domenica 6 novembre 2016

I fotografi che fecero cantare il jazz: da Gottlieb a Leloir

Come un matrimonio riuscito, quei sodalizi strettissimi, imprescindibili. Senza dubbio una storia d'amore tra il jazz e la fotografia. Negli anni Trenta, Quaranta, Cinquanta, nell'epoca d'oro della musica afroamericana, i fotografi sono stati lo specchio degli artisti. Immagini fermate per sempre in un camerino, sul palco, dietro il proscenio o in quei Cotton Club dove il fumo si tagliava con una lama. Particolari rubati, ritratti, profili, il luccichio delle ance o dei pianoforti per descrivere un mondo di note scalpitanti che avrebbero investito l'intero Novecento.
Ritmi mai uditi, un lessico armonico scardinato dai canoni classici. Erano gli States
della guerra e della Depressione. E c'era voglia di ballare, di marciare, di urlare.
Sono state le immagini a raccontarci, al pari dei dischi, delle registrazioni, la storia di un suono, di un popolo e di una cultura che restano “graffio nell'anima”per dirla come Thelonious Monk.

Dal Dixieland alle Big Band, dallo swing al bebop, fino all'hard passando per il modale e alle improvvisazioni più spinte del free furono loro, i fotografi, a documentare quel magma mirabolante ed eterogeneo, quel «tipo di uomo con cui non vorreste uscisse vostra figlia», come amava ripetere Duke Ellington nel tentativo di definire cosa fosse il jazz. Una cattedrale di musica ribelle e meravigliosa figlia dei 
lamenti del blues, voce degli ultimi e dei diseredati. Ci sono fotografi che hanno inciso solchi come trombettisti, pianisti, sassofonisti. Hanno documentato ma soprattutto ridotto, assottigliato il solco razziale, cavalcando a loro modo la battaglia dei diritti, dell'equità, delle Sisters Rose che non avevano neanche uno strapuntino sui cui sedersi in quei tram sferraglianti dell'America del sud. Erano bianchi che fotografavano con amore i neri. E infatti nel dualismo cromatico che si fa memoria e immaginario, gli scatti sono sempre – per esigenze tecniche, storiche e un formidabile gioco del destino - in bianco e nero, con il nero che prevale come tinta e melanina. Complici e sodali di Duke, Billie, Dizzy, Louis, quasi sempre con una Leica al collo, spesso muniti di flash al magnesio che facevano un rumore infernale. Suoni entrati nei dischi come contrappunti ritmici, frammenti di sottofondo ambientale che irrompono nella scena, coordinate spazio-temporali e tuffi al cuore.

Dietro l'obiettivo gente come William Gottlieb, uno dei giganti della fotografia jazz, probabilmente il padre putativo del resto della banda, o Herman Leonard nato nel 1923 in Pennsylvania che nel 1948 lasciò la risacca dell'Oceano Atlantico per trasferirsi in Sullivan Street, Greenwich Village, New York. Fu qui, nei club arrampicati tra Broadway e Harlem, che immortalò le scarpe consunte di miss Holiday che per esibirsi doveva entrare dall'ingresso posteriore dei teatri, troppo negra anche per cantare. Oppure la tazzina di caffè di Ellington, il cappello bislacco di Lester Young, le mani d'ebano bellissime –di Miles Davis, e la stanchezza di Art Tatum. In parallelo, o con pochi anni di scarto, vennero Jim Marshall, 50 anni di carriera e un tocco magico, molto dopo arrivò anche l'ottica da 35 millimetri di Lona Foote, signora dell'avanguardia scomparsa troppo giovane e soprattutto William Claxton, californiano, classe 1927, pazzo di Chet Baker che definì “il James Dean del jazz”. A lui dobbiamo fotografie entrate nel mito, poster per le stanzette dei fanatici: Chet senza camicia, la tromba in mano, accanto ad Halima, giovanissima e splendente, che sarebbe diventata sua moglie e che lo guarda adorante. Era il 1955. Disse Claxton: «Ero affascinato da quella gente. Ognuno aveva il suo timbro e il suo temperamento. Erano ingenui, innocenti.Teste aperte. Eppure, allo stesso tempo, mostravano una disciplina ferrea, una dedizione totale per il loro mestiere. Ammiravo anche il loro individualismo, le differenze di carattere che si esprimevano in musica». 

