bronzi, il primo cittadino Mimmo Lucano ha così deciso di aprire le porte ai profughi. Se ne contanto in pianta stabile oltre 150, trenta sono bambini. Migranti fuggiti dal Senegal, dalla Tunisia, dalla Siria e l'Algeria impiegati come operai, contadini, sarte, sostenuti da un bonus a intermittenza erogato dalla Protezione Civile. Il progetto «Città Futura» è molto semplice. «Noi vi diamo vitto e alloggio gratis più un tot di euro al mese - spiega Lucano -. Voi in cambio lavorate e mandate i figli a scuola che così non rischia di chiudere». E non solo: grazie al tam tam solidale, Riace è tornata a essere frequentata perfino dai turisti.

Miracoli della solidarietà. La palma dei Comuni meno abitati spetta però al Nord: Lombardia e Piemonte. Qui, in provincia di Alessandria, nell'alta Val Borbera sorge Carrega Ligure, 90 residenti sulla carta ma una decina di fatto durante il lunghissimo inverno. La proporzione è di 1,5 abitanti per km quadrato, tra le più basse d'Italia. Anche in questo caso è stato il sindaco a provare a rilanciare le bellezze in dismissione di Carrega per non finire nell'elenco delle «Ghost Town», paesi morti, cancellati dalla carta geografica e dall'esistenza in vita. Così Guido Gozzano nel 2008, copiando l'idea di Sgarbi a Salemi, aveva annunciato urbi et orbi che a Carrega le case sarebbero state messe in vendita a un euro. Ruderi e cascine, nella maggioranza dei casi, appartenute agli emigrati che nel secolo scorso avevano attraversato l'Atlantico senza più fare ritorno. Con il supporto della Facoltà di Architettura di Genova nel 2009 sono stati censiti 400 immobili e in tanti - ma tanti - ne hanno fatto richiesta, persino l'università del capoluogo ligure e un'intera comunità new age di stanza nel Trentino. Il problema è che molti dei proprietari delle abitazioni sono morti in America senza lasciare eredi e senza effettuare la successione dei beni in Italia. Un affaire non facilmente risolvibile. Ad Alessandrianews Gozzano spiega l'inversione di rotta: «Dalle case a un euro passeremo alle case a poco più di un euro. L'amministrazione comunale non farà più la compravendita degli immobili ma semplicemente da intermediario tra proprietari di rovine e ruderi che intendono disfarsene anche a causa delle nuove tasse, e gli acquirenti desiderosi di una qualità della vita migliore rispetto a quella delle città».

 Il finale di questa storia, nonostante la buona volontà di sindaci e coraggiosi residenti, sembra scritto. Eppure le variabili possono essere sorprendenti, inedite, impreviste. Per esempio a rilanciare Pradeltorno, frazione di Angrogna sulle Alpi Cozie, è stato il famigerato Calendario Maya. O meglio una voce di Wikipedia che attraverso una serie di complicatissimi calcoli spiegava che solo il microscopico villaggio sarebbe stato risparmiato dalla fine del mondo. I catastrofisti non si sono fatti attendere, i giornalisti neppure. Risultato: titoli, servizi, reportage che hanno permesso di scoprire un gioiello verdissimo con un tempio valdese dove abitano 16 persone, quattro sono bambine. Hanno da tre ai nove anni. Si chiamano Erika, Cecilia, Asia e Matilde. Il domani di Pradeltorno dipende da loro. 

Ma non sono sole. A Morterone, nella comunità Montana della Valsassina, è nata il 23 ottobre Arianna, residente numero 37 del comune in assoluto più piccolo d'Italia. Per festeggiarla, sfidando la neve, si è mosso anche don Agostino, il parroco di Lecco, che ha fatto suonare a lungo le campane. E a Pedesina, in Valgerola sulle Alpi Orobiche, altro paesetto lillipuziano con 30 cittadini, ha appena festeggiato i suoi primi 7 mesi Sasha Belotti, figlia di Michele e Jessica. Sei bambine, guarda caso. Sei piccole donne alle quali spetta un compito arduo ma affascinante: evitare il deserto e scongiurare la fine di pezzi d'Italia. Noi facciamo il tifo per loro, ovviamente. Come cantava Lucio Dalla: «E se è una femmina si chiamerà Futura».

