domenica 3 novembre 2013

Frank Black, The Cult Of Ray




Se il compito dell'arte - come diceva Adorno - è di introdurre caos nell'ordine, Charles Michael Kitridge Thompson IV detto Frank Black, è nello specifico un vero equilibrista. Dall'87, erano i tempi di Come On Pilgrim, la sua 'missione' è quella di inserire elementi inconsueti nell'oramai prevedibilissimo universo dei quattro quarti. I suoi dischi da solo, questo è il terzo, sono in effetti un campionario di riff, svisate, déjà-vu ritmici, echi e riferimenti mescolati in una tessitura surreale assolutamente sorprendente. Un puzzle armonico che si definisce nota dopo nota, che cambia andamento di continuo. Si interrompe, riprende, modifica rotta e obiettivi. Poi riparte. Destinazione sempre sconosciuta.

Frank Black è un genio. Non solo perché è uno dei pochi che nel bazaar modaiolo della musica introduce quei 'famosi' elementi di caos. Non solo perché cita un miliardo di cose e non somiglia mai a nessuno.

Frank Black è un genio perché si porta il rock a spasso come fosse un cagnolino. Ne sposta il baricentro. Lo tratta con un'ironia sottile, se lo coccola tra le corde della chitarra, lo sbaciucchia e gli fa il verso. Lo prende in giro e gli celebra monumenti dadaisti. Un destrutturatore nato. Uno che - immagino - con i cubetti della Lego invece di costruire casette e automobiline tirava fuori giraffe con teste di elicotteri e piedi palmati. Meno fluviale del magnifico Teenager Of The Year, più omogeneo del primo, omonimo Frank Black, The Cult Of Ray è un album incandescente, pirotecnico. Un'altra piccola pietra miliare nell'imponderabile cammino del ciccione più simpatico d'America. Perché se è vero che ogni canzone di Black è un microcosmo a sé stante, è altresì necessario aggiungere che esiste un fil-rouge che unisce The Cult Of Ray ai lavori precedenti. E naturalmente alle memorabili produzioni targate Pixies. 
Un filo che Frank tira, taglia, riavvolge. "Io suono per gente che sa comprendere il rock'n'roll", ha detto. Giusto. E allora orecchie all'erta perché questo è un omaggio all'intelligenza del rock'n'roll, alla sua svampita energia, al suo potenziale rivoluzionario, ai suoi eccessi e a tutta la sua stravagante paccottiglia di miti, eroi, santi, martiri, cliché, luoghi comuni. Tutto assieme, niente escluso. Così The Cult Of Ray celebra, innanzitutto, il punk rock e si ciba di Stooges, Doors, Stranglers, Dead Kennedys, Devo, Cramps, Utopia, Velvet, Talking Heads. Come se Black avesse metà della testa occupata da un campionatore capace di memorizzare e riprodurre i frammenti sonori più disparati della storia del rock. E nell'altra metà un frullatore che mischia e tritura.

 Risultato: un disco adrenalinico, godibilissimo, veloce. Le prime cinque tracce schizzano via a duemila. Lui offre chicche chitarristiche a piene mani, forse anche per celare la clamorosa assenza di Joey Santiago, spande pennellate di virtuosismo strumentale con gioiosa nonchalance. Arriva I Don't Wanna To Hurt You, ballatona elettrica in stile Graham Parker ispirato. Ecco lo strumentale anfetaminico Mosh, Don't Pass The Guy. Ecco il desert rock rovente di Kicked In The Taco. Ecco la lunare, aritmica, sensuale e byrniana The Creature Crayling. Un altro strumentale, The Adventure And The Resolution, superbo stacco marziano che introduce Dancewar, ruvida perlina al fulmicotone. La title-track è un fuoco d'artificio dislessico tra improvvisi ralenti e furibondi schizzi melodici. Il tutto si chiude con la languida The Last Stand Of Shazeb Andleeb, deliziosa cantilena dagli accenti morbosi. 
Ottima lezione d'arte questo nuovo capitolo del Franco Nero bostoniano. Che tra battute al cianuro e insondabili coretti risponde con la sua classe formidabile ai vari neo-punkers e saluta irridente - bye bye - le proprie infinite radici, ricandidandosi come adolescente dell'anno.

Perché il rock, si sa, mantiene giovani forever and ever. Soprattutto se, più che uno stile, è un modo irrequieto, perspicace e pungente di guardare fuori e dentro di sé.

Daniela Amenta
Mucchio Selvaggio
1996

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