martedì 3 settembre 2013

Il divino Joe Strummer




Nato ad Ankara il 21 agosto del 1952, morto a Broomfield il 22 dicembre del 2002. Chissà come avrebbe festeggiato i sessant’anni Joe Strummer, leader sempiterno dei Clash, l’ultima grande icona del rock che toglie il fiato, chissà se avrebbe imbracciato la chitarra e insultato i potenti. Chissà che faccia a rivedere i vecchi amici - da Shane MacGowan dei Pogues a Billy Bragg - tutti chiamati a raccolta nel Somerset per Strummer of love, il festival che la famiglia ha voluto organizzare in sua memoria. Tutti qui riuniti, in questa contea verdissima e very british, per rendergli omaggio, fare casino, brindando con birre, svisate e ricordi. Una maratona sonora chiusa lo scorso 19 agosto proprio da Mick Jones, contraltare nei Clash, che con gli occhi lucidi e il vestito buono ha salutato la gente dicendo: «Joe è nei nostri cuori, corpi e anime. Ci manca tanto».

Passione totalizzante
Ci manca, non ha mai smesso di mancarci in questi dieci anni volati via. Morto per un infarto dopo una vita randagia, morto poco prima di Natale come in un romanzetto dal finale poco attendibile. Lui era Clash. Lo scontro, la sbandata, il botto, l'esplosione in testa. Joe, simbolo del pelvico bacino due decadi dopo Presley. Più che una star. Era - rimane - passione condivisa da una, due, tre generazioni. Più che un musicista, moltissimo di più. Che quando si tirano in ballo i Clash si parla di un amore totalizzante, di fette cospicue di immaginario, di gente che ti incollavi il poster in cameretta e ci parlavi, condividevi, ti vestivi uguale, parte di te. Di noi.

Joe lo strimpellatore, detto anche Woody, come quando suonava l'ukelele nel metrò, nelle case occupate. Metà busker, metà rocker, metà squatter. Magnifico ibrido. Cuore meticcio e testa a mille. Arrivò con un urlo e uno sberleffo il redentore sbilenco del rock'n'roll, che in realtà è solo folk amplificato, vive in strada, attraversa le radici popolari, i sogni comuni e li trasfigura. Si faceva chiamare Joe Strummer il nostro folkman preferito, il nostro Woodie Guthrie del'77 e aveva camicine incollate sulla pelle, stelle rosse da sceriffo brigatista, cravatte da cowboy e stivali sbeccati. Dicono: fu solo il profeta del punk. Cazzate. C'è così tanta musica nei Clash che tutto il resto pare silenzio. C'era il reggae selvaggio di Notting Hill, c'erano il fischio dei lacrimogeni, l'urlo delle molotov, l'honky tonky sgangherato dei bar all'alba, il gracchiare di mille juke boxe che macinavano 45 giri. C'era il funk negrissimo e c'era il dub di Giamaica, tempi raddoppiati, ok che diventava okkey, facciate zeppe zeppe, bianchi vestiti da brothers, rock'a'billy e roots, canzonette e inni, Sam Peckinpah e tutto il Far West.

C'era la consapevolezza che la musica potesse essere rivolta e che, anzi, cadenzasse quei giorni di piombo e morte, giorni fantastici e paurosi, indimenticabili. Strummer usciva dai dischi, scendeva in piazza con noi, occupava le università, strillava: «Siete pronti per lo scontro ?». Pronti, certo, con la chitarra di Joe, uguale a quella di Woody, strumento contro i fascisti. Pronti e senza paura. Eravamo un esercito di ribelli e danzavamo in aria. 

Londra chiamava. L’Italia rispondeva. Era il 1980, a Bologna, in piazza Maggiore. I Clash iniziarono il concerto con due ore di ritardo per colpa di Topper Headon, un signor batterista, che si era perso chissà dove. Poi fu la sacra estasi e la celebrazione del culto. E così a Firenze dove rito punk imponeva che il frontman di un gruppo venisse coperto di sputi dalla folla molto scalmanata sotto il palco. Joe nella luce bianca era come il Cristo di Pasolini, fosforescente, lavato, bagnato, benedetto, maledetto dalla doccia collettiva. Lui immobile, scolpito nei calzoni di pelle aderentissimi, spalle dritte da vero gladiatore e occhi sgranati da martire sul Golgota. Silenzioso sotto il fascio di luce. Lui che raccoglieva gli sputi, tirava fuori il pettinino dalla tasca posteriore e si allisciava i capelli. Come potrebbe non mancarci?

Come Peter Pan
Pensavamo non finisse mai. E poi finì nell'82, con Combat Rock, l'album dei record, che avrebbe dovuto contenere una sola canzone, l’unica che ci riguardasse, l'epitaffio: Straight To Hell. Era il necrologio dei Clash e di noi tutti insieme senza più poster in cameretta, sopravvissuti agli incendi, agli assalti. Orfani e dritti all’inferno. Joe continuò da solo e con i Mescaleros, ma non fu più, mai più come allora. Se ne andò a vivere nel Somerset, tra fiumi e colline, con moglie e cani. 

A marzo del 2003 sarebbe entrato nella Hall Of Fame, consegnato alla storia ordunque, e derubato alla nostra. Non ci arrivò. L’ultimo show lo dedicò ai pompieri di Londra in lotta. Quelli che spengono i fuochi di noia della Londra che brucia. Poi è tornato a casa per il Santo Natale, ha portato i cani a spasso, si è seduto e ha urlato forte: «Siete pronti per lo scontro?» come ai tempi di Career Opportunities, come quando cantava: «Spero di andare in paradiso nel 1977 perché ho preso il sussidio troppo a lungo». Dieci anni fa, un battito di ciglia. Dieci anni fa e ieri un compleanno festeggiato su Facebook, ognuno con la sua brava fotina di Strummy, per fingere che la Fender nera continui a eruttare note e i cannoni di Brixton a svegliare la gente nel cuore della notte.

Pensavamo fossi Peter Pan. E invece te ne sei andato, divino e improbabile. Unico. Ma siamo ancora pronti per lo scontro, Strummy. Dacci i tempi. Vedrai che fiamme.

Daniela Amenta
(L'Unità 22 agosto 2012)

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