Daniela Amenta
L'Unità - Gennaio 2013

giovedì 17 ottobre 2013

Il re di Palmarola


Ora che ha chiuso gli occhi azzurrissimi per sempre, in un ospedale di Roma così distante dal mirto, dalla scogliera e dal bosco di lecci, anche la sua isola è più sola. Non ci sarà più nessuno a raccogliere gli asparagi selvatici, a camminare tra le pietre coi cani quando è inverno, più nessuno a vegliare quello scoglio bello, selvaggio nelle isole Pontine. Ernesto Prudente era il re di Palmarola, il sindaco autoproclamato e l'unico residente. Se n'è andato a 84 anni in una domenica di settembre. Era nato a Ponza nel '28, professione maestro. Una vita ad insegnare alle elementari di La Forna che negli anni Cinquanta c'erano così tanti ragazzini, fino a cinquanta per classe, che a stento entravano in aula anche la lavagna e la cattedra. Una vita a scrivere, almeno una trentina di libri che poi regalava agli amici o presentava al bar del porto, e a leggere, tanto che la casa è quasi una biblioteca e adesso che lo piangono tutti e che il sindaco ha proclamato il lutto cittadino, c'è anche l'idea di fare un piccolo museo in suo nome.
 Un Robinson Crusoe bizzarro, Ernesto Prudente. Naufragato per scelta semmai e che nonostante moglie, figli e nipoti a un certo punto decise di lasciare Ponza. Via, a Palmarola, un chilometro quadrato, sei miglia oltre. Ci restava per tutto l'inverno e la primavera. D'estate no. D'estate troppo casino, troppi motoscafi. Ne 1992 era riuscito ad ottenere la residenza facendo una battaglia personale e di principio. «Perché io quando c'è da sfidare la burocrazia e battermi per i diritti sto sempre in prima fila», raccontava, intercalando il fiume di parole con altrettanti «è vero», quasi a ribadire la giustezza del suo pensiero. 
Due cani per amici, una radio per parlare con i marinai e le navi di passaggio, una casetta di 30 metri dentro una grotta la Grotta dell'acqua - a 170 metri sul livello del mare. Poi, col tempo era arrivato anche un cellulare per chiacchierare la sera con la moglie, rassicurare i parenti. «Non mi manca niente qui. Sono innamorato di questo posto. È il mio posto, il più bello del mondo, è vero....». È vero, una vertigine Palmarola, con quei tramonti che tolgono il respiro, l'ossidiana che brilla tra le rocce e le pietre, l'odore di macchia mediterranea e salsedine. E il silenzio. Perfino Ernesto Prudente a volte ne aveva paura, e raccontava che pure i cani abbassavano le orecchie e rimanevano in attesa. Come una coltre quel silenzio, rotto solo dalle urla dei gabbiani e del mare. Tanto che neppure riusciva a scrivere il maestro, al massimo tradurre il Pinocchio di Collodi in ponzese. Al massimo.
 «E che fa Ernesto? Come lo passa il tempo?». Lui sgranava gli occhi blu, un po' meravigliato e sgomento. Perché cose da fare ne aveva, il maestro Prudente, alias presidente di Palmarola. Camminare, bere l'acqua piovana, prepararsi da mangiare e mettere sul fuoco il caffè, guardare il mare e ripassare la storia: le caverne del neolitico, le frecce con l'ossidiana, le piroghe dei marinai della preistoria fino a San Silverio Papa, morto proprio lì, nell'isoletta... Ripassare i ricordi. Che anche Ponza era stata terra di confine degli antifascisti. E lui era diventato socialista così, a farsi raccontare da quelli più grandi del paese le storie degli esiliati con la faccia seria, gente che si chiamava Pertini e Terracina, Di Vittorio e Amendola, gente per bene eppure guardata a vista da quelli con le camicie nere. Che tipo il maestro e re di Palmarola, vicino di casa della stilista Alda Fendi e amico di gente famosissima . 
Famoso anche lui, al punto che era riuscito a scrivere la Costituzione della sua isola, 46 articoli in totale, mica robetta. Omen nomen il signor Ernesto, che neppure con la bonaccia andava a pescare, che ci vuole un attimo a scivolare, farsi male, e bisogna essere prudenti «quando si hanno un po' di lustri sulle spalle». Meglio il tonno in scatola, o magari i polipetti tirati su dagli amici. Adesso che se n'è andato, sulla bacheca web di Ponza racconta lo salutano commossi e compatti i suoi studenti, i concittadini, i continentali che lo avevano conosciuto. «Era il padre nobile, era il maestro che ci ha lasciato i compiti a casa da fare, era il sindaco, il punto di riferimento». Ernesto Prudente, insegnante e sovrano, ora riposa senza corona vicino al mare. Il suo regno.
Daniela Amenta
L'Unità

26 September 2012

martedì 1 ottobre 2013

Il calcio ha una gonna rossa


Quando dicono che il calcio è morto, io penso a uno che si chiamava Garrincha, con le gambe storte e zoppe. Ma soprattutto penso a loro, le Cholitas. Le madri del Cholo, l’argentino Diego Pablo Simeone, e di tutti i meticci del mondo con le facce da ladro e la volontà di ferro.
Solo chi è Cholo - mezzo sangue – può sapere cos’è l’orgoglio. Ce l’ha impresso nel codice genetico, lo porta appeso nei tratti, nel profilo. Visi da mulo, zigomi schiacciati, nasi incollati alle guance. In America li chiamano “buckwheat“, cioè “grano saraceno”, spighe brune che servono a fare le pagnotte.

