Il 4 novembre al Museo di Brooklyn, New
York, è prevista un'esibizione di Iggy Pop. Anzi, meglio,
“exhibition”, termine anglofono che sta ad indicare una mostra
piuttosto che uno show. In programma non ci sono i quadri del padre
putativo del punk ma 107 disegni che lo ritraggono nudo. L'idea di
trasformare il corpo della star più iconoclasta del rock in un'opera
d'arte è venuta a Jeremy Deller, artista inglese e sporadico
frequentatore della Factory di Andy Warhol. Un progetto inseguito da
tempo finché a 69 anni, “abbastanza vecchio per posare”, Pop si
è spogliato concedendosi allo sguardo di 22 pittori. Il risultato è
uno studio quasi anatomico del fisico del musicista: le pieghe sui
fianchi, le rughe sul collo, il torace non più teso come quando nel
1969 cantava/urlava/inveiva No Fun.
In mezzo secolo di carriera Iggy Pop
non ha smesso mai di sovvertire il comune senso del pudore. Sul palco
si è tagliato le vene e ha offerto il sangue al pubblico come un
Messia sacrilego, ha tirato giù la patta dei pantaloni, è rimasto
senza mutande, ha mostrato senza alcuna vergogna le vene secche della
braccia dopo anni di eroina. Sesso, provocazione e non solo. La
fisicità con Iggy diviene metalinguaggio: totem ed estensione del
messaggio sonoro. Spiega Jeremy Deller: “Il modo con cui manipola
il suo corpo, lo ostenta, lo piega e lo strapazza è un modo per
comunicare. E' musica, è un'onda di carne. Di lui ci sono migliaia
di foto. Ma ho pensato che Iggy andasse guardato in modo diverso,
come un'opera d'arte ”. Così al Museo di Brooklyn, accanto ai nudi
del musicista del Michigan, ci sono sculture sulla figura maschile
che arrivano dall'Africa e dall' India, disegni di artisti come Egon
Schiele e Max Beckmann e fotografie di Jim Steinhardt e Robert
Mapplethorpe.
Il corpo, dunque. Il corpo nel rock è una costante, una categoria. Scrive Ian Chambers in Ritmi Urbani (Costa & Nolan, 1986): “E' il corpo che in definitiva produce la musica, ne fruisce e reagisce ad essa. Ed è il corpo che connette suoni, ballo, mode e stili con il riferimento inconscio della sessualità e dell'erotismo. Qui, dove fantasia e realtà formano un tutt'uno, il senso comune è spesso ridicolizzato, disgregato e distorto”.
Il corpo, dunque. Il corpo nel rock è una costante, una categoria. Scrive Ian Chambers in Ritmi Urbani (Costa & Nolan, 1986): “E' il corpo che in definitiva produce la musica, ne fruisce e reagisce ad essa. Ed è il corpo che connette suoni, ballo, mode e stili con il riferimento inconscio della sessualità e dell'erotismo. Qui, dove fantasia e realtà formano un tutt'uno, il senso comune è spesso ridicolizzato, disgregato e distorto”.
Nell'immaginario collettivo in
principio il corpo fu quello di Elvis Presley. Non a caso detto “The
Pelvis” che con quel suo roteare il bacino come in un amplesso
fece alzare il livello ormonale di tutta l'America. Il primo re del
pop che negli anni Cinquanta seppe saccheggiare i ritmi, la
sensualità del rhythm'n'blues e a servirli come canzonette da alta
classifica. Un decennio dopo James Brown si riprese quello che
apparteneva di diritto al Dna della sua gente fino a dichiararsi nel
1970 la “Sex Machine” per eccellenza e dettare lo stile a
personaggi come Michael Jackson e Prince. L'altro punto di rottura,
l'altro corpo maiuscolo, definitivo, è quello di Jim Morrison,
leader dei Doors. Alla fine degli anni Sessanta si autocelebra come
il “Re Lucertola”: estremo, visionario, poetico e maledetto.
Bellissimo. Viene arrestato per aver mostrato i genitali in pubblico,
ed è il moderno Dioniso che ribalta ogni regola, la rappresentazione
carnale dell'inno cantato da Ian Dury nel 1977: “Sex, drugs and
rock'n'roll”. Frank Lisciandro in Diario Fotografico
(Giunti 2007) scrive di Morrison : “In scena era come un festante
dionisiaco, cantava dei miti moderni, e come uno sciamano evocava un
panico sensuale per rendere significative le parole di questi miti”.
