Se
il compito dell'arte - come diceva Adorno - è di introdurre caos
nell'ordine, Charles Michael Kitridge Thompson IV detto Frank Black,
è nello specifico un vero equilibrista. Dall'87, erano i tempi di
Come On Pilgrim, la sua 'missione' è quella di inserire elementi
inconsueti nell'oramai prevedibilissimo universo dei quattro quarti.
I suoi dischi da solo, questo è il terzo, sono in effetti un
campionario di riff, svisate, déjà-vu ritmici, echi e riferimenti
mescolati in una tessitura surreale assolutamente sorprendente. Un
puzzle armonico che si definisce nota dopo nota, che cambia andamento
di continuo. Si interrompe, riprende, modifica rotta e obiettivi. Poi
riparte. Destinazione sempre sconosciuta.
Frank Black è un genio. Non solo perché è uno dei pochi che nel bazaar modaiolo della musica introduce quei 'famosi' elementi di caos. Non solo perché cita un miliardo di cose e non somiglia mai a nessuno.
Frank Black è un genio perché si porta il rock a spasso come fosse un cagnolino. Ne sposta il baricentro. Lo tratta con un'ironia sottile, se lo coccola tra le corde della chitarra, lo sbaciucchia e gli fa il verso. Lo prende in giro e gli celebra monumenti dadaisti. Un destrutturatore nato. Uno che - immagino - con i cubetti della Lego invece di costruire casette e automobiline tirava fuori giraffe con teste di elicotteri e piedi palmati. Meno fluviale del magnifico Teenager Of The Year, più omogeneo del primo, omonimo Frank Black, The Cult Of Ray è un album incandescente, pirotecnico. Un'altra piccola pietra miliare nell'imponderabile cammino del ciccione più simpatico d'America. Perché se è vero che ogni canzone di Black è un microcosmo a sé stante, è altresì necessario aggiungere che esiste un fil-rouge che unisce The Cult Of Ray ai lavori precedenti. E naturalmente alle memorabili produzioni targate Pixies.
Un filo che
Frank tira, taglia, riavvolge. "Io suono per gente che sa
comprendere il rock'n'roll", ha detto. Giusto. E allora orecchie
all'erta perché questo è un omaggio all'intelligenza del
rock'n'roll, alla sua svampita energia, al suo potenziale
rivoluzionario, ai suoi eccessi e a tutta la sua stravagante
paccottiglia di miti, eroi, santi, martiri, cliché, luoghi comuni.
Tutto assieme, niente escluso. Così The Cult Of Ray celebra,
innanzitutto, il punk rock e si ciba di Stooges, Doors, Stranglers,
Dead Kennedys, Devo, Cramps, Utopia, Velvet, Talking Heads. Come se
Black avesse metà della testa occupata da un campionatore capace di
memorizzare e riprodurre i frammenti sonori più disparati della
storia del rock. E nell'altra metà un frullatore che mischia e
tritura.
Risultato: un disco adrenalinico, godibilissimo, veloce. Le
prime cinque tracce schizzano via a duemila. Lui offre chicche
chitarristiche a piene mani, forse anche per celare la clamorosa
assenza di Joey Santiago, spande pennellate di virtuosismo
strumentale con gioiosa nonchalance. Arriva I Don't Wanna To Hurt
You, ballatona elettrica in stile Graham Parker ispirato. Ecco lo
strumentale anfetaminico Mosh, Don't Pass The Guy. Ecco il desert
rock rovente di Kicked In The Taco. Ecco la lunare, aritmica,
sensuale e byrniana The Creature Crayling. Un altro strumentale, The
Adventure And The Resolution, superbo stacco marziano che introduce
Dancewar, ruvida perlina al fulmicotone. La title-track è un fuoco
d'artificio dislessico tra improvvisi ralenti e furibondi schizzi
melodici. Il tutto si chiude con la languida The Last Stand Of Shazeb
Andleeb, deliziosa cantilena dagli accenti morbosi.
Ottima
lezione d'arte questo nuovo capitolo del Franco Nero bostoniano. Che
tra battute al cianuro e insondabili coretti risponde con la sua
classe formidabile ai vari neo-punkers e saluta irridente - bye bye -
le proprie infinite radici, ricandidandosi come adolescente
dell'anno.
Perché il rock, si sa, mantiene giovani forever and
ever. Soprattutto se, più che uno stile, è un modo irrequieto,
perspicace e pungente di guardare fuori e dentro di sé.
Daniela Amenta
Mucchio Selvaggio
1996
Mucchio Selvaggio
1996
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