Le Cholitas, però, lo sanno bene che il calcio è vivo. E che talvolta lotta assieme a noi. Negli spalti di un qualsiasi stadio dell’universo. Nel cuore di un tifoso qualsiasi che esulta o che maledice la sorte e se stesso. Nella palla qualunque che entra in una qualsivoglia rete e che per un secondo firma l’apoteosi.
Le Cholitas, le donne ibride della Bolivia con la pelle scura e la treccia lunga e nera, lo sanno. Perché giocano al pallone. E’ l’unica squadra che da secoli si tramanda di madre in figlia l’arte del dribbling, della punizione e del calcio d’angolo.
Nel paese sull’altopiano, 3.800 metri sul livello del mare, c’è poco da mangiare. Terra secca con pezzi di pepite d’oro dentro. Ma quando si prova a coltivare il “buckwheat” degli States, il grano saraceno che rende dorata una fetta di pane, le zolle non vogliono saperne. Le Cholitas si spaccano la schiena. Portano acqua alle sementi, al cavolo e al pejote, pregano tutte le Madonne. Scavano, modellano la sabbia dura, gelata d’inverno, arsa d’estate.
Poi, alla domenica, fanno pace con i campi. E giocano. Il prato è di fango. Al posto delle porte ci sono due sacchi pieni di lana, due vasi di fiori, due buste con le pietre dentro. L’unico maschio consentito in gioco è l’arbitro. Gli altri stanno fuori, a guardare.

Dovreste vederle le meticce. Gonne lunghe, rosse. Scarpe rotte. Scarpe improbabili da ginnastica, legate coi lacci alle caviglie. Consunte, zozze. Troppo larghe, troppo strette. Oppure sandali di cuoio aperti, che il piede si rattrappisce solo a vedere i sassi.
E, insomma, le Cholitas si scaldano. E sulle gonne rosse, fino alla caviglia, spesso indossano maglie bianche ed azzurre. Per via del cielo, dicono. Non sono giovani, anzi. Ma il pallone è l’unico gioco consentito, lassù, dove l’aria pesante sconvolge. E più cresce l’età, più si accampano diritti e più è facile trovare un ruolo. Quindi giocano. Giocano nel fango, sotto un sole implacabile tanto è vicino.
Chi vince si porta a casa: a) un montone; b) un pallone; c) una lattina di Coca Cola. Primo, secondo e terzo posto in classifica. E gareggiano. E corrono per il sangue delle gonne rosse, e per il cielo delle maglie. Per uno spicchio di libertà guadagnato spingendo la palla oltre. Oltre le montagne, le rocce, l’orizzonte cupo, le nuvole spesse e il raccolto magro. Giocano, tirano, urlano gol che nella lingua dei meticci vuol dire “ci sono”. E tanto basta per prender fiato e mangiare a morsi il vento, e abbracciarsi come sorelle e ridere di niente.
In Texas, una squadra di professioniste di calcio femminile ha voluto chiamarsi “Cholitas”, in loro onore. Sono certa che le mezzosangue della Bolivia neppure lo sappiano. Ma ripetano il rito del pallone, indifferenti alle nostre regole. Un fischio dell’arbitro ed entri in campo. Tre fischi ed è finita. Sotto il prato che non c’è, si stende come un gatto pigro l’America Latina.
Le Cholitas tornano a casa.
Domani ci sarà ancora da zappare.

