giovedì 19 settembre 2013

A cento all'ora con The Who



Parigi, 4 luglio 2013


Only love 
Can make it rain 
The way the beach 
Is kissed by the sea 
Only love 
Can make it rain 
Like the sweat of lovers 
Layin' in the fields 




C'è il mare, naturalmente. Il mare grigio, gelido della Manica. Il mare che copre, risucchia e riporta a galla la storia. La storia che si ripete quarant'anni dopo, celebrata dal Quadrophenia Tour and More. Una lunghissima maratona di concerti in America iniziata nel novembre del 2011, chiusa dagli Who con una dozzina di date in Europa, un pugno di concerti tra Irlanda, Gran Bretagna, Francia e Olanda andati esauriti in pochi giorni. L'8 di luglio gran finale a Wembley, a casa loro insomma. Chissà se li rivedremo, chissà quando. Pete Townshend ha 68 anni, Roger Daltrey uno in più. Hanno attraversato il rock in lungo e in largo, l'hanno filtrato e metabolizzato, spaccato in due come una Fender su un muro di amplificatori. Hanno collezionato eccessi, gloria totale, passioni, dolori, accuse infamanti, processi, lutti. Oggi sono perfettamente «puliti» e vecchi al punto giusto per riportare in scena Quadrophenia, doppio disco massiccio del '73, l'opera rock che fotografa senza fronzoli la generazione degli anni Cinquanta, quella che - affamata e sorpresa - scopriva la vita e si lasciava alle spalle la guerra, le macerie.

 Quadrophenia è «l'ultimo grande album degli Who» ha detto più volte Townshend. Carne e sangue e sogni. Album difficile con i leitmotiv che si rincorrono, partiture orchestrali che salgono e scendono. Un disco diventato poi film che racconta la battaglia di Brighton del 1965 tra i Mod e i Rockers, la storia di Jimmy, il ragazzo a bordo di una Lambretta super accessoriata a caccia della felicità. Jimmy il fattorino incompreso dalla famiglia, abbandonato dagli amici e dall'amata fidanzatina, Jimmy fatto di droghe, Jimmy che guarda l'orizzonte latteo e lancia il suo «bolide», la sua identità ovvero, tra le onde scure della Manica. 

C'è il mare anche a Bercy, fiammeggiante Palasport parigino, il mare livido proiettato su uno schermo gigante suddiviso in tre specchi tondi come oblò, come ruote di una Lambretta. Qui, mentre Daltrey apre le danze con I' am the sea, scorre l'album di famiglia degli Who e un pezzo importante della storia del Novecento. C'è l'Inghilterra bombardata, quella che si prepara ad andare in guerra. C'è la morte di re Giorgio VI e una giovanissima Elisabetta, ci sono il cibo razionato e la Union Jack che sventola con orgoglio, c'è la ripresa, ci sono le dance hall e i ragazzi con il parka, c'è Presley e c'è anche Marilyn, c'è il boom e il punk, perfino Joe Strummer si intravede. Ma soprattutto ci sono gli Who tutti interi, tutti e quattro con la suite di Quadrophenia che detta i tempi e li dilata. C'è Keith Moon, il batterista stellare, il guitto pazzo che faceva camminare piatti e tamburi per quanto picchiava, il colosso del drumming moderno, il mai sostituito per davvero, morto a 32 anni nel 1978 per overdose di clometiazolo, il farmaco che doveva servirgli per uscire dalla tossicodipendenza. E c'è John Entwistle, il bassista di ghiaccio, il metronomo impassibile, l'uomo che aveva il ritmo nella dita stroncato da un infarto nel 2002 a Las Vegas dopo una notte di sesso e chissà cos'altro. 

Keith e John: le loro immagini si ripetono all'infinito al centro dei monitor-oblò. Sorridono, fanno le boccacce, suonano per davvero dall'alto di quegli schermi grandissimi. Una magia tecnica: video di ieri sincronizzati con lo show di oggi. Così Keith canta Bell Boy mentre John si lancia nell'assolo di 5.15. E la gente - i padri con i figli, le ex ragazze, gli adolescenti del Terzo Millennio, questa appassionata fauna di sempiterni fan che copre quattro o cinque generazioni - applaude forte ma soprattutto si commuove. Ecco, non proprio un concerto, non solo almeno. 

Uno struggente omaggio al passato, agli Who, a noi che eravamo giovani e scalciavamo ascoltandoli, al mondo com'era, con il suo mare, la sua risacca. Sul palco sono in dieci tra gli altri Pino Palladino al basso, Simon Townshend (il fratello di Pete) alla voce e alle chitarre, Zack Starkey (il figlio di Ringo Starr) alla batteria. Roger, dopo un avvio in sordina, scalda la voce e riesce a cantare per intero i 17 pezzi di Quadrophenia, emozionandoci con gli acuti impossibili di Love Reign O'er Me, Pete con una maglia da marinaretto, fa roteare la chitarra come ai vecchi tempi, e salta anche, e intona Cut My Hair, e cambia chitarre. Scorrono le immagini, scorrono le canzoni, una dietro l'altra come nel disco: The Punk And The Godfather, I'm The One, The Dirty Jobs, Helpless Dancer, Is It In My Head?, I've Had Enough... 

Sono note e luci che sembra uno spettacolo pirotecnico e Lambrette che vanno a cento all'ora e un sacco di emozioni, di ricordi. Fare pace con il passato e servircelo per quello che è. Perché Pete e Roger tengono la scena, sono in forma, invecchiati per bene, nessuna parodia delle rockstar di ieri. Il pubblico strilla «Who Who Who». Chi sei, chi siamo, chi è il prossimo? Who Are You? arriva come una fiammata tra testa e cuore. E poi You Better You Bet, Pinball Wizard. È un coro immenso ora. Tutti in piedi. Tutti a ballare. Tutti per Baba O' Riley, tutti con le mani in alto a scandire anche gli accordi di Wont' Get Fooled Again. Due ore di grande, grandissima musica che si chiudono con Tea & Theatre da Endless Wire, l'ultimo album degli Who del 2006. È quanto. Roger e Pete si abbracciano come quando erano ragazzi, come quando quest'avventura cominciò tra rabbia e poesia. The kids are always alright. Si inchinano compiti. «Siate felici, siate in salute, siate fortunati». Salutano così. Fuori c'è Parigi. Lucente e immensa.

Daniela Amenta
(l'Unità 6 luglio 2013)

Nessun commento :

Posta un commento