martedì 17 settembre 2013

Nick Drake al nostro matrimonio




La musica sarà per sempre legata alla domenica mattina. La mia, almeno.
C’era da percorrere viale Marconi, l’unica strada di Roma che racchiude un intero quartiere senza nome. C’era da camminare sotto certi raggi d’estate feroci come chiodi incandescenti, e ripararsi sotto le tendine a sbuffo dei negozi quando pioveva. C’era da marciare, tre chilometri di viale Marconi, quasi di corsa, con un’ansia e un’adrenalina che neppure allo stadio mi prende così. Quella voglia di arrivare subito alla fine, di essere lì. Lì era il tunnel che separa il quartiere senza nome da Porta Portese.
Lì è già qui, ora. E qui la domenica mattina si vendono i dischi usati.
Sono stati i miei primi dischi, comprati alla cieca dai pusher di vinile, come li chiamavano noi pischelli.
I pusher arrivavano con le buste delle discoteche più incredibili del mondo, buste rosse di Hong Kong e a strisce blu della Londra swingante e poppettara, e buste nere della New York folky e occhialuta, certamente ebrea che beveva sidro di mele e fumava sigarette al mentolo.
I pusher avevano facce esperte da freak e tenevano le buste in mano. C’era da arrampicarsi sulla punta dei piedi per guardarci dentro, passare con le dita velocemente la costola dei dischi, passare le dita perché la musica è anche tatto. Quando Eno disse che la musica era architettura compressa di suoni, capii e sorrisi. E quindi m’arrampicavo e toccavo, guardavo, valutavo con gli altri pischelli mentre i pusher se la ridevano. Che eravamo alle prese con un miliardo di titoli e due lire in tasca e il dolore estremo della selezione epocale: individuare l’album dell’isola deserta, quello per sempre, della vita.
E poche idee, e zero sapere, e tante volte scegliemmo per un’assonanza, una copertina.

Così il primo disco fu Bowie con gli occhi cangianti, neppure avevo lo stereo, ma bisognava pur cominciare. E scelsi per estetica.
Il pusher disse: «controlla che non sia rigato».
Lo sfilai della mutanda di carta bianca, lo tenni tra le mani e sotto il cielo.
Esattamente tra le mani, senza poggiare le dita sulla plastica nera come se io fossi il re del mondo e stessi analizzando un asteroide.
Il pusher, che aveva occhi azzurri come gli infissi della Grecia e i capelli rossi spiccicati a quelli di Pippi Calzelunghe, osservò.
Commentò: «siamo esperti, eh?».
Annuii. Avevo 12 anni e il cuore nelle orecchie, per il mio primo disco. Me lo incartò tra i fogli di un giornale. Ripercorsi viale Marconi, verso casa, con la sensazione precisa di essere diventata, di colpo, adulta.
Altro che baci, altro che sesso.
Bowie me l’ero scelto, l’avevo soppesato. L’unico elemento casuale poteva riguardare il contenuto. Ma per quello, c’era tempo. Bowie rimase incartato come un’icona, con la carta di giornale fermata agli angoli da due grosse orecchie. La domenica ero di nuovo lì, e pure quella dopo, e per tutte quelle che arrivarono per i successivi tre anni.
Il pusher Mariuccio fu il mio guru, e il maestro, il Don Juand el rockenroll.
«Ma lo sai che cos’è Woodstock, pischè?».
Racconta Mariuccio. E Mariuccio raccontava di palchi e decibel e di chitarre. E di quella chitarra, soprattutto.
«Lui si chiama Jimi, con una emme, ripeti. Ma può esse che non l’hai mai ascoltato? Ma non ce l’hai un fratello più grande? Ma guarda, guarda, siete uguali voi due. Ti battezzo come Jimetta». 
Ero Jimetta e il rock era roba mia, ero la sorella di Hendrix e l’allieva prediletta di Mariuccio. La musica arrivò così, per parentele impreviste, suggellate sotto il tunnel di Porta Portese. Fu così e poi nulla fu più uguale.
Quando ascoltai “Voodoo Chile” mi venne la febbre.
Era sangue del mio sangue, roba di viscere e furore scritta da mio fratello. Ero la predestinata, quindi.
Ebbi altri attacchi, a seguire, a metà tra la rosolia e il delirio, con la fronte che scottava per gli Zeppelin, i Pink Floyd, gli Who, i Kinks.
Mariuccio si aprì un negozio in provincia e sparì. Prima, l’ultima consegna.
Anzi, il primo, unico, prezioso regalo: “Bryter layter”, con la foto di un tipo senza scarpe e una chitarra in braccio.
«Ti consegno questo Jimetta, ascoltalo con attenzione. Quando cresci ci sposeremo e metteremo una canzone al nostro matrimonio».
La canzone era “At the chime of a city clock”, Mariuccio? E tu eri il cugino di Nick Drake? Ogni tanto mi ritorni in mente. E quel disco si chiude con Sunday.
Sarà di domenica che ci ritroveremo. Tu con le buste inglesi, io in punta di piedi.
Sarà di domenica che mi verrà di nuovo la febbre per un assolo, una melodia tristissima, per un uomo coi capelli spiccicati a quelli di Pippi Calzelunghe.

“When the light of the city falls
You fly to the city walls
Take off with your bride.
But at the chime of a city clock”

(Daniela Amenta per Webgol di Antonio Sofi, febbraio 2004)

Nessun commento :

Posta un commento