Daniela Amenta
(Per Zazie, 2002)

lunedì 30 settembre 2013

Bella Billie




e cerca cerca cerca tra 20mila dischi uno, uno del sollievo e ti ritrovo regina. che era di luglio quando te ne andasti. referto medico: overdose. overdose di che, lady? d'amaro, d'amore negato, di more, di musica, di troppa musica meravigliosa, cantata con voce sbilenchissima e di velluto, mia perfetta imperatrice negata. donna, nera, tossica e mignotta, ed esagerata, affamata di carezze, con quelle labbra rosso sangue e una gardenia tra i capelli neri. bella billie. siediti qui, accanto, serviamoci una vodka mentre il cielo si fa arancio.
guarda lady day, guarda come roma trascolora e sembra una città come tutte le altre in questo tramonto, un tramonto di lontananze e distacchi, di vapori, di calori che salgono, e questo caldo, caldo assoluto. senti mia preferita, senti il retrogusto di gelo. lo so che lo sai, tanto che non posso ascoltare che te, e la sinfonia scura del duca ellington. non posso che ascoltarti, strange fruit, superba e disperata. e sola. e mai un bacio sulla guancia, una mano che stringe un'altra mano, neppure quando il mondo, il tuo piccolo mondo va a rotoli.
così ti vedo camminare billie, lungo la stradina che porta al parco in questo cielo arancio che si allarga come un ceffone, una macchia d'olio, una perfidia priva d'ironia a cerchi concentrici. eccoti. con l'abito buono, segno dell'ariete, orgogliosa e arrogante a catalogare (file under: sticazzi) tutti i silenzi dell'estate, e quelli della primavera, e i rifiuti, e le mani di troppo, e le assenze d'amore.
mia meravigliosa signora dell'inferno in terra e del paradiso dello spartito, trattata come l'ultima, tu la prima. comprata per un piatto di pollo e patatine, comprata per una bustina, comprabustinaperfavore, compracalma, comprasilenzio, compraassenza, comprachenonvogliosaperecomemichiamo, compraedimenticami, e anche se non compri, man,  fai finta di regalarmi un batticuore, una speranza, un sogno di risate e pelle, di cortesie e fusa, di cose favorite e di cose eterne, di cose solo per me, che non prevedono altro, altre..
e invece nulla, vero billie l'immensa? e ci giochiamo a palletta con il nulla, e il vuoto pneumatico, e le dimenticanze. ti servo un'altra vodkina calda, da classe proletaria?  tu oscilli, ancheggi, t'aggrappi a una colonna di cielo, sfoderi un sorriso maldestro e canti. e gesù canti, e mi s'apre il costato a metà. tutto il miele del mondo, tutto il dolore del monde, a un passo, tuttotutto che gira su un piatto, si riposiziona la puntina e tu riparti, mia bambina divina. e mi perdo. non ti perdo. no, non ti perdo. tu sei parte di me, signora.

a love supreme.
daniela amenta
(2003)

venerdì 27 settembre 2013

Te saluto Zanardi

Caro Paz, che anno era quando te ne sei andato? Il '98, l'88, il '78? Boh, buio profondo o desiderio di buio, che poi è lo stesso. Il giorno però me lo ricordo. Un giorno di giugno. "Noto fumettista stroncato da collasso". Tre righe lette su un quotidiano mentre un treno in corsa fischiava verso il mare. E d'improvviso il viaggio trascolarava. Senso di nausea. Paura. Vuoto. Ti ho pianto come un fratello. Il fratello fantastico e maledetto che noi, le donnine sopravvissute alla non-rivoluzione del post femminismo, post punk, post comunismo e post macedonia mista, sognavamo a fianco. Fratello eh, mica amante.
Troppo fico il Paz, troppo bello per sposarsi ai nostri giubbotti alla Fonzie, troppo geniale il Paz per camminare in sincrono coi nostri zoccoli e le gonne a fiori. Troppo audace da sostenere. Te ne sei andato come una canzone degli Who, immortale oramai. Te ne sei andato tra gli accordi di Strummer Joe e lì esisti, resisti. Come quel pezzo di Fossati che amavi: "Per niente facili, uomini sempre poco allineati". Solo che più ti cerco, meno ti trovo. E adesso, in questo millennio, mi sfuggono i tuoi Natta, i tuoi Pertini, i tuoi Craxi. Non ti capirebbero oggi Andrenza. Abbisognano di altro, io stessa abbisogno di nuovi tratti, altre passioni. Ora gli eroi hanno profili tecnologici, volti cellulari, arti digitali, visi tirati dalle frequentazioni in rete. Che ne sai Spaz? Che vuoi saperne: il Papa seppellirà Zanardi e tutti i cattivi del globo in una maestosa cerimonia, il Pci non esiste più e vien da pensare che non sia mai esistito se non come allucinazione collettiva e perfino la Lazio ha vinto uno scudetto. Qui gira tutto in fretta.
Anche la roba ha nomi di cocktail. Solo il prezzo resta invariato. Così come il costo del dolore. Ma non ti capirebbero Paz. Non capirebbero Pluto, le "vighnette", il "prima pagare poi disegno", quell'ansia di massacrarci e poi far pace con noi stessi. Gioventù bruciacchiata che "aveva 20 anni nel '77 e ora ne ha 18" e non cresce, non dimentica, conta i lutti e ti racconta come un nonno. Ma io più ti cerco e meno ti trovo in quest'epoca di Aids e giubilei, di Sms e cronaca mondana. Mi sfuggi super Apaz che ci facevi morir dal ridere con la Prolisseide ("ovvero tutte le persone famose che ho conosciuto") e piangere di sconforto con Pompeo. Nel frattempo ho conosciuto tua moglie, Marina. Bella come te, un po' meno sfolgorante. C'è l'idea di una Fondazione Pazienza. Storia nobile, vagamente tristanzuola. Chi ne usufruirebbe?
Già mi vedo, li vedo. La fila di reduci a pagare il biglietto in quel di Montalcino pur di sentirsi "forever young", a fare a gara a chi ricorda di più le battute, le matite, le citazioni. Caro Paz, ora appartieni a tutti, anche a coloro che non c'erano. Fa male. Fanno male le ristampe inutili, certe pubblicazioni all'odor di squalo, la suddivisione in parti eque del caro estinto. Fa male sentirsi tesserati di un movimento che non esiste più, analizzati come bestiole da stabulario, giudicati solo per la sequela di cazzate che abbiamo inanellato. Quelli di oggi, gagliardi e palestrati, non ti capirebbero. Non ci capiscono. Al fornaio mi danno del lei e mi chiedono se il tatuaggio sul braccio è opera dell'estetista. Cose d'Apaz, Andrea. Qui gira tutto in fretta. Non ti trovo ma mi manchi. Mi mancano le "sturiellet", i bestioni da cavalcare, le strisce acide in acido, le tristezze velenose, le fini irreversibili, irreversibili, irreversibili… Mi manchi, mi manco. Forse era amore