Quando il jazz, negli anni Cinquanta, emigrò in Francia fu una deflagrazione anche per l'Europa. Tra i primi a tentare l'avventura lontano dall'America razzista fu Miles Davis, accompagnato da Tadd Dameron, Kenny Clarke e James Moody. Tra i locali di Saint-Germain des Près e Saint-Michel il trombettista di Kind of Blue perse la testa per Juliette Gréco e quel milieu esistenzialista, quell'aria nuova, accogliente, complice. Ed è qui che la macchina fotografica di Jean- Pierre Leloir, si trasforma in un totem, uno strepitoso archivio di sensazioni, note, passioni. Nato nel 1931 a Parigi,
Leloir fu davvero “l'occhio delle nostre orecchie”come lo definirono artisti del calibro di Edith Piaf, John Coltrane, Charles Mingus o Jacques Brel, George Brassens e Léo Ferré. Unosguardo ultraterreno. La sua biografia recita: «A 18 anni scoprì il jazz al liceo Carnot, ascoltando Sidney Bechet, Count Basie e Duke Ellington. Nel 1949, dopo il festival che riunì Charlie Parker e Miles Davis a Salle Pleyel, Leloir decise di interrompe gli studi per dedicarsi esclusivamente alla fotografia. Nel maggio del 1951 pubblica il suo primo scatto sulla rivista Jazz Hot Magazine. È il ritratto del pianista Jef Gilson, il primo di un centinaio a venire».

Ecco, ora quelle immagini sono parte di un progetto bellissimo, archeologia per “scatti”che torna alla luce grazie all'impegno e al coraggio di una casa discografica italiana, Egea Music, che ha usato i ritratti di Leloir come copertine di un catalogo poderoso: 50 Cd, più 50 Lp e un libro a “rivestire” con abiti sorprendenti alcuni degli album più iconici e cruciali della storia del jazz. Opere come Lady Sings The Blues di
Billie Holiday, Sketches of Spain di Davis, il Porgy and Bess reinterpretato da Ella Fitzgerald o Nina Simone che canta Ellington, Affinity di Oscar Peterson, Armstrong con Duke o le session di Coltrane. O, ancora, Portrait in jazz, con Bill Evans già dipendente dalle droghe, perso in un cappotto troppo largo, piegato sui tasti del pianoforte come un Cristo al martirio. Materiale completamente rimasterizzato, molte foto inedite che rafforzano, se possibile, il valore di suoni immortali.

Non sono scatti in studio ma momenti di vita quasi “rubati”tra aeroporti, bar, piscine, camerini. Leloir se n'è andato nel 2010 lasciandoci un'eredità pazzesca: migliaia di
rullini, moltissimi a colori, e un testamento che vale come lezione per i fotografi del futuro: «Ho amato le persone che ho fotografato ed è così che mi sono messo a loro disposizione, ma nella maniera più discreta possibile. Non ho mai pensato di essere un paparazzo, ho voluto che gli artisti dimenticassero la mia presenza in modo da poter catturare certi piccoli attimi inaspettati». Nel libro che accompagna questo catalogo mirabile, parla tra gli altri il produttore Jordi Soleil. Che spiega: «Unire le immagini di Leloir a dischi già pubblicati con le proprie copertine, dischi che sono pietre miliari del jazz è un'operazione culturale rischiosa ma eccitante. La personalità del lavoro di Jean-Pierre è così forte che una volta che abbiamo avuto tutte quante le fotografie sul tavolo ci siamo resi conto con chiarezza che il catalogo di dischi poteva benissimo rappresentare la collezione ideale non solo per gli appassionati di buona musica ma anche per coloro che amano l'arte e lo stile». E tra gli scatti di questa raccolta che toglie il fiato tanto è bella, sembra di incontrare davvero lo sguardo di Leloir, gentiluomo francese con la pipa. Immagini che suonano, vibrano mentre Parigi torna a cantare “i graffi dell'anima”.

Daniela Amenta
6 novembre 2016 - L'Unità


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