Il
terreno è fertile, d'altra parte. I grandi raduni di Monterey (1968),
l'Isola di Wight (1968) e Woodstock (1969) stabiliscono che il rock
non è solo fenomeno di massa ma lo scenario giusto per ratificare la
rivoluzione sessuale, politica e culturale di quegli anni affollati e
affamati di liberà. Gli anni di Jimi Hendrix e di una chitarra che è
insieme vaginale e fallica, quelli degli Stones e di Mick Jagger,
tentatore come il demonio, la bocca più vorace della scena musicale
del Novecento. Da Robert Plant degli Zeppelin a Roger Daltrey degli
Who è una gara di addominali e bicipiti scolpiti, pantaloni che
fasciano e lasciano intravedere erezioni mentre Frank Zappa, come un
satiro, stende ad asciugare tra gli amplificatori gli slip delle
adolescenti in fregola. Altro che urla e lacrimucce per i Beatles...
In
scena si ammicca pesantamente, le canzoni hanno testi fin troppo
espliciti. In contemporanea col machismo estremo, un'altra corrente
di suono e pensiero gioca con l'ambiguità di genere: il Glam si
prende la rivincita sulla virilità ostenatata e attraversa il
dualismo maschio/femmina tra piume di struzzo e mascara pesante. Così
Bowie è il transgender perfetto, Lou Reed il vizioso per eccellenza,
Marc Bolan, Alice Cooper e le New York Dolls la pantomima dell'eros,
i Roxy Music un mix tra dandysmo e fantasie patinate e Freddy Mercury
il pirata sognato da Genet.
Sul
palco non c'è più solo una rockstar ma l'espressione stessa del
desiderio, corpi che cantano, e non è casuale che fino all'inizio
degli anni Settanta la fisicità sia tutta relegata ad un ambito
maschile. E' solo con il punk e grazie anche alla consapevolezza del
femminismo che le donne si trasformano da performer in soggetti
attivi: carne, sangue, linguaggio, look. Analizzando la scena
inglese nella metà degli anni settanta Dick Hebdige in Sottocultura
(Costa & Nolan, 1990) conferma l'elemento consapevolmente
trasgressivo : “Lo stile va contro natura, interrompendo il
processo di normalizzazione e offendendo la maggioranza silenziosa”.
Il
punk, in questo senso, spariglia ancora di più carte, usando quello
che Vivienne Westwood definirà “abbigliamento di sfida”: catene,
lattice, feticismo e sadomasochismo mescolati com mutandoni e
svastiche. La perversione al potere e il corpo che diventa reato.
Poly Styrene, Siouxsie o le Slits di Ari Up sembrano uscire dal
retrobottega di un pornografo strafatto. Dall'altra parte dell'oceano
Poison Ivy dei Cramps e Wendy O. Williams dei Plasmatics sono due
furie dell'eros sfacciato mentre Deborah Harry dei Blondie tiene fede
al suo passato di ex coniglietta di Playboy. Ma, come annota Dave
Laing in Il Punk – Storia di una sottocultura rock (Edt,
1991), tutte loro, in diversi modi “disinnescano l'effetto
eccitante previsto dall'esposizioni delle connotazioni proibite (…)
I pantaloni bondage, le spille di sicurezza e le borchie erano
elementi che appartenevano, sia sul palco che in strada, allo stile
del punk di entrambi i sessi. (…). E forse la rottura con le forme
convenzionali di abbigliamento fu più importante per le donne che
per gli uomini”.
Il
corpo del rock, nel tempo, è stato sovvertito, estremizzato, negato
o amplificato a dismisura. Dagli sculettamenti della disco al
testosterone dell'hip hop, dal monacale luddismo del grunge ai
paradossi mascherati e la negazione dell'identità di personaggi come
i Devo, i Residents, i Kraftwerk, fino ai violentissimi esperimenti
di carne di Genesis P-Orridge, dalla anatomia pompata e scolpita
dell'hardcore, Henry Rollins in testa, alla fisicità virtuale dei
ritmi digitali e della musica liquida. Oggi quel “corpo”
appartiene quasi esclusivamente alla popular music d'alto bordo,
parte del business più che linguaggio.
Ma
difficilmente gente come Lady Gaga entrarà in un museo come opera
d'arte. Questo è un privilegio che lasciamo volentieri a Iggy Pop,
rughe e cicatrici comprese.
Daniela Amenta
L'Unità 25 ottobre 2016
L'Unità 25 ottobre 2016
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