(Daniela Amenta, Ultrazine 2001)

sabato 21 settembre 2013

Amy Winehouse e un blues da piangere


Deve essere stato facile chiuderla nella sacca rossa, l'ultima concessione glam. Un metro e 59 centimetri per 45 chilogrammi appena. Facile tirarla su, portarla via, sotto il cielo color latte di Londra. Quarantacinque chilogrammi appena sconquassati da droghe, draghi e tatuaggi da pirata. Amy Winehouse esce di scena dal palchetto privato, numero 30 di Camden, e suo malgrado entra nella storia. Lei che proprio non aveva voglia di finire nell'almanacco del rock'n'roll, immortalata nel memorabilia dei fan affranti, dei vedovi e delle vedove con gli occhi bistrati e i capelli cotonati. Domani sarà il tempo dei cloni. Oggi non ci resta che quest'ultima immagine, la più vivida. Un sacco della polizia mortuaria. E due dischi.

Che Amy sarebbe morta giovane lo sapevano tutti. Tutti quelli che l'avevano ascoltata con un po' di cuore, oltre le orecchie. Il testamento era lì, a portata di mano, nota dopo nota. Diciamo che l'ennesimo big one, nel tumultuoso pomeriggio di un sabato britannico, è la cosa più scontata che abbia fatto negli ultimi anni. Ma a ognuno i suoi demoni, il proprio destino. Lei li aveva incisi tra l'eye liner e le corde vocali. Una voce magniloquente nonostante lo sterno minuscolo. Fragile come una meringa. Eppure quando cantava, la signoria Winehouse pareva una potente, solidissima ragazza nera. Una reginetta del soul, del rhythm 'n' blues. La madamina sboccata che intonava melodie antiche, complesse. La piccola ragazza con il seno da pin-up che usciva in vestaglia a buttare l'immondizia, rilasciava interviste al citofono, s'invaghiva di brutti ceffi. Perennemente in bilico tra scarpe troppo alte e roba troppo forte. Per questo, per questo suo ondeggiare infinito tra il culto e la mestizia dell'esistere, tra lo sguaiato e la nobiltà di uno sguardo disperato, per questo, per tutte le note stonate che non avrebbe dovuto prendere, l'amavamo. Noi amavamo la ragazza che si sentiva la meno amata.

Lo scarto tra l'aspetto e la voce l'aveva resa star, dilatandone la solitudine, la fatica di stare al mondo. Talento ne aveva. Tanto quanto ne buttava via. Lo sapevamo noi, lo sapeva benissimo lei, che gli dava il valore di un dono temporale, fugace. “Ho fatto un disco, ma in fondo è solo un disco”. “Canto, certo canto. Ma potrei fare anche la brava moglie”. Una cattiva ragazza che diceva parolacce, si faceva, collezionava storie sbagliate. E ora, a proposito di errori, il gioco dei rimandi e delle citazioni pare fuori luogo. Come un sacco mortuario rosso. Rosso come uno smalto sfacciato, un rossetto vistoso. L'ultimo paradosso.

