lunedì 2 settembre 2013

Le premonizioni di Mingus



Aveva le premonizioni, Charles Mingus. Nato il 22-4-22, per esempio. Un numero palindromo sufficiente per farlo sentire un predestinato. Così la fine di Charlie Parker gli fu annunciata da un tuono. E somiglia a un tuono lugubre, lacerante Epitaph, la sinfonia che scrisse sapendo che sarebbe stata eseguita dopo la sua morte. Era il 5 gennaio del 1979. L'uomo che suonava il contrabbasso come un lottatore di catch - «lo placcava, lo lavorava ai fianchi» - era immobile su una sedia a rotelle. L'uomo che aveva trascorso la vita mordendo l'aria, tempestando di pugni l'infinita schiera di amici-nemici, mangiando troppo, urlando troppo, suonando e scrivendo musica come un dio, l'uomo al centro di un vulcano in eruzione era fermo, come congelato, paralizzato dal morbo di Lou Gherig. Se ne era andato a Cuernavaca, in Messico, per tentare l'ultima cura. La guaritrice Pasquina provò con un rito al buio. Non accadde nulla. Aveva 56 anni Mingus. Il giorno dopo 56 balene, secondo la leggenda, si spiaggiarono nel golfo messicano. Sue Graham, la quarta moglie - una Wasp bianca, bionda e bellissima - non ebbe il tempo di vederle. Partì con le ceneri di quell'omone folle e furibondo, genio della musica contemporanea, e le disperse nelle acque del Gange. «Mingus, Mingus, Mingus: non un nome ma un verbo, il pensiero che diventa azione, spinta interiore». Così scriveva Geoff Dyer in quel capolavoro che è Natura morta con custodia di sax
Un verbo, come la sua musica. Ora furente, ora garbata e melodiosa, ora primitiva, virtuosa, sempre possente. La dicotomia sdraiata su una partitura. Hard bop, la lezione di Schönberg, Duke Ellington, Charlie Parker, Max Roach come socio per una temeraria etichetta discografica. Un mix di note e al centro la sua arte, quella capacità di attraversare gli stili con un timbro inconfondibile sia nell'evoluzionismo degli esordi con Pithecanthropus Erectus, sia nell'infernale suite per balletto di The Black Saint And the Sinner Lady, delirante ma lucidissimo affresco paranoide, con le note scritte dal suo psichiatra. In mezzo c'è il blues, certo, ora swingato, ora trasformato in bop, ora lezione free e improvvisazione pura. Il blues e le lacerazioni politiche contro l'America del potere bianco. Ma anche tutti i folli, voraci appetiti di Mingus. Sonici, erotici, gastronomici, culturali. 
Un monumentale ibrido per un artista geneticamente meticcio. La madre metà cinese e metà pellerossa, il padre nato da una donna svedese e da un uomo nero. «In me ci sono tre persone. La prima occupa sempre il centro, indifferente, senza emozioni. La seconda è come un animale spaventato che attacca perché teme di essere attaccato. E poi c'è una persona piena d'amore…,», scriveva in Beneath the underdog (in italiano Peggio di un bastardo), la sua autobiografia uscita nel 1971. Un flusso romanzato di ricordi: dalle memorie del violoncello suonato da bambino all'incontro con Red Callender, il maestro di contrabbasso. E soprattutto sesso, violenze, vita randagia, la malattia mentale e l'ombra perenne del razzismo. «Se due bianchi tintinnano il bicchiere è razzismo. E io smetto di suonare«, diceva. Valga su tutto Fables of Faubus, del 1959, squinternata e celestiale composizione contro il Governatore dell'Arkansas che impedì a 19 adolescenti di colore di accedere alla High school. Tre persone in una. «Una prolissità di se stesso», per citare le inquietudini di Pessoa. Capace di invocare Dio in ogni lingua, «farsi» 23 donne in una notte (meglio di Bird), e piangere fino a svenire per la morte di Eric Dolphy, il sassofonista prezioso, il flautista poeta, quello a cui dedicò So long Eric, il brano che poi divenne un requiem. Eric Dolphy si chiama il figlio di Mingus, bassista naturalmente. Spietato e tenero assieme, Charles, che insegnava al gatto a usare la toilette degli umani, che raccontava a Rahsaan Roland Kirk, altro meraviglioso fiatista, non vedente, che un uovo somigliava al sole. Tondo e giallo. Tutto qui: sintesi mirabolante. La schizofrenia resta la cifra stilistica di questo colosso del jazz. Ma la sua è musica immortale, così piena di vita, così pulsante e selvaggia. Coi suoni della città in sottofondo, e le sue urla, la sua voce. E i solchi del vinile costretti a contenere i fuochi d'artificio di un' arte tonda e gialla. Come un sole che tramonta nel cielo del Messico. A Cuernavaca c'è ancora un uomo-vulcano che guarda il mare. Addomestica 56 balene e poi le manda al diavolo, agitando l'archetto di un contrabbasso.

Daniela Amenta
(L'Unità 5 January 2009)

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