Inutile paragonarla a Janis Joplin che sapeva stare dritta sul palco, anche dopo una pera, e aveva voce di catrame fuso. Billie Holiday, invece, le avrebbe regalato una gardenia bianca e magari avrebbero fatto a botte. La parabola di Amy nasce e finisce con lei, nell'arco di 27 fottuti anni. Lei, unica diva improbabile. Unica. Dunque questa storia si conclude con una sacca rossa, con la faccia triste di Reg Traviss tra i fiori di girasole, tra le banalità di mamma, papà e circo barnum discografico, resi celebri da una signorina bellissima e spigolosa.

Non ne nasceranno altre come lei. Per questo ci mancherà.
Ognuno ha un blues da piangere. Talvolta è alcolico, sbilenco e pazzo. Talvolta il blues è una donna. Con gli occhi tristi. Di foglia.  

Daniela Amenta
(luglio 2011)

Il respiro nero di Roma



Ci vorrebbe l’ispettore Ingravallo, quello del “Pasticciaccio brutto de via Merulana”, a decifrare segni, angoli, a riportare tutta la faccenda nel grammelot delle guardie dei romanzi, a codificare, semplificare questi giri concentrici di strade. Le strade della morte, dicono. Che è pure un bel paradosso in questa città solare, d’inverno e d’estate, chioccia e sontuosa, ma de core, eppoi luminosa, fin troppo, quasi abbagliante. E insomma don Ciccio Ingravallo, di Gadda, respirerebbe ogni particolare dello scenario. E tirerebbe su col naso pure quest’odore che aleggia ancora: sangue, sigilli col nastro adesivo, formalina, borotalco di guanti, sgommate di Volanti. Le case dei delitti di Roma, un triangolo sbilenco dalla periferia della Magliana a costeggiare Prati, fino alla suburra nobile dell’Olgiata. Le case dei delitti dimenticati, anche da chi ora ci abita. Come se bastasse rinfrescare le pareti, lavare i pavimenti con la candeggina, attaccare un bel quadro, proprio qui, guardi, su questa parete, che mi dà luce a tutta la stanza. 

La stanza è in via Poma. Via Poma 2, terzo piano dell’edifico 1B. E l’8 agosto 1990 anche nel quartiere Prati, lineare e squadrato, passato col righello. Quartiere di uffici e avvocati, la Procura a un passo, la Rai e San Pietro, e di fianco il Tevere. 



Via Poma 2 non è un palazzo, ma un condominio color biscotto. Più entrate, più uscite, l’ascensore con le grate, il giardinetto attorno, curato. E’ come allora viapomadue, tutto d’un fiato, che d’improvviso c’è il rischio che il fiato manchi, muoia in gola. Ventinove coltellate. L’ispettore Ingravallo l’avrebbe trovata così Simonetta Cesaroni, seminuda, le scarpe da ginnastica fuori la porta, 21 anni, e nel portafogli quella sua foto poi sbattuta sui giornali, proprio quella, col costume bianco, memoria dell’ultima, bella estate. Icona di un omicidio mai svelato. 
E’ rimasto tutto qui anche se il notaio Fabrizio Guerritore va di fretta. Questo è il suo studio, ora. L’annuncio “vendesi appartamento” rimase attaccato alla guardiola di Pierino Vanacore per mesi. “Prezzo abbordabile, un buon affare, considerata la zona centrale”, spiega. “Paura? E perché? Comunque la camera dove avvenne il delitto è la mia, le segretarie hanno preferito uno spazio più prossimo all’ingresso. I clienti? Quanto è accaduto non lo ricordano più, mi creda”. 


Come nessuno ricorda una vecchia toilette per cani. Via della Magliana 253/L. Qui gli edifici si stringono, chiudono il cielo. Palazzoni, traffico, Roma in lontananza. E proprio qui Pietro De Negri consumò la sua personale vendetta, o almeno così ha sempre sostenuto. Sul tavolo del “Canaro”, in una gabbia, c’era Giancarlo Ricci. Quando fu trovato, il 18 febbraio del 1988, era una sorta di troncone fumigante. Niente d’umano che perfino Ingravallo avrebbe strizzato gli occhi e infilato il naso nel bavero della giacca. Ha invece uno sguardo lieve la signora Anna, proprietaria della boutique che ha preso il posto del negozio per animali. Pareti rosa, specchi, piante, lingerie nero pece. Non manca nulla, con fantasie di ogni tipo comprese nel prezzo. “Ci siamo trasferite dopo un anno dal fatto, io e mia figlia. Prima era stato affittato a un falegname, poi a un macellaio. Poi, eccoci…” Eccoci, dunque. E che gran sorrisi, e che belle sottovesti, nella città che rimuove.

L’Olgiata, il formicaio di lusso, dista dalla Magliana quanto la luna. Erbetta all’inglese, cancelli, guardiani. Roma nord, verdissima e ombrosa. La villa di Alberica Filo Della Torre neppure si scorge dalla stradina interna. Sfolgorio di piante, tende, gazebo. 10 luglio del 1991, un altro giallo rimasto tale, con la contessa piegata su se stessa, a terra, e l’acqua della piscina lievemente increspata dal ponentino. Tutti colpevoli, tutti innocenti, un’unica vittima e sul citofono una targhetta bianca. E’ lo show room Trussardi. “Ma lo usano poco, non si vede mai nessuno”, dice a bassa voce una donna.Un party ogni tanto mentre crescono le siepi di bosso, mentre pare di intravedere Ingravallo, quasi di corsa, verso via Merulana. Lì nei pasticciacci brutti che odorano d’umanità, quella vera. Quella che neppure il tempo riesce a smarrire.

Daniela Amenta
(Urban, 2003)

venerdì 20 settembre 2013

Orietta Berti è pazza - Le scritte sui muri di Roma



Ci sono città che si intuiscono, nella loro interezza, dai cimiteri. Una visita al camposanto e si mostrano di colpo. Di colpo le vedi e le capisci. Le senti, le comprendi. E ci sono posti che iniziano e finiscono in una piazza, tra i bastioni del centro o lungo il bancone di un bar. Roma no. Roma è sfuggente. E’ troppa. Sempre a gambe aperte, denudata, ripresa, fotografata. Che credi di conoscerla e invece t’ha regalato solo un pezzettino di sé. Magari il più inutile. Bisogna camminarci. Attraversarla. Leggerla. Perché Roma è una scritta. Un’enorme scritta. Una “Pasquinata” permanente. Il sor Pasquino lasciava sui muri versi e svolazzi d’acida poesia alla faccia dei potenti. I romani fanno altrettanto. S’armano di vernici, di spray e schizzano case, monumenti, tangenziali e gallerie della metropolitana, peggio dei gatti in calore. Roma si svela così, si racconta così. Slogan dopo slogan, segno dopo segno. Come se le scritte murali fossero rughe e cicatrici di una faccia vera, i particolari determinanti di un immenso volto umano. Chi era Angela, ad esempio? Ce lo siamo chiesti in milioni, passando su Ponte Garibaldi. Era una dichiarazione a lettere cubitali, una delle prime, di cuore e di lotta: Angela ti amo. Con la A cerchiata dell’anarchia. Una scritta rossa, gigantesca, incisa sul travertino bianco dell’Isola Tiberina. La vedevi dall’autobus. Definita e definitiva, quasi fosforescente, chiarissima anche di notte. E ci immaginavamo sia lei, che lui, l’amante anonimo. Pareva di vederli, belli e rivoluzionari, a scambiarsi baci e testi di Bakunin dalle parti del fiume. Che non è biondo, nocciola semmai, ma ha argini perfetti, candidi come fogli Fabriano extralarge. Apparve proprio qui, lungo il Tevere e a pochi metri da Castel Sant’Angelo, l’epica scritta-murales. Finì sui giornali, immortalata dai turisti, altro che “Cuppolone”. Era il disegno di un polso alto almeno un metro e mezzo e con un orologio fermo sulle 11.30: “E’ ora che v’aripijate”. Così, senza altro aggiungere, senza un destinatario preciso. Messaggio tipicamente capitolino. Non tanto per il “v’aripijate” ma per il cinico disincanto. Per questa capacità dell’Urbe e dei suoi figli di trattare di calcio, politica e sentimenti con lo stesso tono sornione e malandrino. Dove altro, se non in via del Tritone, poteva trovare spazio l’estrema sintesi tra tutti gli Andreotti possibili? “Giulio fatte de gladio”. Amen.

Scritte immortali, alcune. Mai cancellate. Che resistono al tempo e al traffico della Prenestina. Qui, la consolare, da quindici anni ospita quello sberleffo più degno di un elzeviro: “Co sto caldo ce voleva un bel governo ombra”. E poi scritte multiple, con  aggiunte, richiami. In via Morgagni, dove “Lotta Continua” si è trasformata in “CarLotta Continua a fare la mignotta” in barba al politicamente corretto. O sulla Roma-L’Aquila, già in odor di autostrada. Su di un pilastro prende forma perfino il dogma religioso: “Dio c’è”. Che però si riduce in barzelletta grazie al commento di uno spray apocrifo: “o ce fa?”. Multipla anche la celebre “La Roma è Magica”, riveduta e corretta dai laziali in “Se la Roma è Magica, Cicciolina è vergine”. E via così, tra sfottò e illuminazioni ruggenti. La storia raccontata sui muri. Quella globale, di tutti. Quella privata. “Silvia sei bella come il tramonto”. E un mese dopo via Silvia, con una linea decisa di vernice. “Laura sei bella come il tramonto”. Si attendono altri nomi sulla Tangenziale Est, nuove passioni. Rimane invece unica, come Angela, la rima baciata e dolorosa sulla volta più alta ed esterna del ponte Flaminio, direzione Corso Francia: “Costanza ti amo senza speranza”, opera di un acrobata o, in alternativa, di un ragno.


Roma è così. Come questi graffi che mescolano sogni, sintomi, peripezie e visioni. Leggere Garbatella, ad esempio, è un esercizio di stile continuo. “La malavita invomita, ricca e prepotente”, recita un nauseato muretto. Poco oltre gli risponde un portoncino guardingo “A Ste, guardete tu’ sorella”. Ed ecco che quasi appare questa sorella di Stefano, fanatica e maliziosa, che l’intero quartiere controlla, spia, segue, tra ansimi e sospiri. E’ proprio in periferia che i poeti de ‘noantri si scatenano. E si scatena una romanitas surreale. Centocelle in versione Artaud si condensa nel miglior verso mai prodotto nel circondario: “Orietta Berti è pazza”. Chapeau. Che aggiungere? E’ una stilettata geniale, un colpo raffinato e a sorpresa. Che né gli Skiantos, né Elio e le Storie Tese sarebbero riusciti a fare di meglio. Oppure quell’altra. Imprevedibile, che lascia di stucco: “Non esiste rivoluzione con la motorizzazione”. E tra via dei Mirti e un reticolo di strade che hanno nomi di fiori e frutta, ancora la fantasia al potere: “Onanismo militante”.


 Benvenuti, allora. Benvenuti a Roma, dove si scrive coi pennelli indelebili. Dove ognuno ha da dire la sua. Dove si tatuano sulle pietre e sugli intonaci frasi, pensieri, romanzi di una riga. “Addio splendida e spensierata adolescenza”, commenta un Peter Pan costretto a invecchiare all’Acqua Acetosa. Replicano in via Baccelli, sul marciapiede battuto dai trans: “I signori della lussuria sono disoccupati”. E non finisce mai. Perché la “Caput” è un giornale, un libro da sfogliare che si rinnova notte dopo notte, quando l’urgenza di dire, di comunicare arma anime pazze e sconosciute. Cosicché può accadere di tutto, pagina dopo pagina, mattone dopo mattone. Vedi il caso della Montagnola che si gemella con Coney Island. Proprio così. La prima scritta apparve nel quartiere, area sud. “Roma like New York. Montagnola like Coney Island”. Da oltreoceano, la risposta chiara e forte (documentata con alcune foto che fecero il giro degli increduli residenti). “Coney Island like Montagnola”. Il che vuol dire che anche questo pezzetto anonimo di città potrebbe avere il suo Lou Reed. 

E non c’è writer che tenga. Perché nel caso delle scritte non valgono le hall of fame, i tags o i caps. Il tratto o il colore. Vale l’immaginazione, valgono l’acume matto e la voglia di spernacchiare l’insopportabile mondo del buon senso, vale il gusto di sovvertire le regole e di prendersi la parola, senza chiedere il permesso. Il manifesto d’intenti dell’intero movimento degli scrittori murali potrebbe essere in Trastevere. Via San Francesco a Ripa. “Roma città sempre vicina a tutti. Viva gli autisti degli autobus”. La città commenta, dibatte, riflette così. Si riflette su marmi e pietra povera. Si difende. “Più samba meno caramba”, “Più bonghi meno binghi”, “Baccaja reddito”. Si riprende la voce, la lingua. Si racconta, declama. Quattro milioni e mezzo di potenziali Pasquini. Il più gigantesco esercito mai schierato dalla letteratura dei poveri. “Perché come te nessuna mai”, scrivono Giacomo e Corrado sulla Nettunense. Angela, Costanza, Coney Island e Orietta Berti lo sanno bene. Come te, Roma, nessuna mai. Firmato: “Muccino pippa”.

Daniela Amenta
(Urban 2004)